Il bacio di Lesbia/XXVII

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Quel che fece Catullo

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XXVII

QUEL CHE FECE CATULLO


S
i doleva Catullo che gli Dei non avessero compassione di lui e non gli portassero nessun aiuto. Ma aiutati da te, o uomo! e un Dio ti aiuterà. Intanto comincia a non andare più nei luoghi dove va lei, sta in casa, e alla peggio pensa di fare un gran viaggio lontano da Roma.

Va a visitare le chiare città dell’Asia. Q vuole, insomma, un atto energico. Catullo in definitiva deve giurare a Catullo che non vedrà mai più, mai più la Signora. E non facciamo giochi di compromesso con dei «se», dei «ma», del «se per caso». Un taglio netto, risolutivo, come fanno gli orientali quando è morto il loro signore. Si immergono la spada nel ventre e poi la fanno passare, tagliando sempre, da destra a sinistra. Se la tua Dea è morta, e tu tàgliati il ventre, e cosi sarai guarito.

Ricordati, Catullo, diceva lui a se stesso, di non pencolare. Sta duro, tien duro; sta duro, durissimo, nel tuo proponimento.

In verità, soffriva molto.

E cominciò intanto a non uscir di casa, e si lasciò crescere la barba, e avverti gli amici [p. 178 modifica] che intendeva mutare vita, darsi a pratiche religiose; e se per il passato aveva scritto poesie d’amore, ora intendeva scrivere poesie sacre: insomma aveva deliberato di abbandonare la strada del vizio per la strada della virtù.

Diceva Catullo a Catullo cosi:

«Arriva un momento nella vita in cui ogni uomo che ha fior di senno, segue il consiglio di Prodico: si leva dai voluttabri del vizio e si avvia per il sentiero della virtù. Perciò abbiamo deciso di lasciare, e per sempre, la Signora».

Alle terme, in piazza, nei tabarini, Catullo non si vede più.

Tutto il mondo galante ripeteva: «Non sapete? Catullo ha lasciato la Signora».

Per aiutarsi a mantenere il giuramento, Catullo era ricorso al falerno.

— Olà, ragazzo —, diceva al suo cameriere, — giù da bere! ìnger mihi càlices amariores.

E bevi bicchieri che ti bevi: coppe su coppe di quel vino terribile, che era del più fino, di quello usato nelle mense pontificali, si accorse che il vino gli giocava pessimi scherzi: gli colavano le lagrime dagli occhi, poi scrosci di pianto, poi lamenti, e fra le lagrime e le grida usciva in queste parole:

«Si, addio per sempre, ingrata e adorata. Addio! Catullo è già ben fermo, e resiste e [p. 179 modifica] non ti pregherà più. Allora tu ben ti pentirai quando non sarai più pregata. Ahimè per te, cattiva che sei! Che vita sarà la tua? Se io non vengo a te, chi verrà che ti ami come me? A chi sembrerai cosi bella come sembri a me? Chi sarà il tuo amante? Di chi dirai tu di essere amante? A chi darai i tuoi baci, a chi morderai coi baci le labbra?».

Quando si fu accorto di queste incongruenze, diede ordine al cameriere di bèrselo lui il falerno, o di buttarlo via. Strappò una bellissima toga cosi da rendere impossibile l’uscir decoroso di casa.

Queste dicerie su Catullo erano intanto arrivate agli orecchi di Clodia, alla quale Catullo aveva, per tal modo, fatto la peggiore villania che uomo possa fare a signora di mondo.


Una delle faccende più intime e delicate che ogni donna conosce già per istinto, ma che fu poi trattata dottamente da Ovidio nei suoi Amores, consiste nel tempo, nel modo, nel luogo dell’abbandono che la donna amante fa dell’uomo amante. Una donna, specie di gran vita galante, è lei che pianta, e non si fa piantare. È lei che sa quando, e come, e dove, e se pianterà. Una donna poi, oltre che bella, anche intelligente, non si farà mai battere su questo terreno: ne uscirebbe disonorata [p. 180 modifica] come un generale di gran nominanza che si fa battere di sorpresa da un nemico da poco.

Nella fattispecie di Catullo la cosa rivestiva una inusitata gravità. In letteratura si sa che cosa è una «pleiade»: è una costellazione di poeti di cui si fa l’elenco, la descrizione di ciascuna stella, le previsioni su la loro immortalità, su la loro dimensione: stelle di prima grandezza, stelle nebulose, stellone, stelline. La pleiade che allora saliva sull’orizzonte della poesia, come si è veduto e come fu detto, era la pleiade alessandrina dei cantores novi, dei bei giovani, i neòteri, che poi vuol dire, in lingua greca, dei sempre più giovani. Essi domandavano il passo! Ora Catullo disorientava tutti. Se anche non era bello come Egnazio, né poeta come Suffeno, era stella! sia pure stravagante o errante, ma stella che va con le altre stelle, se e quando gli piace: ma va per conto proprio anche se sembra andare con le altre stelle. In una parola era unico, era riconosciuto unico, e fra lirico puro, lirico impuro, satirico e strafottente, non si sapeva cosa fosse. Certo era lui.


Catullo non lo faceva per malignità, ma perché non era capace di frenarsi, di chiudere un sentimento dentro di sé. Tutti lo sapevano che Catullo aveva piantato Clodia. Era un [p. 181 modifica] bel disonore! E non so se quel «scortica i nepoti di Romolo e Remo» era un disonore uguale per quella dama.


Considerate tutte queste cose, la dama mandò alcuni amici comuni a casa Catullo per sapere come stava con tutto quel male est, male est, che lui andava ripetendo, e poi per sapere perché non si faceva più vedere. Gli amici trovarono Catullo in casa, emaciato, con una barba lunga, ravvolto in un mantellaccio, che stava tracciando grandi versi su fogli di carta regia.

— Come stai, Catullo?

— Meravigliosamente bene, — rispose. — Vivo in compagnia degli Dei e delle Dee. Essi mi rivelano i grandi misteri. Perché voi dovete ammettere che ci deve essere stata una ragione perché il sommo dio Cronos dava la caccia a suo figlio Giove finché era bambino col pispolino ancora incapace alla generazione, e lo voleva mangiare. Voi ben sapete che fu la gran madre Idea, la divina Cibele, che salvò il pargoletto. Lo nascose tra le selve e le nevi del monte Ida, e ordinò ai Coribanti insonni che squassando gli scudi di rame e battendo i sistri, tenessero lontano Cronos il divoratore.

— Ne verrà fuori —, risposero gli amici, — una poesia delle vostre, molto originale. [p. 182 modifica]— Lo credo bene.

— Ma è questa una ragione per non farvi più vedere?

— Chi vive con gli Dei non può più convivere con gli uomini. E poi c’è il mio naso.

— Avete male al naso?

— Il mio disgraziatissimo naso sente terribilmente gli odori, e quindi anche i fetori. La cloaca maxima di Tarquinio Prisco domanda urgenti riparazioni. Io non mi interesso di politica, voi lo sapete: ma troppi comizii, troppe elezioni, troppi elettori, troppi tribuni! Roma ha dimenticato ciò che disse Servio Tullio: ne plurimi plurimum valeant. Allora viene fuori il castigamatti. Se sto in casa, ho il beneficio che non vedo Mamurra. Non vedo Nonio, non vedo Esprenate, non vedo Vatinio. Vatinio ha detto che col favore di Cesare può arrivare dove vuole. Quello scrofoloso di Nonio siede in cadrega, grande magistrato. Vatinio ha spergiurato pur di arrivare a console. Cosa stiamo a fare in questo mondo? Catullo, Catullo, io dico a Catullo, ché non ti decidi a morire? Il fetore poi delle scrofole di Nonio mi è insopportabile. Vivendo con gli Dei, mi sono abituato all’odore dell’ambrosia immortale, e mi sono persuaso della verità espressa dalla Dea, la quale disse in segretezza a Cleobi e Bitone, che è meglio morire che vivere. [p. 183 modifica]— O misero Catullo, — dissero gli amici — se tu muori, che ne dirà la Signora?

— La Signora è già morta e io sono per morire. Morituri vos salutant.

— Lasciamo da parte gli scherzi, Catullo, — insistettero gli amici. — Noi ti veniamo a dire che tu ti comporti molto poco bene. La Signora è molto spiacente e vuole sapere perché ce l’hai con lei. Faresti azione da gentiluomo, facendo sapere alla Signora perché ti sei guastato con lei.

— Oggi non ho tempo; ho faccende con Attis e con Cibele.

— Ci dispiace, Catullo, ma noi pure non abbiamo tempo; ci è venuto l’ordine di partenza. Dobbiamo raggiungere la coorte di Cesare che è già partita per la tua Cisalpina.

— Lo sappiamo: Cesare, Pompeo e Crasso si sono divisi il mondo: ma tenete a mente che il mondo appartiene agli Dei e non agli uomini. A me pure è venuto l’ordine di partenza! Secondo l’ordine che Natura diede, tutti partiremo.

— Scrivi prima una lettera alla Signora, — dissero gli amici.

— Io non sono come Cesare, — rispose Catullo, — che può scrivere due lettere in un tempo solo. Se scrivo agli Dei, non posso scrivere a quella donna. Comunque ci penserò [p. 184 modifica] e, caso mai, il messaggio lo manderò a voi, quando sarete arrivati all’ultima Thule: voi, poi, vi intenderete fra voi per farlo recapitare a lei. Mi farete grazia se non mi distrarrete davvantaggio. Vi dico: sono occupato con gli Dei.

E accomiatava gli amici.