Il buon cuore - Anno VIII, n. 48 - 27 novembre 1909/Educazione ed Istruzione

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Educazione ed Istruzione

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Beneficenza Religione

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MISSIONE DI DONNA

LA CONFERENZA DEL PROF. BETTAZZI


Domenica, l’ampio salone della nota casa in via Bossi, n. 2, era gremito di un uditorio scelto, composto, in gran parte di signore e signorine benefiche, le quali attendevano dalle labbra dell’egregio prof. Rodolfo Bettazzi una conferenza sulla Missione della donna.

Ai posti distinti notammo una rappresentanza del Prefetto e il procuratore del Re, cav. avv. Maggi.

Presentato rapidamente dal signor A. M. Cornelio, il conferenziere entrò subito nell’argomento e, con parola vibrante di calda, profonda convinzione, accennò alle molte opere intorno alle quali si svolge la vita delle donne attive e illuminate dallo spirito della beneficenza. Fece un raffronto caratteristico tra le signore animate da caritatevole sollecitudine altruistica e quelle signore pur buone, divote, ma limitate nell’azione all’ambiente famigliare. Sono donne che ignorano quanto si può e si deve fare per la salvezza di tante giovani pericolanti, e sono anche donne che limitano la loro azione per falsi pregiudizi, dimenticando che il cristianesimo ha fatto della donna schiava una sorella. Viene di conseguenza per chi può agire il dovere del sollievo, del conforto, dell’aiuto a chi soffre o pericola, l’appoggio efficace alle opere di carità e di giustizia.

La donna pia è e deve essere l’angelo della casa, sì, ma il suo cuore deve espandersi e interessarsi agli infelici, perchè così vuole la suprema legge della fratellanza e dell’amore promulgata da Cristo. Il tenersi lontani da ogni miseria nuoce alla vita intima famigliare, la quale sente invece i benefici effetti di certe visioni affliggenti, di certi raffronti, tanto più nell’ora del dolore.

Le signore che hanno sofferto — esclama il conferenziere — mi intendono certamente!

L’egregio professore illustra poi con chiarezza e con forma smagliante, l’opera cattolica internazionale della protezione della giovane, che è un bisogno sociale e quindi un dovere. Accenna rapidamente e con frasi incisive ai molteplici pericoli, ai quali la sventura, la speculazione e l’insidia espongono molte giovani e giovanette. Tra i pericoli continui sono quelli della stampa oscena e degli spettacoli immorali. Anche il santuario della famiglia non ha sufficiente vigilanza e vi ha pur troppo chi vi porta il periodico sconciamente illustrato o il discorso scorretto.

Il conferenziere descrive poscia certi ambienti in cui le famiglie sono ammucchiate e abbrutite dalla miseria e dal vizio; esce di poi nelle vie della città ed entra nei laboratori e nelle officine, dove l’immoralità e le dottrine sovversive cagionano rovine irreparabili col tramonto e il naufragio del sentimento religioso. Ascenda pure il popolo — esclama l’oratore — a nobili ideali, ma non divenga a sua volta materialista e tiranno! Accenna quindi alle molte giovani incaute, che, sospinte dal bisogno, abbandonano i monti e i campi per cercare occupazione in città, ove trovano inenarrabili pericoli pronti dalla stazione ferroviaria alla famiglia a cui si dirigono.

L’opera della protezione della giovane tende appunto alla assistenza delle giovani senza guida, abbandonate a sè stesse, e ispirandosi a ciò che suggerisce la religione cattolica — senza intransigenze, senza esclusivismi, riconoscendo anche il bene che altri possono fare con diversi obbiettivi — apre il cuore e le braccia e le porte alla fanciulla selvaggia come alla pallida fanciulla europea.

Il conferenziere accenna con soddisfazione all’adesione di S. M. la Regina Elena e finisce con un splendida perorazione, tra gli applausi dell’uditorio commosso, che, colle autorità, circonda l’oratore, chiedendogli la stampa e la massima pubblicità del lavoro veramente ispirato e ricco di fatti e di esempi eloquenti.

Comitato delle Scrittrici in braille


Lunedì, 29 corrente, alle ore 15, nell’Istituto dei Ciechi, avrà luogo l’adunarvi delle Scrittrici braille.

Verranno presentati, dopo il lungo periodo delle vacanze, numerosi volumi di opere già trascritte, colle proposte di altre da trascriversi. [p. 375 modifica]

SOCIETA’ DI MUTUO SOCCORSO

Fra i Ciechi di ambo i sessi

Il movimento di associazione fra i membri di una medesima classe e professione, caratteristico dell’epoca nostra, si è fatto sentire anche nella classe dei ciechi.

Gli Istituti provvedono alla loro istruzione, e fra questi tiene certo un posto eminente l’Istituto di Milano, colle quattro istituzioni raggruppate che lo costituiscono, l’Asilo Infantile, l’Istituto, l’Asilo Mondolfo, il Laboratorio Zirotti, coll’aggiunta di un limitato patronato che l’Istituto esercita con opportuni sussidi a favore di Ciechi già usciti dall’Istituto.

Era però naturale e commendevole che i Ciechi adulti d’ambo i sessi, usciti o non usciti dall’Istituto, pur mantenendo cordiali rapporti col Consiglio e colla Direzione dell’Istituto, si collegassero in Società, per promovere il mutuo soccorso fra di loro, ed escogitare i mezzi che meglio provvedessero al vantaggio ed alla elevazione della classe.

La società di mutuo soccorso già costituita, ha per presidente il signor Ascenso Antonio, cieco, organista nella Basilica di S. Nazaro Maggiore, e maestro di piano nell’Istituto dei Ciechi, persona che alla coltura della mente unisce la probità e il criterio della vita.

A favore di questa Società si tenne domenica, 14 corrente, nel salone dell’Istituto dei Ciechi, gentilmente concesso dal Consiglio dell’Istituto, un concerto di musica vocale e istrumentale, eseguito quasi completamente da maestri e allievi ciechi. Il salone era affollato. Un bacile alla porta accoglieva le offerte spontanee degli intervenuti. I pezzi furono vivamente applauditi.

Fra la prima e la seconda parte del concerto, il professore Giuseppe Nolli, già noto per pregevoli scritti in versi e in prosa, lesse un discorso, che qui sotto pubblichiamo, nel quale, con vivo entusiasmo e con frase alata, inneggiò alle sorti della Società di mutuo soccorso, che rappresenta pei ciechi una nuova forma di assistenza, che li porta nel concerto della comune vita sociale.

Signore e Signori.

Parlare così, fra la prima e la seconda parte di uno scelto programma musicale, mettere la propria parola fredda, come un cuneo fra il piacere gustato e il piacere imminente, non è certo la cosa più gradita che si possa immaginare, così per il dicitore come per il pubblico.

L’onda di suono, appena rinchiusa dentro un crosciare sincero d’applausi, è ancora troppo nell’anima vostra, perchè di colpo ve ne possiate staccare per accogliere un’onda più dimessa, la prosa.

Ricordate ancora, per un attimo, l’armonia che è salita dalla tastiera, il canto che vi ha toccato il cuore e vi ha velato lo sguardo, ricordate le altre voci diverse che, a tratti, sono sembrate suppliche, lacrime, allegrezze, preghiere; e tutte le molteplici effusioni degli strumenti in cui vi parve di sentire non il tocco di una corda o il sapiente strisciare di un archetto, ma lo snodarsi e il defluire mirabile dell’anima e della passione del compositore, rivelate dall’anima e dalla passione degli interpreti.

Abbandonatevi al ricordo e sia questo un momento musicale che vi intenerisca. Io ho bisogno che voi riceviate questa mia parola, che non è musica, ma che deriva dalla musica, col sentimento medesimo col quale avete ascoltato fino a pochi momenti or sono: ricordate dunque intensamente, acuite lo sforzo così, che il ricordo vi si tramuti in una riudizione, e vi muova dentro lo stesso entusiasmo che vi ha suscitato dapprima, e lo stesso impeto per il quale, più d’uno di voi, se avesse avuto a portata della mano, la mano che aveva fatto gemere i tasti, l’avrebbe stretta in un consentimento pieno d’amore; per il quale, più d’una di voi, gentilissime, se avesse avuto a fianco la cantatrice che ha così soavemente modulato, trillato, e l’artista che ne ha tenuti in così grande dolcezza, le avrebbe baciate sulla bocca, in un consentimento pieno di sacrificio.

La musica che avete udito ora è poco, vi ha magnificata la poesia della vita, vi ha condotto in una cerchia ove le contingenze meteriali si smorzano e scompaiono.

Io faccio a rovescio: colla mia parola ve ne soffoco dentro il ricordo e vi ricaccio nella vita; nella vita che, non illudiamoci, avrà un’essenza abbellita di musica, ricamata di sogni, profumata, miniata, infiorata; ma sarà sempre contesta di dolore, sopra una trama di spine.

Perdonatemi, è necessario.

Ho detto che la mia parola si sarebbe immessa, come un cuneo, fra la prima e la seconda parte pel programma; ed un cuneo, penetrando, sgretola sempre qualcosa, io distruggo ora la vostra impressione, ma una lusinga mi sorride e mi sostiene, quella di far breccia, una buona, una grande breccia.

O voi avete già capito dove mira questo mio parlare, sapete già, prima ch’io venga alla conclusione, quale sarà la mia preghiera finale, e forse immaginate già il razzo d’effetto, col quale si è abituati a chiudere simili discorsi, e avrete la curiosità di farne un parallelo con altri analoghi, o quasi; ma quello che non sapete ancora, e ch’io ci tengo ad annunciarvi, è la sincerità pulsante nelle intenzioni e nelle parole di questo mio rapido esporre e il desiderio, permettetemi la frase che dice tutto un po’ ruvidamente, che, parlando a voi di necessità di ciechi, io non debba aver a che fare con dei sordi.

Ma dappertutto sono annunciati trattenimenti di beneficenza, fiere a sollievo di miserabili, opere pie per vecchi, soccorsi per bimbi e madri ed orfani, non una branchia, forse, della vasta miseria che simile ad una piovra immensa allunga i suoi tentacoli dovunque, è stata dimenticata dalla carità, suddivisa nelle sue forme più varie: non una forse. Ma qui, o signori, la cosa è essenzialmente diversa, non è la carità che vi si domanda, nè la pietà che si implora; bensì la cooperazione e la fratellanza per il divenire di un’opera che ha in sè tanto di bontà e d’arditezza, quanto certamente non ne può capire nessun’altra opera del genere.

Si tratta di una società di mutuo soccorso fra ciechi e semi-ciechi d’ambo i sessi, ed è la prima volta, ch’io mi sappia, che un simile tentativo di communione fra disgraziati viene esplicato e si mette da sè, con bel gesto e con sicura coscienza, a suo posto, nella vita che ogni giorno si vive, faccia a faccia con tutte le altre [p. 376 modifica]associazioni, pronto a difendere ed a rivendicare i propri interessi, atto allo svolgimento di un suo proprio ideale di benessere in conformità coll’ideale del benessere collettivo, concio così dei propri doveri come dei propri diritti.

Io, giovane, sono felicissimo di poter constatare in mezzo a questa simpatica adunanza il primo passo, il più difficile, della nuova società che s’è fatta e mi è sopratutto caro pensarne il primissimo inizio.

Una Società di mutuo soccorso fra ciechi? la frase è subito detta, non ha per entro la semplicità della sua forma, nulla che la contraddistingua dalle altre, dalle solite frasi formatesi col sorgere di un sodalizio nuovo: ma pensiamo solo, se lo possiamo far subito ed interamente, la grandezza e l’importanza del suo significato.

Che cosa è stato il cieco nella vita fino ad ieri? che cosa è ancora nel pregiudizio di molti oggi?

Oh la risposta è tristissima: se non è stato precisamente lo zèro, nella coscienza comune non ha certo potuto farsi valere di più. Non hanno valso singole personalità spiccate a far mutar d’opinione la folla; si è gridato all’eccezione, si è detto che non bastava un musicista, che non era sufficiente un poeta, che a nulla valeva un pensatore ed ancor meno un sociologo perduti in tutto il buio del loro gruppo giacente senza luce: si è creduto e fatto credere che nessuna forza umana avrebbe potuto sollevare dall’inferiorità del loro stato, tutti questi offesi negli occhi.

Pochi dalla folla si staccarono per dar loro un aiuto; ma intanto mentre si blaterava e si trascurava, il musicista cieco esprimeva la potenza e la dolcezza del suo cantico, il poeta cieco svolgeva la triste melodia della sua anima o balzava dritto verso la sua conquista ed il suo sogno, il pensatore cieco traeva dalla sua mente feconda l’idea, e la buttava come il seme, sperando; e il sociologo ha dimostrato con la sua logica, la necessità e la fatalità della continua ascensione umana, incitava i suoi compagni offesi ad agire e salire verso tutte le carezze, verso tutte le raffiche, verso tutte le forme della vita.

E fu allora, attorno a questi primi sollevatori della classe, e attorno agli altri pochissimi, che, per cuore, per ingegno, per censo, erano accorsi volonterosi all’ajuto, e fra i quali primeggiava, fulcro d’equilibrio, di saggezza e d’azione, il commendatore Luigi Vitali1; fu allora un fermento febbrile e un anelito di sapere e di sorgere. Fu come l’abbeverarsi di chi fino dal principio della vita aveva appetita la fonte pura senza poterla attingere mai. E in mezzo all’affannarsi desioso e al primo dolce tormento del conoscere; che aprendo gli orizzonti sconfinati dello scibile atterrisce la piccola mente, in mezzo all’attonita comparazione del proprio essere con la infinita grandezza degli universi, fra l’agitarsi multiforme delle idee, delle cose, degli uomini; dopo il primo naturale sbigottimento e dopo un logico brancolare a casaccio, dietro quella ch’era sembrata la idea più bella, la cosa più grande, l’uomo più forte, questi esseri, che avevano comuni una grande disgrazia, e un infinito desiderio, confusero in uno solo i loro sforzi disparati, intesero le loro finalità e i loro meriti, s’allacciarono, si strinsero, divennero la falange nuova, e salirono, salirono dove la loro anima e il loro destino li chiamava, verso tutte le carezze, verso tutte le raffiche, verso tutte le forme della vita.

Così essi affermarono con una buona battaglia e con una prima vittoria il diritto di vivere.

Ed è in nome di questo sacrosanto diritto ch’io vi parlo, o signori: e voi sapete meglio di me che è il diritto più grande che si conosca. Esso ha materiato e materia di sè la storia di tutti i popoli, dagli eroismi più commoventi e le viltà più selvaggie, giustifica tanto la mano tesa a sorreggere in atto di premuroso sgomento, quanto quella calante fulminea ed armata a dilacerar nelle viscere; esso è che presiede il continuarsi della specie ed è nella nostra passione e nel nostro pianto, e nella nostra speranza che non muore mai, in tutti gli atti nostri di difesa e d’offesa, di giorno, di notte, fin che si viva e più in là ancora, perchè, per il diritto di vivere, noi consentiamo alla religione il paradiso e l’inferno, e, per la brama che qualcosa di noi rimanga, tutti ci auguriamo o ci siamo augurata l’immortalità.

Il cieco ha, come noi, oserei quasi dire ha più di noi il diritto di vivere.

Avanti dunque, amici miei, avanti ancora e sempre: come avete attinta la vita interna mediante il pensiero profondo, attingete anche lo sviluppo esterno della vita, gli altri uomini lottano, sperano ed amano; lottate sperate amate anche voi. E unitevi in società di mutuo soccorso; c’è nella vostra unione un poema di gentilezza e c’è nell’atto compiuto un maraviglioso passo verso la fratellanza umana.

Voi ne date l’esempio, disgraziati per natura, resi edotti per virtù di energie vostre, giunti all’altezza che omai vi si compete, toccata finalmente la soglia, al di là della quale vi si apre in tutto il suo gagliardo palpito la vita, voi non affilate le armi, non vi lanciate ad abbattere ed a falcidiare chi mova ad un medesimo fine; ma vi porgete le mani, e passa per entro la catena della vostra corporazione, tutta la bontà che vi anima, e tutto il sorriso che vi trasfigura. E noi, riverenti, e noi commossi, lasciamo il passo ammirando.

Sì, voi passate: ma siete così pochi, e disponete di mezzi pratici così esigui, ch’io, mentre vi guardo in cammino, e mi sento martellare dentro più forte, faccio a me stesso una domanda terribile.

Dove, dove andate?

Ah, signori, noi conosciamo lo sforzo ch’essi hanno compiuto, noi conosciamo la speranza che li ha salvati, [p. 377 modifica]noi conosciamo anche l’amore che li guida e il diritto intangibile che li spinge.

Così pochi potranno rialzare moralmente ed economicamente tutta la classe dei ciechi? aiutare, mediante una propria cassa di previdenza sociale, gli ammalati; con un quotidiano sussidio?

Cogli esigui mezzi di cui dispongono, potranno avvicinare gli impotenti al lavoro, i soci che per una eventuale sciagura fossero in eccezionali strettezze, e porgere agli uni ed agli altri il modesto gruzzolo che li salvi dalla miseria e dalla disperazione?

Ah questa mia domanda: — dove andate? — mi brucia sulle labbra ed io, che per i ciechi sono il veggente, io in questo momento prevedo, senza proprio avere in me nessuna abitudine alla divinazione, prevedo un epilogo ben rovinoso!

Udite dunque, è il veggente che parla, il quale ove gli si consenta, sarà come una volta diceva Cristo, lungo il suo Giordano, fra i pianori verdi di Galilea. Quando la parabola seria, può ben entrare nel patrimonio moderno.

Udite dunque o Signori. Un bastimento veleggiava sul mare e la burrasca lo colse, naufrago. I passeggieri si buttarono fra l’onde e molti, nuotando, giunsero ad una riva deserta. Vissero per degli anni lungo la sponda arida, con l’anima intenta alla prima vela che passasse.

La nave non giungeva mai.

Allora si consigliarono e decisero di costruire un bastimento.

E faticando per anni ed anni, costruendo, abbattendo, ricostruendo ancora, riuscirono a fabbricare la nave.

Allora, dopo aver scrutato il cielo e dopo avere pregato, s’imbarcarono tutti.

E il vento li spinse verso la terra loro.

E come essi la videro delinearsi appena, salirono in allegrezza grande e cantarono l’inno della gioia.

E quando furono a terra cercarono i loro simili per baciarli, perchè, in tutto il tempo passato, non aveano potuto che baciarsi tra loro.

E quando furono a terra cercarono i loro simili per abbracciarli, perchè, in tutto il tempo passato non avevano potuto che abbracciarsi tra loro. E dicevano, baciando ed abbracciando i loro simili: «Ecco, ora noi vivremo come buoni fratelli». E dicevano: «Abbiamo tanto aspettato e sognato e faticato, perchè venisse questo giorno bello: ora noi siamo felici.

Ora noi vi metteremo a parte della nostra esperienza e voi dividerete il vostro pane con noi.

E il pane sarà fatto più dolce».

Udendo questo gli uomini che li circondavano si guardarono inquieti nel viso e ognuno, negli occhi dell’altro, scorse il suo pensiero medesimo.

Essi, molti anni prima, avendo saputo il naufragio, avevano pianto come perduti i fratelli.

Ma il pianto omai s’era asciugato e la sua fonte essicata per sempre.

Dissero ancora i naufraghi: «Noi lavoreremo come voi lavorate, e mangieremo il pane bagnato del sudore della nostra fronte e delle lagrime del nostro passato, ch’ora si sono mutate in lagrime di gioia. Siate benigni solamente per questo».

Ma gli uomini ebbero un malo sorriso agli angoli della bocca e risposero loro: «Tornate donde siete venuti »

E avendo detto questo si allontanarono tutti.

La disperazione allora entrò nell’anima dei naufraghi, la miseria corrose il loro corpo, l’avvilimento abbattè la loro nobilissima fibra.

E alcuni ripresero la nave che avevano già tirata sulla riva e s’allontanarono imprecando.

Ma i più non riuscirono a staccarsi dalla terra madre e languirono sul limitare delle case, ch’erano pur state le loro, inutilmente invocando.

E quando i loro corpi, ignudi e scheletriti, caddero fiaccati sulla riva, nessuno li seppellì, nessuno mormorò sopra di essi una preghiera.

Solo i corvi, richiamati dal fetore, accorsero starnazzando e rifuggirono senza preda nei rostri. Nulla di quell’ossame nudo faceva per loro.

La parabola è finita, o Signori, e sotto il velo di essa noi abbiamo bene compreso e abbiamo già fatto il confronto. Vórremo noi avere il malo sorriso sulla bocca e vorremo noi dire a questi naufraghi ch’hanno saputo guadagnare la vita: «Tornate donde siete venuti e rimanetevi solitarii nell’angoscia e nel buio?».

Vorremo noi, di fronte al loro sacro diritto di vivere, ergere il più feroce egoismo, oppure offendere con la elemosina superba?

No, Signori, noi non possiamo essere come gli uomini della parabola e, poichè di fronte al loro diritto, sta chiarissimo un nostro dovere, avviciniamo questi esseri, che la disgrazia ha uniti e la coscienza ha resi fratelli, e facciamo per loro, da troppo tempo abbandonato e fuggito, quello che faremmo per noi.

Io chiudo queste poche parole commosse con un proposito generoso ed ho fiducia che non sarà vano l’appello.

La Società di mutuo soccorso fra i ciechi è formata, noi vogliamo vederla in azione.

Perchè questo avvenga c’è una cosa sola da fare. Assalire fra le diverse categorie di soci che la compongono quella che a noi si compete. Ed una in modo speciale può divenire la nostra generosa palestra, quella dei soci contribuenti. Tutti possiamo, tutti dobbiamo contribuire con una minima quota annuale all’incremento del sodalizio, del quale diventeremo una parte, la parte più viva, la parte più pulsante: il cuore.

Si dice che in terra di ciechi un monocolo è re: noi siamo veggenti per ambo le pupille dilatate in bramosia di luce, possiamo quindi passare per imperatori e, poichè la facezia non ammette contraddizioni, noi, come imperatori, acquistiamo un dovere nuovo, quello della munificenza.

Ma io, a nome della Società, che s’è fatta, non vi domando di essere munitici o Signori, io vi domando solo un attimo ancora per l’ultima parola che vi conquisti alla buona opera proposta.

Dentro la brevità dell’eloquio, che ho avuto l’onore di porgervi, due concetti ho voluto che sopra gli altri spiccassero, e su di essi richiamo ancora l’attenzione vostra. [p. 378 modifica]

Lo sforzo dei ciechi ed il finire dei naufraghi.

Chi di noi, o Signori, ritornando col pensiero al suo tempo passato, non ritrova un giorno buio, in cui si è sentito un po’ cieco, non rià l’affanno di un’ora, in cui s’è sentito un po’ naufrago? Perchè abbiamo avuto comune il grido dell’invocazione e dello spasimo, perchè inconsciamente, abbiamo lasciato che sulla classe dei ciechi, per tanto tempo, gravasse il silenzio e l’oblìo, facciamo tutto il possibile ora, così che l’opera nostra assuma il carattere di una rivendicazione solenne.

L’ultimo dei nostri grandi poeti, Giosuè Carducci, ha scritto che: «a Raffa che tende le braccia il mondo»; ed il verso scultorio è tutt’ora la verità materiata. Noi, ciechi o veggenti aneliamo la luce che ci abbagli e che ci avvampi, e battiamo tutti la medesima via, risospinti da uno stesso ardore di febbre. Uniamoci dunque tutti, aiutiamoci dunque tutti, e moviamo tutti avanti, abbracciati, pronti per l’ultima vittoria o per l’ultimo sacrificio, facendo nostro, con l’azione viva, spoglio d’ogni vieta reminiscenza romantica, e sincero, sincero perchè sgorgante dall’anima, il bel grido: « Uno per tutti, e tutti per uno ».

Note

  1. Mi è caro a tale proposito ricordare tre strofe che gli ho dedicato quest’anno:

    — Ilare accogli questa mia parola
    perchè la verità dentro le suona
    e se giunge così postrema e sola,
    tu le perdona.
    Essa, in ritmica sintesi, ti dice
    la cosa ch’è più ambita ed è più mesta:
    uomo tu passi, ma pur sta felice,
    l’opera resta.
    Quel che compisti in pia virtù tenace,
    è duraturo più che un monumento:
    dirti cotesto non è troppo audace

    presentimento!