Il buon cuore - Anno X, n. 43 - 21 ottobre 1911/Educazione ed Istruzione

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Educazione ed Istruzione

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Beneficenza Religione

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Per Antonio Rosmini a Stresa

Domenica ebbe luogo in Milano una importante adunanza del Comitato per l’erezione di un ricordo monumentale ad Antonio Rosmini sulla sponda di Stresa.

Il Comitato, costituitosi da parecchio tempo sotto la presidenza onoraria del sen. Tancredi Canonico — presidente effettivo il Sindaco di Stresa, comm. avvocato Eugenio Ottolini, vice presidente il cav. dottore F. Pestalozza pure di Stresa — aperse una sottoscrizione che ottenne numerose adesioni ed offerte pervenute da tutta l’Italia ed anche dall’estero.

L’adunanza in Milano, presieduta dal Sindaco di Stresa, era inspirata al proposito di addivenire ad una deliberazione definitiva.

Constatata l'esistenza di una somma che assicura l’erezione di un monumento degno dell’Uomo che si vuole onorare, e tenuto corto delle adesioni di cospicui personaggi che si riservano di rispondere con generose offerte alla presentazione di un progetto concreto, dietro proposta del prof. Billia, il Comitato ha deliberato di dare ampio mandato al Sindaco di Stresa a’ suoi immediati cooperatori per l’effettuazione del nobile proposito.

Il prof. Billia avrebbe anche voluto che si pensasse ad onorare Rosmini con una splendida edizione delle sue opere; ma su questo punto il collega A. M. Cornelio ricordò il concetto espresso nitidamente dall’onorevole Falcioni, cioè di non deviare dal mandato avuto per un monumento da un solenne comizio tenutosi a Stresa.

Il Sindaco, comm. Ottolini, consentì all’idea di concentrare tutti gli sforzi nell’effettuazione di un decoroso ricordo monumentale, come ad unanime votazione de’ suoi concittadini.

Infatti a Stresa più che altrove si sente profondo il dovere di rendere al Rosmini un perenne tributo di onore, di amore, di riconoscenza. Gli abitanti di quella ridente sponda — orgogliosi di possedere i resti mortali del Sommo filosofo italiano — memori ancora delle sue venerate sembianze, che, come splendore a splendore, colà videro più volte far riscontro alle sembianze di Alessandro Manzoni — grati dei benefici che Stresa ancor direttamente raccoglie dall’Istituto fiorente che vanta il possesso della più grande opera del Vela — vogliono che un’altr’opera scultoria ripresenti sulla sponda del Verbano la soave figura del grande benefattore.

Questo voto, per la deliberazione presa ieri, potrà presto essere appagato, tanto più avendo il Sindaco di Stresa assicurato un concorso anche per risorse locali, mentre il prof. Brentari si assumeva volonterosamente l’incarico di un nuovo appello agli abitanti di Rovereto agli altri del Trentino.

In fine dell’adunanza, il comm. Ottolini dispose perchè nel verbale venissero commemorati i colleghi defunti, cioè il senatore Canonico, il generale Revel, il comm. avv. Baisini, il conte Stefano Stampa ed altri, purtroppo passati nel regno dell’infinito.

IL SIGNORE E SAN PIETRO



Il Signore e San Pietro erano entrati in Paradiso dopo aver errato per molti anni fra le miserie terrene aver molto sofferto.

Si può immaginare qual fosse la gioia di San Pietro. Era ben altra cosa vedere il mondo stando seduto sul monte del Paradiso, anzichè andar errando, come un mendico, di porta in porta.

Era ben altra cosa passeggiare lentamente pei giocondi giardini paradisiaci, anzichè camminar sulla terra [p. 339 modifica]coll’incertezza di trovar asilo nella notte tempestosa e di esser forse costretti a continuare il viaggio fra il gelo e l’oscurità.

Si può considerare il gaudio da lui provato giungendo, dopo un pellegrinaggio di tal sorta al luogo di beatitudine.

Non aveva sempre ritenuto che tutto dovesse approdare a buon fine. Talvolta non si era potuto impedire di dubitare e di sentirsi inquieto, non riuscendo a comprendere come, essendo il Signore padrone e rigeneratore del mondo, dovesse sopportare e fargli sopportare un esistenza tanto dura.

Adesso l’impazienza non lo tormentava più, egli si sentiva pienamente lieto. Soleva ridere di tutte le pene che aveva sopportate insieme al Signore; cosa meschina di fronte alla letizia presente.

Una volta erano stati colti dalla mala ventura in modo tale, ch’egli credeva di non poter durare più a lungo; ma il Signre presolo seco aveva cominciato a salire un alto monte senza dire quel che avrebbero fatto lassù.

Erano passati dinanzi alle cittadelle giacenti ai piedi del monte, ai castelli argentini e a maggior altezza, erano giunti ai cascinali e alle masserie lasciando dietro loro la grotta dell’ultimo boscaiolo.

Infine eran giunti dove il monte è nudo, senza piante nè alberi, ivi un eremita aveva costruito una capanna per soccorrere i pellegrini bisognosi d’aiuto. Poi andarono sopra i ghiacciai, dove dormon le marmotte e su su fino ai massi di ghiaccio deserti innalzatisi come torri, ove appena Io stambecco può penetrare.

Proprio lassù il Signore aveva trovato un uccellino dal petto rosso, intirizzito sul ghiaccio, un piccolo fringuello, ch’Egli raccolse e ripose. San Pietro ricordava di aver dubitato che quell’uccello potesse servirgli da colazione. Per lungo tratto avevano scivolato sul ghiaccio, e San Pietro riteneva di non esser stato mai così vicini al regno della morte, perchè un vento di morte gelido e una nebbia cupa come la morte li avvolgeva: nulla di vivente appariva nè dappresso nè da lungi.

E non avevano toccato che la metà del monte. Il santo pregò il Signore di lasciarlo tornare addietro. «Non ancora, rispose il Signore, perchè ti voglio mostrare quello che ti darà coraggio a sopportare tutte le pene». Seguitarono a camminare fra nebbia e finchè giunsero a un muro altissimo che impedì loro il passo. «Questo muro gira intorno al monte — disse il Signore — e tu non puoi attraversarlo da nessun punto. Parimente nessun uomo non può scorgere quel che vi è al di dentro, da esso comincia il paradiso; perchè sulla sommità di questo monte hanno dimora i beati. San Pietro non potè trattenere un senso di diffidenza che trapelò dalla sua faccia: «La dentro non vi è buio e freddo come qui — disse il Signore — li vi è l’estate verde e vivi splendori di soli e di stelle» Ma San Pietro non poteva credere.

Il Signore trasse fuori l’uccello trovato sulla pianura gelata e, piegatosi all’indietro lo gettò sopra il muro si che cadde in Paradiso.

Poco dopo San Pietro udì un gorgheggio festoso e giocondo, riconobbe il canto d’un fringuello e rimase profondamente meravigliato.

Si volse al Signore e disse: «Scendiamo di nuovo sulla terra a sopportare tutto quello che dev’essere sopportato, ora vedo che hai detto il vero: esiste realmente un luogo ove la vita vince la morte». Scesero il monte e ripresero il loro pellegrinaggio.

Per molti anni San Pietro non vide più il Paradiso, seguitò il suo cammino pensando ardentemente alla dimora circondata dall’alto muro. Vi era finalmente giunto, non aveva più nulla a desiderare; poteva tutto il giorno attingere a piene mani la gioia da fonti inesauribili.

Ma solo dopo quattordici giorni dacchè l’apostolo era in Paradiso, un angiolo andò dal Signore che stava seduto sulla Sua seggiola, s’inchinò sette volte dinanzi a Lui, e gli disse che a San Pietro doveva esser sopravvenuta una grave sciagura. Non voleva nè mangiare, nè bere, e aveva gli occhi cerchiati di rosso, come se non avesse dormito da parecchie notti.

Saputo questo il Signore si alzò e andò subito a cercare il santo. Lo trovò lungi, all’estremo limite del Paradiso, giacente a terra, tanto spossato da non poter stare in piedi, colle vesti strappate e il capo coperto di cenere.

Vedendolo così triste il Signore si sedette a terra accanto a lui e gli parlò, come aveva fatto quando soffrivano insieme nel mondo.

«Che cosa ti rende tanto mesto, San Pietro?» gli chiese. Ma il santo, sopraffatto dal dolore, non potè rispondere.

«Perchè sei tanto mesto?» ripetè il Signore. A questa seconda domanda San Pietro si tolse dal capo la corona d’oro e la gettò ai piedi del Sommo Dio, quasi avesse inteso dire ch’egli non avrebbe, d’allora in poi, voluto più partecipare nè all’onore nè alla magnificenza di Lui.

Il Signore capì subito che San Pietro era troppo disperato per sapere quel che faceva perciò non si mostrò sdegnato.

«Mi devi dire finalmente qual cosa ti tormenta» gli disse con la consueta dolcezza e con voce rivelante un amore sempre più vivo.

Allora San Pietro balzò in piedi e il Signore s’avvide ch’egli non era solo turbato, ma eziandio irato.

«Voglio esser licenziato dal tuo servizio» disse il Santo. «Non posso rimanere in Paradiso nemmeno un giorno». Il Signore cercò di calmarlo come aveva dovuto fare sovente quando il discepolo s’incolleriva.

«Non t’impedisco di andare ma prima mi devi dire qual cosa vi è qui che non ti aggrada».

«Ti posso dire che delle pene sopportate insieme sulla terra mi aspettavo miglior ricompensa».

Il Signore vide che l’anima di San Pietro era piena d’amarezza e non si adirò contro lui.

«Ripeto che sei libero di andare dove vuoi basta che tu mi dica quel che ti appena».

San Pietro si decise a raccontare la cagione del suo dolore. «Avevo una vecchia madre — disse — che è morta due giorni sono».

«Ora comprendo quel che ti tormenta — disse il Signore — tu soffri perchè tua madre non è venuta qui».

[p. 340 modifica]«Precisamente» rispose il Santo, e sopraffatto di nuovo dal dolore cominciò a lamentarsi e singhiozzare.

«Mi pareva d’aver meritato di averla meco» soggiunse.

Quando il Signore ebbe saputo quel che affliggeva San Pietro divenne subito mesto.

La madre di San Pietro non era stata tale da meritare il Paradiso. Non aveva pensato che a raggranellare denaro; ai poveri che andavano alla sua porta non aveva dato mai nè un soldo nè un boccon di pane.

Ben comprendeva il Signore che il desiderio di San Pietro era vano; la madre di lui era stata troppo avara per godere la beatitudine.

«Come puoi credere — chiese il Signore al Santo — che tua madre sarebbe felice con noi?

«Tu dici questo perchè non vuoi adoperarti in mio favore — disse San Pietro — chi non potrebbe esser felice in Paradiso».

«Chi non gioisce della gioia altrui non può essere beato con noi» disse il Signore.

«Allora vi sono altri non adatti a questo luogo al pari di mia madre», insistè il Santo: il Signore capì che l’apostolo alludeva a sè medesimo. Sentì profonda afflizione nel vederlo così addolorato da non saper più quel che diceva. Attese un istante sperando che si pentisse e riconoscesse che la madre sua non poteva andare in Paradiso; ma San Pietro non intendeva ragione.

Il Signore allora chiamò un angelo e gli ordinò di scendere all’inferno a prendere e trasportare in Paradiso la madre di San Pietro.

«Fammi vedere come fa l’angelo a portarla quassù» disse San Pietro.

Il Signore lo prese per mano e lo condusse sulla cima d’una rupe che da un lato scendeva a precipizio. Gli mostrò che sarebbe bastato ch’egli si fosse curvato un po’ sull’orlo per scorgere al disotto l’inferno. Da principio San Pietro non potè distinguere nulla, come se avesse guardato entro un pozzo. Gli parve che si aprisse sotto a lui una cupa sconfinata voragine. La prima cosa ch’egli distinse oscuramente fu l’angelo che aveva già percorso il sentiero che menava all’abisso. Lo vide scendere senza timore nella profonda oscurità, tendendo appena le ali, nel dubbio di arrivare con troppa veemenza. Dopo che San Pietro ebbe assuefatto gli occhi cominciò a vedere sempre più. Comprese che il Paradiso si stendeva sopra un monte rotondo entro al quale vi era un ampia voragine, e al fondo di essa dimoravano i dannati. L’angelo scendeva scendeva e non toccava ancora la meta. San Pietro si spaventò nel vedere che quel sentiero non finiva mai e mormorò: «Potessi vederlo tornare subito con mia madre!».

Il Signore lo fissò con occhi dilatati mesti, e, gli disse: «Non vi è pesi che il mio angelo non possa sollevare».

L’abisso era così profondo che non vi poteva penetrare nessun raggio di sole. Parve che l’angelo col suo volo portasse un po’ di chiarore, un po’ di luce, sì che fu possibile a San Pietro scorgere fino all’imo la voragine. Vi era in essa uno sconfinato terreno deserto e dirupato; scogli appuntiti lo ricoprivano e fra essi luccicavano pozze d’acqua nera. Nè verde stelo, nè albero nè segno alcuno di vita appariva laggiù.

Sugli scogli acuminati stavano aggrappati gl’infelici morti, erano saliti sperando di uscire dalla voragine; vista l’inutilità dei loro sforzi rimanevano li sospesi, impietriti dalla disperazione.

San Pietro ne scorse alcuni seduti, ovvero giacenti, colle braccia tese verso un eterno desiderio, cogli occhi fissi, rivolti in alto. Altri tenevano le mani dinanzi al viso come per non vedere l’orrore disperato che li circondava. Stavano tutti immobili; taluni giacevano entro le pozze d’acqua senza tentare di uscirne.

Erano tanti e tanti da incuter terrore. Sembrava che il fondo dell’abisso non consistesse che di cadaveri e di teste.

S. Pietro fu preso da nuova inquietudine. «Vedrai che non la trova», disse al Signore. E il Signore lo guardò collo stesso sguardo mesto di poco innanzi.

Per l’angelo non c’era da temere, pur tuttavia pareva a San Pietro ch’egli non potesse riuscire a trovare, sua madre fra la turba de’ miseri. Coll’ali tese l’angelo si librava sulla voragine in cerca della sciagurata; ad un tratto uno de’ dannati Io scorse, s’alzò, tese le braccia e gridò: «Prendimi, prendimi».

L’intera turba riprese vita.

Tutti i milioni d’anime che languivano giù nell’inferno si sollevarono e, tendendo le braccia, implorarono l’angelo di menarli al benedetto Paradiso. Quelle grida giunsero fino al Signore e a San Pietro e i loro cuori, udendole, palpitarono di dolore. E siccome l’angelo, libratosi sui dannati, andava cercando quà e là quella che doveva prender seco, essi si precipitarono dietro a lui, come sospinti da una bufera. Finalmente l’angelo scorse la madre di San Pietro, ripiegate le ali sul dorso si calò come una freccia. San Pietro emise un grido di gioia quando lo vide cingere col braccio sua madre e trasportarla in alto ed esclamò: «Sii benedetto tu che mi riconduci la madre».

Il Signore posò la mano sulla spalla del santo, quasi avesse voluto ammonirlo di non abbandonarsi troppo presto alla gioia. Ma il Santo era lì lì per piangere dal gaudio di vedere la genitrice salva e non supponeva affatto ch’essa avrebbe dovuto andare nuovamente lontana. La gioia di San Pietro cresceva vedendo che, per quanto l’angelo fosse stato ratto nel sollevare sua madre, alcuni dannati con incredibile rapidità si erano aggrappati a lei che veniva liberata, per essere condotti in paradiso. Una dozzina all’incirca pendevano dalla vecchia, e il santo pensò che doveva essere un grande onore per la madre sua sottrarre tanti infelici alla dannazione.

L’angelo non fece opposizione alcuna.

Non appariva menomamente oppresso dal grave peso; saliva saliva agitando le ali senza fatica come se portasse in cielo un uccellino morto.

Invece San Pietro vide che sua madre andava staccando da sè i disgraziati avviticchiati a lei.

Ghermiva loro le mani, apriva loro i pugni si che un dopo l’altro vacillavano e ricadevano nella voragine.

[p. 341 modifica]San Pietro. potè udire le preghiere e i lamenti che volgevano a sua madre ma sembrava che questa non potesse sopportare di veder altri felici all’infuori di sè medesima. Andava liberandosi ad uno ad uno di quei disgraziati, facendoli ripionibare nella desolazione.

Mentre precipitavano al fondo l’acre echeggiava di grida di gemiti, d’imprecazioni.

Allora San Pietro volse un grido di preghiera a sua madre amnicnendola a mostrarsi pietosa, ma essa non gli diede ascolto e seguitò come aveva cominciato. Via via che il peso alleggeriva, il volo dell’angelo diveniva più lento, sempre più lento; San Pietro ne rimase così angosciato che le forze gli vennero meno e cadde in ginocchio.

Solo una dannata era rimasta avvinghiata a sua madre: una giovine donna che si teneva stretta al collo della vecchia e la pregava, la supplicava di lasciarla andare in Paradiso.

L’angelo frattanto sì era innalzato a tal punto che San Pietro tese le braccia disponendosi a ricevere sua madre. Gli parve che sarebbero bastati due colpi d’ala perchè il divino messaggero fosse alla vetta del monte.

Ma improvvisamente l’angelo sospese il volo e il suo vise divenne cupo come la notte.

Stese le mani al dorso, la vecchia aveva afferrato alle braccia la dannata che pendeva dal suo collo, e tiratala violentemente, sciolta la stretta delle mani che si tenevano fortemente aggrappate, riuscì a liberarsi della sciagurata.

Allorchè questa cadde l’angelo calò per un buon tratto, parve che non potesse più spiccare il volo. Volse sulla vecchia uno sguardo profondamente mesto, allentò il braccio con cui la sosteneva, e la lasciò cadere quasi chè, rimasta sola, essa fosse per lui un peso soverchio. Poscia con un colpo d’ala sparve sulla vetta del monte.

San Pietro rimase a lungo a terra singhiozzando e il Signore accanto a lui in silenzio.

Finalmente questi gli disse: «Non avrei mai creduto che tu dovessi piangere tanto in Paradiso».

Il vecchio servo di Dio sollevò il capo e rispose: «Che paradiso è mai questo ove odo le grida di dolore dei miei cari e donde scorgo i patimenti del mio prossimo?» Il volto del Signore si oscurò per intima pena: «Che altro volevo se non preparare a tutti voi un Paradiso di gioia pura e luminosa? Non capisci che scesi appunto fra gli uomini e insegnai loro ad amare il loro prossimo come sè stessi? Finchè non giungeranno a farlo non troveranno rifugio nè in cielo nè in terra poichè dolore e turbamento li perseguiteranno dovunque.

Samarita.

PENSIERI


Il meglio esiste, V’è dovunque alle mani tue, chiunque tu sia, fa meglio... e venga poi la gloria o non venga, venga la riconoscenza o la sconoscenza degli uomini, che importa tanto poi?


La miglior maniera di viver bene e felici è l’esser buoni.



El quadrett della Madonnina

Oh Madonnina mia!
Dolcissima Maria!
Quand’entri in la mia stanza insci isolada
Me pias de tratt in tratt datt on’oggiada.
Te see pur anca bella
«Regina maris, Stella!».
The g’hee quel bel faccin grazios, grazios
Che l’è el ritratt del to corin pietôs.
Mi, stracch d’ona giornada
Squas semper disturbada
De contrast, seccadur e dispiesè
Me domandi a mi stess: perchè... perchè?
De stoo soffri, de stoo lottà?
Chi po spiegall?... Nissun le sa.
L’è mei che quand me capita sti câs
Faga de tutt per sopportai in pâs.
E sta filosofia
Oh Madonnina mia
Te see ti che in del cœur me la inspirada
Ti, che tee tant soffert... tant rassegnada!
Oh Madonnina mia!
Dolcissima Maria!
Se vœuj dormì de nott, ma propri quiett
L’è quand ghe doo on’oggiada al to quadrett.

Federico Bussi.


Canti d’alberi e canti di stelle

Non appena il sole è sceso dietro le ultime cime di monti ad occidente, e per il cielo si sono sparsi quei colori che, all’aurora, da oriente trionfavano, comincia il canto notturno degli alberi. Dapprima il canto è composto solo di trilli, di gorgheggi, di garriti, di pispiglii, di squittinî di uccelli che riparano sotto le volte frondose, profumato asilo contro i rigori notturni. E allora pare che tutta un’ora sonora avvolga la selva dai mille alberi fronzuti che nella tenue luce crepuscolare si rileva come una gigantesca fascia verde cupo: allora pare che le foglie siano materiale di canti, e che ogni foglia ripeta il suo mille, mille e mille volte, accordando con gli altri infiniti canti delle infinite sorelle, formando un coro eguale, altisonante, magnifico. Ma poi, man mano che dal basso il tenebrone notturno comincia a render tutto uniforme e su dalla vallata sale un umido alitar di nebbia, i canti degli uccelli si fanno meno pieni, meno festosi. Quelli che son colti per primi dal gelo della notte si scuotono per tutto il corpo, arruffano le penne e poi, cacciata la testina sotto un’ala, si addormentano; ma quelli che albergano su per le cime della selva e che ancora ricevono dal raggio crepuscolare la dolce illusione del sole continuano le [p. 342 modifica]loro canzoni talchè all’osservatore sembra che quel canto, in tutto il suo corpo, salga, salga lentamente per poi ad un tratto confondersi alle eterne, inaudite armonie del cielo e sperdersi, così come una goccia nel mare, pelle imperscrutabili profondità dell’infinito. Tutto tace allora: e solo qualche assiolo, simbolo del dolore umano che mai non posa, va ripetendo di qua di là i suoi tristi, lugubri chiù-chiù che sinistramente echeggiano nel folto della notte.

E allora che il silenzio regna sovrano e che ogni più impercettibile rumore nettamente si palesa al nostro orecchio, allora comincia il vero canto degli alberi.

È questo un canto tra i più armoniosi, tra i più suggestivi: sembra che questi esseri inanimati dal corpo scabro e dalle chiome verdi, sotto quella scorza cupa rude accolgano un cuore capace di un dolce sentire cedano agli impulsi di questo: tanta è la dolcezza della melodia e tanto precisa ne è l’esecuzione.

Ecco, voi udite: che è? un uccellino forse ha cambiato di posto? un sasso è caduto? Non si sa: ma avete perfettamente inteso un leggerissimo frusciar di fronde: ha avuto la durata di pochi momenti ma quel suono ha lasciato nell’aria un dolcissimo accento metallico che ancora, con l’insistenza del ricordo, vibra nelle vostre orecchie. E questo rumore impercettibile quasi è l’inizio della grande sinfonia che tra poco si farà udire. Tra poco infatti giungerà colui che è l’anima principale del canto degli alberi, colui che desta gli spiriti canori della selva: il vento notturno. Ecco, ecco! sentite laggiù tra le gole di quei monti lontani quello striscio continuo simile al rumore della pioggia cadente? È il vento che giunge: esso ora ansima e sbuffa poichè ha dovuto chiudere la sua enorme corporatura fra le strette forre montane, ma sentite, sentite ora che è sgorgato all’aperto, nella grande vallata, sentite come liberamente canta e come trascorre veloce e baldanzoso!

E questa corrente d’aria fresca e odorosa che v’inebria è lui che la porta: e non solo inebria voi ma... sentite? anche gli alberi della selva godono del vostro godimento. Cominciano laggiù i pioppi che hanrío nella scorza argentea i riflessi della loro più grande amica, l’acqua: sono stati i primi ad essere baciati dal vento subito i radi ciuffi di verde che capricciosamente sbocciano su per il tronco hanno avuto dei lunghi brividi di piacere che si sono risolti in canto. Immediatamente a questo succede un’infinità di voci: anche la forte e nera elce ora è avvolta dalla stretta del vento: sentite questo canto rozzo ma sincero e squillante? è il suo: e par che in esso qualche cosa ancora permanga dell’antica religione dei padri, dei costumi dei nostri progenitori. Eppoi i festoni di edera che cadono giù dai massi muscosi, urtandosi ai rovi, uniscono la lor voce argentina; i nocciuoli con il loro pispiglio sommesso e grave dànno come un’intonazione ieratica a quella sinfonia che dilaga solenne e maestosa: così pian piano tutti gli alberi della selva danno il loro contributo canoro finchè, a sostenere l’accordo di quell’orchestra vivente, entrano con le loro voci poderose le quercie ed i castagni. Allora, benchè nella sconfinata oscurità della campagna, non vi sentite più soli: quella musica nè umana, nè divina vi conquide: vi trascina col pensiero in altre regioni dove mille esseri strani vi dan compagnia. Quel canto vi narra di altre epoche, di fatti sconosciuti quando gli alberi svettavano a toccar le stelle e gii animali erano delle enormi moli semoventi: vi narra, e voi comprendete, tutto quello che giace da secoli ravvolto nelle viscere della terra, nell’oscura custodia delle miniere di carbon fossile. E quella musica sublime che è l’armonia di un momento e l’armonia di un’infinità di secoli, prosegue intanto a spandersi nell’aria odorosa della notte: sempre eguale e sempre varia, sempre antica e sempre nuova e bella, essa racchiude nella sua voce qualche cosa che ci appartiene e che si era perduta attraverso la tempestosa fuga degli anni, forse per mai più tornare.

Intanto giù per la vallata, di tra l’argenteo molleggiar delle nebbie, sale uno stridulo incessante cricchiar di grilli, e le stelle, su nell’alto, ammiccandosi, rispondono con le loro voci, mai fioche per trascorrer di secoli, ai canti notturni delle anime vegetali.

Rispondono le stelle? Sì: ma son tanto lontane che bisogna far molto silenzio per poterle udire. Io le ho udite. È un canto stranissimo, di cui nessuno può avere idea. È un canto fatto di diverse vibrazioni luminose che unendosi e fondendosi insieme, danno una grande e incessante armonia. Ma ora mi avvedo che non è cosa da potersi descrivere facilmente e che, anche descritta bene, non può essere altrettanto bene compresa. Ma anche un’altra voce hanno le stelle, anche un altro canto: la voce e il canto del silenzio. Il canto del silenzio, sì! Non è forse un’ai monia magnifica quella che esala dal solenne, religioso zittire di tutti e di tutto, uomini e natura? Il silenzio è la voce dell’infinito e qual voce è più grande, più forte, più suggestiva di questa? Ebbene le stelle rispondono col silenzio interrotto da quel fulgido sprizzar di luci che a me dan tutta l’idea di altrettanti scoppietti di risa.

E forse ridono le stelle: ridono, esse splendide, esse immortali, della pochezza vile nostra e di tutto ciò che ci circonda e della nostra morte. E in quel canto di silenzio che esse rispondono al sonante armonizzar degli alberi, v’è tutto lo scetticismo tutta l’ironia loro da esseri superiori. «Stolidi» forse esse dicono nel loro instancabile tremolio, «a che gridate, a che vi agitate tanto? Forse per godere l’ebbrezza dell’ora che fugge? La morte vi sovrasta ed un solo dei nostri scintillii vale tutta la vostra effimera esistenza!» E certo, non forse, certo dicon così, poichè se fosse altrimenti, quel senso di oppressione, di scoramento quasi che vi invade al contemplare un cielo tutto trapunto da miriadi di stelle, da che proverebbe? a quale causa risalirebbe? Alla coscienza della nostra piccolezza! Sia pure: ma questa coscienza noi non l’abbiamo se non in quanto s’agita e vive in noi il concetto dell’altrui grandezza: e chissà che, come tante altre cose tramandate fino a noi da generazione in generazione, anche questo inconoscibile timore non sia stato tramandato a noi fin da quei tempi in cui gli alberi svettavano a toccar le stelle, gli animali erano [p. 343 modifica]delle enormi moli semoventi, e gli ultimi erano giganti e potevan parlare con le stelle e udire ciò che le stelle dicevan loro?

Fantasticherie! direte voi. Ebbene, sì; a me piace tanto fantasticare specie se penso che soltanto così posso intellettualmente godere tanto quanto non godrei studiando, da appassionato tutti i libri dell’universo.

E intanto il vento non si fa sentir più e gli alberi novellamente tacciono. Qualche gallo lontanamente, squilla il suo acuto richiamo al sole. Dietro ai monti, da oriente, comincia a far capolino il volto pallido dell’alba. E nell’attesa che il sole torni a trionfar sul creato, tutta la natura ansiosamente tace. Gli uccelletti, sommessamente cominciano ad accordarsi per intonare, quando sarà ora, in piena armonia, l’inno alla risorta luce ed il fogliame resta immobile per non turbar gli studii deí gentili cantori. Nel mentre, l’alba è tutta comparsa e comincia la faticosa ascesa della volta celeste: al suo respiro affannoso le fiammelle luminose delle stelle tremano, balzano, vacillano, si spengono lentamente, tristemente, ad una ad una.

Un lembo color di rosa, svolazzante del morbido peplo dell’aurora, si distende, prima e fulgida promessa del sole.

Guglielmo Ferri.