Il bacio di Lesbia/XII

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Ragionamenti di politica

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XI XIII
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XII

RAGIONAMENTI DI POLITICA


C
atullo di questo incontro ragionava con Clodia.

— Mio fratello, — disse Clodia, — è veramente un passionale, come voi, o caro Catullo, siete un ingenuus per tutto il climax della parola.

— Ma a chi voleva alludere vostro fratello quando parlava dei divoratori di patrimonii?

Clodia disse:

— A Cesare, Pompeo e compagnoni. Ora, poi, è avvenuto il pateracchio con la figliola di Pompeo, e le cose camminano bene: il suocero e il genero! Fra poco si aggregheranno Crasso, e il terzetto sarà compiuto. Gloria militare, oro e intelligenza! Chi dei tre credete che prevarrà? Siate certo che prevarrà la intelligenza, e Cesare sarà re di Roma.

E Catullo disse:

— I re non sono più stati tollerati in Roma dopo la cacciata di Tarquinio il Superbo. Questo nome di re è odiato in Roma.

— Oh, troverà ben lui, — rispose Clodia, — il surrogato di un altro nome! [p. 105 modifica]— Non ha gloria militare, — disse Catullo, — e senza gloria militare non si domina in Roma.

— È capace di conquistare anche quella. — I denti di Clodia balenarono, serpeggiarono le labbra, e disse: — Se non lo si ammazza prima, addio libertà di Roma! Ma a parte le simpatie e le antipatie personali, è innegabile che Cesare manovra stupendamente. Difficile a ognuno capire il suo giuoco. Vedete come è mellifluo! E grazioso con Cicerone, accarezza quell’istrice di Catone, è in buoni rapporti con mio fratello: è galante coi galanti, letterato coi litterati, grammatico coi grammatici: è profumato come una femina. Penetrante e soave è la sua voce. E pietoso. In tutte le cose, lui dice, bisogna usare pietà e ubbidire alla legge. Soltanto l’ambizione del regno può giustificare in certi casi una deviazione dalla legge, dice lui; ma per ritornare, subito dopo, alla legge. Sopra tutto è liberale: con la roba degli altri, s’intende, come vi diceva mio fratello, perché Cesare, di suo, non ha quasi più nulla. Giulio Cesare, poi, è discendente da Venere, e forse questo fu buon titolo per la sua proclamazione a Pontefice. Che razza però di Venere! Noi abbiamo a Baja una villa non lontana da quella di Mamurra. E poi certe cose si sanno. E la sposina, [p. 106 modifica] la bella Pompea abbandonata piange! Tradita per Mamurra!

Strideva cosi dicendo il riso di Clodia, e continuò: — Mio fratello qui è stato battuto da Cesare, e gli brucia proprio ! C’era una simpatia di Pompea per mio fratello. Ma state certo che Cesare arriva sempre prima, e quando meno ve lo aspettate. È tanto che dicevo a Clodio: fa presto, deciditi, sposala. Oltre a tutto, era un ottimo affare politico. E intanto è arrivato Cesare. Dicono, e ’io non dico di no, che mio fratello è un libertino. Ma io vi dico anche che è una vittima delle signore, pulzelle e maritate. Non lo lasciano in pace, e intanto trascura gli affari. Ora Clodio va dicendo che lo vuol far becco, a Cesare, e in modo clamoroso si che tutta Roma lo sappia e ne rida, ma non si sappia da chi ha avuto questo onore. E vèntila certi suoi piani! Non è cattiva idea, gli dico io. Tu prendi con una stessa fava due piccioni: il piccione sentimentale e il piccione politico. Cesare, fatto cornuto in grande, notorietà, diventa la favola di Roma, e se Venere genitrice non lo assiste, può essere smontato presso la mobile turba dei Quiriti.


Per meglio intendere queste parole di Clodia, diremo come Pompeo aveva concesso la [p. 107 modifica] mano della sua giovinetta figlia Pompea a Cesare. Pompeo era la gloria di Roma. Aveva sterminato i pirati, per lui fu vinto l’implacabile Mitridate. Ora Pompeo si appresta, dall’Asia, al trionfo che Roma gli prepara. Tempesta che vuole il trionfo. Quale legame, ora anche di sangue, tra Cesare e Pompeo! Quale potenza! Quale avvenire! Pompeo è appena di sei anni maggiore di Cesare.

Ma chi avrebbe imaginato che sarebbe venuto un giorno in cui al genero sarebbe stata offerta in regalo la testa del suocero, staccata dal busto?

L’ardente Clio, oltre ai ritornelli, si compiace talvolta di questi lugubri giochi: e, strano! anche le più alte intelligenze non se ne ricordano.


Domandava Catullo a Clodia a proposito di queste espropriazioni, divorazioni, rivoluzioni:

— Ma non ci sono i Consoli per nostra difesa?

E Clodia rispose sorridendo:

— Provvèdano i Consoli affinché la Repubblica non soffra danno. Questo è il primo articolo dello Statuto.

— Adesso è console Metello Celere, vostro marito, — disse Catullo —. Speriamo in bene.

— Mio marito? È un uomo probo. Non serve. [p. 108 modifica] — Allora Pompeo —, suggerì Catullo.

— Pompeo? —, disse la dama —. Bell’uomo!

Splendida carriera militare! Ma non dimentichiamo che se ha vinto Mitridate, il primo colpo a questo barbaro tremendo glielo ha dato Lucullo. Vi devo dire il mio pensiero?

Lucullo, che si è messo a fare il simposiarca, mi fa venire in mente Scipione che manda a dire: «Ingrata patria, non avrai le mie ossa». Vi piace quel «magno» che Pompeo si fa dare? Vanità per vanità, preferisco Cesare che si fa chiamare figlio di Venere. Cosi almeno sbalordisce il popolo. Che Pompeo valga poco in politica, ve lo dimostra il fatto che si è appoggiato a Cesare con quel parentado della figlia. E il buon Cicerone prendeva Pompeo per un secondo Scipione Emiliano!

— Allora —, disse Catullo —, ci sarebbe Licinio Crasso.

— Un ebreo! — disse Clodia. — Al tempo delle proscrizioni sfilane si è approfittato per comprare le case di mezza Roma per niente, e ora commercia su le espropriazioni per utilità pubblica. Roma deve diventare tutta di marmo. E giù catapecchie, d’accordo con gli ingegneri.

— Catone! — disse Catullo.

— Un porcospino, onesto e stupido.

— L’aristocrazia, allora! [p. 109 modifica]E Clodia disse:

— Quale aristocrazia? L’aristocrazia non ha viscere, è ingrata come i re. Badate bene: io non sono stata mai d’accordo con Cicerone contro Catilina, ma l’aristocrazia doveva trattar meglio chi l’ha salvata e ha corso rischio anche di farsi ammazzare. E lo guardano dall’alto in basso, povero Marco Tullio, perché non è un affarista. E poi? È troppo intelligente per loro. E poi è di Ciociaria o giù di li. È inquilino di Roma, dicono: non romano.

— Cicerone —, disse Catullo —, ecco allora l’uomo che andrebbe bene; bisognerebbe nominarlo console un’altra volta.

— Al buon Cicerone non gli affiderei proprio per la seconda volta il governo della Repubblica.

Cosi rispose Clodia, e aggiunse:

— Cicerone ha troppe idee. Un uomo di Stato quando ha due idee, tre al massimo, basta! La cosa si aggrava in Cicerone perché possiede una vanità di cui non s’accorge! Ve lo dimostro: l’ultimo bollettino di Pompeo al Senato annunciava che la guerra contro Mitridate era finita. Ma di Cicerone nemmeno una parola! Figurarsi Cicerone! Ha finito anche lui la guerra contro Catilina, e non si vede nominato! La ragione è evidente. Pompeo, che di cose di mare se ne intende, ha [p. 110 modifica] detto al timoniere: «Tutto alla banda verso il fronte popolare». Allora Cicerone scrive a Pompeo una lettera piena di complimenti per la sua vittoria sopra Mitridate, e poi dice: «Io mi aspettavo le tue congratulazioni e per dovere di collega et reipublicae causa. Stai zitto per non comprometterti coi popolari? Allora parliamoci chiaro: se tu hai vinto Mitridate, noi abbiamo salvato la civiltà! Noi abbiamo fatto tali cose in Roma di cui la fama durerà in eterno e avrà l’approvazione di ogni gente. Quando verrai a Roma e saprai le gesta compiute, meo consilio et tanta animi magnitudine, sarai felice di essere congiunto in amicizia con me». La congiura di Catilina? — domandò ironicamente Clodia a Catullo. Ribellione di pochi patrizi squattrinati, che lui mutò in tragedia. E dopo ciò non vi pare di vedere Cicerone che incede in trionfo e dice a Pompeo: «Prima io, e dopo te. Cedant arma togae»?

— Vostro fratello, allora!

— Un buon ragazzo, di cuore, sapete! Ma crede che tutto si possa risolvere col pugnale.

— E allora? — domandò Catullo.

— Allora? Non ve lo so dire. Vivamus, mi Catulle, et amemus, — concluse la donna con dolce sorriso.