Il buon cuore - Anno XI, n. 15 - 13 aprile 1912/Educazione ed Istruzione

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Il buon cuore - Anno XI, n. 15 - 13 aprile 1912 Religione

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Giovanni Pascoli

Preghiamo pace all’anima del poeta gentile che tanto sofferse. Tutti i giornali lo hanno commemorato, e noi riportiamo un brano della sua biografia, un brano straziante, che riguarda la sua adolescenza, la prima manifestazione del suo ingegno, che a stento si apriva adito attraverso ai dolori cagionatigli dal misterioso, feroce assassinio del padre:

«Ho i miei ricordi di vecchio scolaro. Li ho anche scritti: Ero un povero ragazzo smilzo e scialbo. Venivo dalla Romagna, da una famiglia di ragazzi, di ragazzi e bambine soli soli, fatti orfani da un delitto tutt’ora impunito, e poi abbandonati e lasciati soffrire soli soli (era indifferenza della gente? era viltà?), una famiglia che aveva per capo il ragazzo più grande, sedicenne appena quando ebbe tutta la nidiata da imboccare. Facevo economia e tentavo la fortuna, concorrendo a una borsa di studio la quale unica poteva darmi accesso all’Università. Carducci doveva dettare, lui proprio, il tema d’Italiano.... Oh, il povero fanciullo smilzo e scialbo! Stette più di un’ora senza nemmeno provarsi a intingere la penna! Il suo vicino, un bel fanciullone piemontese, con una sua grossa e buona testa dondolante, gli domandò con gentile atto di pietà: — Non scrive? — L’altro si svegliò dal suo torpore e cominciò a scrivucchiare. Che cosa, Dio mio? O piccolo padre lontano! dolci bambine preganti a quell’ora per lui! È fatta: nella testa non c’è nulla di buono; nel calamaio qualche paroletta a quando a quando. E questa ragnata tessitura di grande parole l’avrà a legger «lui». Avanti, avanti! come spinto a furia, per le spalle, inertemente!... E qualche giorno dopo ci fu l’esame orale. E il giovinetto romagnolo entrò avanti il consesso giudicante come se vi fosse travolto da una ventata: e rivide «lui» e si senti interrogare. Ma «egli» qualche cosa doveva avere letto nel viso smunto e pallido del ragazzo: leggeva il pensiero che appariva tra uno sforzo e un altro per rispondere, pensiero d’assenti, pensiero di solo al mondo, pensiero d’un dolore e d’una desolazione che al maestro non potevano essere fatti noti se non dagli occhi del ragazzo, che pregava forse con essi più che non rispondesse con la bocca: dagli occhi di lui soli, perchè nessuno aveva parlato e pregato per lui; certo che il Maestro interrogava con non so qual pietà e ascoltava le risposte impacciate con una specie di rassegnazione cortese, accomodandole e spiegandole e giustificandole. Passò questo doloroso quarto d’ora; passarono gli altri. Il ragazzo fu richiamato a dare qualche chiarimento sul suo attestato di licenza; sentì o credè sentire che il Carducci, proprio il Carducci, ampliava e chiariva le sue spiegazioni, comunicandole agli altri professori. Pochi giorni dopo, il primo candidato in ordine di merito era Giovanni Pascoli, il povero ragazzo ch’è diventato un vecchio scolaro e poi potrà divenire un vecchio, senz’altro; si è trovato ad altre traversie, ha provate altre gioie, sebbene rare; ad altre si troverà, altre ne proverà, come vorrà il suo destino....»

Il sentimento religioso del Pascoli emerge specialmente dalla sua ispirata poesia: Il Viatico.

Ne riportiamo gli ultimi versi:

Quel giorno anche per me, campane,
sonate pur così,
quel canto, in quell’ora s’innalzi,
portatemi, o piccoli scalzi,
portatelo anche a me quel pane,
sul vostro mezzodì.

D’imminente pubblicazione

Can. L. Meregalli.

LE GIOIE DI MARIA

nel Dogma, nella Divozione, nella Liturgia, nella Letteratura, nell’Arte e nelle loro fonti principali. — Elegante volumetto L. 1,50.


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VIVERE


Ogni giorno la cronaca dei giornali ne parla.... spesso la cronaca si allunga: sono tre, quattro.... il loro atto è la «corsa alla morte» e vengon chiamati «gli stanchi della vita», i «disertori della vita».

Disertori, sì, stanchi, no! Non chiamiamo «stanco» chi, bene spesso (il numero dei giovani supera nei suicidii quello degli adulti), è alle prime difficoltà.... Al confronto della ragazza che si dà la morte per una osservazione un po’ vivace, o per una delusione d’amore, quale valore di superiorità acquistano le centinaia di fanciulle (non usciamo dal limite d’età), che accettano coraggiosamente il dolore quotidiano, reiterato, d’una esistenza faticosa, gravosa, contraria ai loro gusti? Per un giovane che chiude gli occhi appena un lampo sinistro traversa il suo cielo, moltitudini di vite fiorenti lavorano indomite, tra la tempesta e il naufragio. Per una madre che rifiuta il posto al focolare, migliaia vi siedono, doloranti, ma rassegnate.

Perchè morire?

«La vita non val più la peha d’essere vissuta».

Perchè?

«La sosteneva una speranza, la confortava un affetto, non era tutta grigia, come oggi: oggi il cielo è scuro e il coraggio se n’è andato tutto, tutto. Non mi resta che un’oncia di forza: quella di darmi la morte».

Conviene anzi tutto ribattere questo nome di «forza» dato all’atto di debolezza, di viltà compiuto da chi, in qualsiasi modo, si dà la morte. A ribatterlo gioverà l’osservare come — per confessione molte volte fatta dallo stesso suicida, sia maggiore il coraggio di sopportare la vita così qual’è che non quello di sottrarvisi — e gioverà pure il paragone del soldato che è eroe se affronta il pericolo e si lascia, all’occorrenza, uccidere dal nemico, e sarebbe, al contrario, vigliacco se, in faccia al nemico, fuggisse, sia pure per ingoiare una dose di veleno, o per rivolgere contro sè l’arma. E se, nel dubbio sollevato nella nostra coscienza un pochino ottenebrata, qualche volta non sapessimo, nel caso d’un suicidio in condizioni comunemente dette pietose, distinguere dove sta la forza o la viltà e ci sentissimo tentati d’esclamare: «Ha fatto bene, anch’io avrei fatto altrettanto!» interroghiamo, allora, col filo di volontà buona che pur resta in noi, il fondo della nostra anima — là, dove l’istinto del vero, il bisogno del buono, il principio della giustizia abitano immancabilmente, soffocati, spesso, ma non distrutti mai — sentiremo, impulsiva e potente, una voce dire:

«No, no! la vita è sacra».

La vita è sacra!

Ma che ne sanno della vita questi che la rompono?

Chi ha loro mai parlato della vita?

Ed ecco qui il rimedio. Tutti possono, tutti devono, anzi, nel limite della loro cerchia e delle loro forze, attuarlo.

(Sia detto qui en passant. Tutti sono concordi nel deplorare i disordini, i mali: quanti pensano ai rimedi? guanti sentono la responsabilità di ripararvi? È strano, come in questi tempi di collettività in ogni campo, non si senta la responsabilità collettiva di rimediare al male e — poichè la collettività è la somma di individui — la responsabilità individuale. Moltissimi si scaricano dalle spalle il dovere, dicendo «non tocca a me»; altri non sentono neppure di dover dire «tocca a me». Svegliamo la coscienza! Ch’essa diventi evoluta in questo punto importantissimo!).

Il rimedio dunque al male ineffabile del suicidio è «il far conoscere che cosa è la vita».

Parole facili, concetto complicato.

Quando noi avremo inculcato che la vita è una somma d’energie che devono essere spese per sè, per gli altri, per il bene proprio, per il bene altrui; quando avremo convinto che la vita ha valore per se stessa e non in quanto frutta materialmente, avremo insieme fatto sorgere il concetto che l’energia va impiegata fino all’ultimo, fino a che abbia raggiunto l’ideale suo, a costo del sacrifizio di qualsiasi altro. Diamo uno scopo alla vita: facciamo sentire che val la pena d’essere vissuta, sempre.

Ed ecco, così, sorgere, spontaneo — sole raggiante — il concetto vero, l’unico che può sopprimere il suicidio: la vita è il viaggio nostro a Dio. Nessun altro ideale può sostituirsi a questo.

Vi sono momenti dolorosi, sanguinosi cui può lenire il bacio materno — l’autorevole parola di conforto — la lacrima sincera — la coscienza del dovere operato — la speranza di un raggio, sia pur tenue, di luce - l’incontro d’un viso sereno — la possibilità di un’azione, anche minima — l’occupazione materiale, intensa, forte... Grandi o piccole cose, inezie talora (inezie, in apparenza, poichè vi sono minuzie: sguardi, parole, atti insignificanti in sè che acquistano valore dal momento), salvano l’anima dolorante.

Non sempre: il pensiero di Dio la salva sempre.

Diamolo dunque questo pensiero, e diamolo esatto. Non sia Egli l’Essere Sovrano che ha beneficato, benefica e beneficherà, a distanza, dominatore degli uomini come delle cose — non l’Essere che castiga con segni sensibili il popolo cattivo (quale concetto teologicamente sbagliato si dà del Signore in caso di disgrazie, di sventure, di accidenti sinistri!...) — non l’Essere Supremo che ha imposto doveri gravosi a’ suoi soggetti e li esige, inesorabilmente, senza conforto, senza dolcezza....

Diamo il concetto di Dio, padre, ognora, nella gioia come nel dolore, e nel castigo, anche; padre che intuisce, sa, compatisce, perdona; padre che si nasconde all’ombra delle amarezze che fanno lacrimare i cuori, ma che attende.... per raggiare più intensamente sulle anime nostre.

Per dare l’educazione alla vita, adoperiamoci tutti: la diano con la parola, con l’esempio, con l’opera, quelli che direttamente sono gli educatori, in famiglia, in iscuola, in chiesa, quelli che indirettamente — per posizione, per autorità, per superiorità morale — hanno o possono avere, se la cercano, influenza sulle anime; con l’esempio, almeno, tutti.

Ecco un esempio facile ed accessibile ad ognuno. [p. 115 modifica]Pare non sia possibile ottenere dai giornali che non riportino i suicidi1: «la gente li vuole» si dice per scusa a se non li trovano sul nostro giornale (e chi parla, parla di un giornale buono) andrà a comperarne un altro e così, invece di un male, ne avremo due».

(Si potrebbe rispondere subito che il popolo è quale lo si educa — non è la stampa un potere?... — e che, passato nel caso un primo periodo di malcontento, quando il giornale fosse ben fatto in tutto il resto, non si accorgerebbe neppur più della mancanza della notizia di suicidii). Vedi, per idee consimili l’articolo:

«Giornalisti missionarii» di Eliseo Battaglia, nel Buon Cuore del 4 febbraio 1911.

Ebbene, non leggiamoli i suicidii. Si fanno Leghe per ogni sorta di cose, facciamone una, tacita, per boicottare la lettura dei suicidii.

Non otterremo nulla all’infuori di noi?

Non importa! Avremo quotidianamente forse, temprata la nostra anima alla virtù del sacrifizio — non facile, specie sul principio, perchè il frutto proibito ci attirerà maggiormente — ; e il vantaggio non sarà lieve.

Per educare alla vita, fin dai più teneri anni istilliamo lo spirito di sacrifizio. Neghiamo, almeno qualche volta, il dolce, il soldo; l’attesa d’un regalo lo renda doppia. mente gradito; conoscono ancora i nostri bimbi l’ingenua e non puerile gioia dí saper divertirsi con poco. E i nostri fanciulli rimangano tali nelle abitudini, nelle parole, nei gusti.

Cose vecchie.... concetti triti e ritriti....

In teoria: la pratica quotidiana li addita necessari a seguirsi da tutti.

Ci sia una maggior serietà nella vita d’ogni giorno: le pratiche religiose non si riducano a puro formalismo la scuola sia un dovere per chi la frequenta, per chi vi insegna, per la famiglia degli allievi — i divertimenti siano, come dice l’etimologia della parola, il diversivo, non lo scopo della vita — la villeggiatura, la vera vacanza delle forze intellettuali, il riposo e l’esercizio delle fisiche, secondo i casi, non una moda di più — la moda sia una necessità della vita, non la dominatrice.

La vita è sacra!

Se a noi poco importa il troncarla, agli altri importa che noi viviamo, siano questi altri, conosciuti da noi o no. Una tua parola, oggi, domani, fra dieci anni — anima stanca e disgustata della vita — può destare un sorriso — un tuo esempio può impedire un male, forse grave — un tuo bacio a un bimbo può farti amare....

E tu dirai: «no!» a questa suprema legge che fa della convivenza con i nostri simili, insieme che un obbligo, oltre che un peso, oltre che una palestra di virtù — perchè virtù continua e non facile è il compatimento incessante richiesto nei rapporti pratici — una comunione di pensieri, di sentimenti, di affetti, una santa comunione di bene!

Dirai «no», in nome d’un egoismo sfrontato alla soave legge di amore che ti vuol sua? amore per i vicini, per i lontani, per gli ignoti.... che tutti attendono la tua parte di buon volere?

Va’, va’! per il cammino della vita — come nella strada — t’aspettano forse delle prospettive noiose e un fango antipatico e gli urti della folla.... Va’, con lo sguardo fisso al tuo ideale, forte in cuore del pensiero che ogni attimo tuo è contato, benedetto, sorretto da un Padre Supremo, e che la vita non è un fiore che tu puoi avvizzire e buttar via, ma seme che devi portare a maturanza completa e che — frutto maturo — devi conservare ancora perchè ricetto di altri innumeri semi da diffondere, non da sprecare.

Celestina Annoni.

Per l’Asilo Convitto Luigi Vitali pei bambini ciechi


SOCI AZIONISTI.

Dott. Ercole Bassi |||
 L. 5 ―

OBLAZIONI.

Scuola di S. Michele di Rho, visitando l’Asilo |||
 L. 5 ―

PIO ISTITUTO OFTALMICO


OBLAZIONI.

Famiglia di Ferdinando Zanoletti |||
 L. 50 ―
Dott. Ferdinando Uboldi |||
   » 25 ―
Nob. Fanny Ottolenghi |||
   » 20 ―
Nob. Carlo Barbò |||
   » 20 ―
Nob. Lodovico Barbò |||
   » 20 ―
Signora Giuseppina Freganeschi Borella |||
   » 50 ―
Nob. Giuseppe Bagatti Valsecchi |||
   » 30 ―
Enrico Bambergi |||
   » 50 ―
Carlo e Adele Castiglioni |||
   » 15 ―
Egidio e Pio Gavazzi |||
   » 50 ―
Comune di Biassono |||
   » 9 90
» Sulbiate |||
   » 5 ―
Carnate |||
   » 5 ―
» Ronco Briantino |||
   » 5 ―
» Aicurzio |||
   » 5 ―
Cav. Ing. Augusto Stigler |||
   » 50 ―
Ing. Vittorio Forti |||
   » 10 ―
Dott. Gerolarno Serina |||
   » 25 ―
Avv. Rodolfo Maroni |||
   » 100 ―
Comm. Luigi Broggi |||
   » 10 ―
Margherita Ponsot |||
   » 20 ―
Rag. Francesco Restellini |||
   » 10 ―
Fanny Grugnola Usellini |||
   » 50 ―
Cav. Luigi Vergani |||
   » 15 ―
Ditta Pirelli e C. |||
   » 50 ―
Banca Commerciale di Milano |||
   » 100 ―
Banca Cooperativa Milanese |||
   » 100 ―
Monte di Pietà di Milano |||
   » 200 ―
Opera Pia Visconti di Modrone |||
   » 100 ―
Rossi Teresina Bocconi |||
   » 50 ―

A tutti i prefati signori benefattori la Direzione porge sentite azioni di grazie.



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San Bonaventura poeta


Una figura pensosa e tuttavia soave nella dignità e solennità del suo atteggiamento, la veste cardinalizia e il cappello fiammante in testa, Raffaello dipinse, tra le moltissime, con la squisita gentilezza e genialità dell’arte sua, in una sala del Vaticano — la figura del Serafico Bonaventura di Bagnorea. Con S. Girolamo, S. Agostino, S. Ambrogio, Gregorio Magno, Bernardo di Chiaravalle, Pier Lombardo, Innocenzo papa e Tommaso d’Aquino è anch’egli nella folta schiera di dottori e scolastici che, sotto la luce di gloria avvolgente in atto la Trinità, si aggruppano intorno al Sacramento ch’è il termine della loro attenzione devota. Coronato di alloro è accanto ad essi anche Dante. Ed a lui nessuno osò contendere finora il diritto di sedere nella filosofica e teologica famiglia cristiana di cui tutta la sintesi vigorosa si avvivò del folgore immenso del suo verso, nell’opera cui pose mano e cielo e terra.

La meravigliosa concezione dell’Urbinate, più che una disputa — come si credette a lungo — sull’ineffabile mistero, è forse un simbolo della teologia — la scienza per eccellenza nella quale si esercitarono sempre le menti di tutti i tempi: ma sia quella che si voglia la sua significazione intima, S. Bonaventura è altresì nell’affresco per ben altre qualità che non per quelle soltanto della sua coltura magistrale, e delle sue profonde attitudini dottrinali: egli è anche l’artista e il poeta della teologia; difatti è tra i pochi — o forse l’unico addirittura — che l’ardua scienza penetrò d’un soffio di vita così potente, e d’un sentimento così intenso da permetterle spesso il valore quasi di un’opera d’arte.

Probabilmente, questo nuovo titolo di gloria sarà sfuggito alla mente del divino pittore e del grandissimo amico — l’Ariosto — che secondo alcuni, l’avrebbe giovato di consigli e di suggerimenti nella scelta delle figure. Ma non sorprende. Nel celebre figlio di S. Francesco i più videro sempre l’illustre commentatore delle Sentenze, e non insieme il fervido cantore di quella disciplina ch’è «lode di Dio vera» non ostante una storia molto diffusa sulle sue innegabili tendenze poetiche: la storia curiosa d’un inno al Sacramento da lui scritto per commissione d’Urbano IV, e poi subito rifiutato, appena quello di S. Tommaso che aveva tentato lo stesso argomento gli era parso superiore al suo. Ad essa accennò pure, anni addietro, Alinda Bonacci-Brunamonti, che a proposito dei mistici fervori suscitati nel trecento dal miracolo di Bolsena, per cui si lanciarono agili e luminose al cielo le guglie del duomo di Orvieto, e si composero inni eucaristici, non era dispiaciuto a Bonaventura di Bagnorea — ella diceva — di esser vinto nella lirica prova dal teologo domenicano. Si tratta — a quanto pare — di una vera e propria leggenda, non rispondente forse al carattere umile del gran Santo, e formatasi via via senza l’autorità dei grandi storici minoriti.

Ad ogni modo, il suo nome di poeta non ha mai goduto di una vera e grande popolarità, neppure presso la gente colta. Il filosofo e l’asceta adombrarono l’artista, anche nei tempi di minori intensità teologiche e scolastiche. Generalmente fu ricordata l’erudizione sua varia, la profondità del sapere attestata negli immensi commentari al libro di Pier Lombardo, che lo celebrarono come uno dei più noti maestri italiani della Sorbona, e la forza, la penetrazione dell’intelletto ragionatore che gli consentirono il titolo di Platone del Cristianesimo. Anche Dante lo collocò nel Paradiso, in una seconda ghirlanda luminosa di dottori, come a continuarvi con Tommaso d’Aquino, nell’elogio di S. Domenico, l’ufficio d’insegnante tenuto a Parigi, nel tempo del massimo splendore per la sua università. A lui mancò la sorte di altri confratelli nell’arte, ai quali bene spesso l’uso della liturgia procurò il vantaggio d’una larga, invidiabile e forse non mai sperata diffusione d’inni e ritmi la cui popolarità sarebbe stata invece discutibile o scarsa.

S. Tommaso legò il nome al Tantum Ergo, il beato da Celano al Dies irae e Jacopone allo Stabat, ma nessun lavoro suo, eccettone qualcuno introdotto nei messali francescani, ebbe mai la consacrazione del rito — neppure il Laudismus, non mandato forse a mente che da qualche figlio nell’Ordine meditante, nel devoto silenzio, sulle pagine ascetiche di lui, bagnate di lacrime. Solo gli Inni de Passione, entrati nelle devozioni pubbliche e private e tradotti in alcuni dialetti, restarono in uso fino al secolo XIX nella cattedrale di Halberstadt in Sassonia. E, con altri pochi, furono anche citati dagli antichi biografi, per motivi, evidentemente, di indole storica, anzichè per intimo riconoscimento del valore poetico.

Una relativa importanza cominciò a darsi ai suoi versi nel cinquecento — proprio cioè nel momento, non ancora superato del tutto, degli olimpici disprezzi e fastidi delle produzioni, peggio se poetiche, che non fossero apparse splendenti di eleganza e di orpello, nelle vacuità lusingatrici della forma.

Gli è che durava il delirio umanistico naturalmente indulgente verso tutto ciò che fosse latino, e Leonardo Bruni d’Arezzo aveva già esaltata la Legenda major; gli era parsa, nel suo genere, insuperabile.

Cosi dunque per la prima volta comparvero nell’edizione d’Argentina, nel 494, una diecina dei suoi ritmi, e tutti, anche i dubbi o spurii, furono stampati nella magnifica raccolta vaticana delle sue opere, quasi un secolo dopo, e, ricordati da un notevole storico francescano della prima metà del 500 — Mariano Fiorentino. Lo stesso uditore di Rota, nel discorso per la canonizzazione del dottore Serafico recitato innanzi a Sisto IV, non trascurò il suo capolavoro — S. Philomena — come neppure lo trascurò in una raccolta di opuscoli spirituali — dov’è riportato per intero — il gesuita Rossi. Un accenno ai titoli delle sue poesie apparve pure nella storia degli scrittori ecclesiastici del Bellarmino, mentre il testo loro fu dato prima dal De Soto, poi dal Wadding, nella poderosa opera sugli scrittori dell’Ordine.

Anche il Balinghem fece posto a molte di esse nel suo Parnaso Mariano, e fu in ciò seguito anche dal [p. 117 modifica]Leyser, che ne inserì parecchie nella Historia Poematum et Poétarum medii aevi. In seguito, a parte le moltissime edizioni rifatte sulla vaticana che accolsero tutti i suoi ritmi, e le premure laboriose dei critici per assodarne l’autenticità, essi furono citati o riprodotti nelle molte crestomazie o raccolte di versi di parecchi autori — Fabrizio, Mazzucchello, Quadrio, Tiraboschi, Daniel, Mone, Clement, Du Meril, Blume, Wachternagel, Brewes, Chevalier, Krenzein.

Una traduzione francese dell’Ave coeleste Filium fu fatta dal Corneille, che testimonia il suo deferente ossequio verso l’autore; un elegantissimo ed entusiastico profilo storico gli fu dedicato dall’Ozanam, come illustrazione della sua fervida anima di poeta, e un tentativo di studio sulla sua poesia, comparve nell’ultimo anniversario della sua morte, tentativo al certo onesto, in un’opera nè intera nè seria e che perciò non valse a nessuna esaltazione o diffusione di meriti obliati o mal conosciuti. Pagine di sincera ammirazione gli dedicò pure il Sagette, analizzando il suo più forte poemetto, parole di simpatia hanno per lui tutti i critici moderni: il Carducci lo chiamò il lirico del misticismo, e poeta lo disse il Bartoli; il Gaspary ritenne bellissime le sue produzioni in rima, e superbi parvero allo Chevalier i suoi poemi sulla Vergine.

Così dunque, almeno in parte, la continuità della tradizione ricordante alcuni tratti della sua fisionomia intellettuale, diversi da quelli già fissati nelle consuetudini scolastiche, non è stata, si può dire, interrotta mai, sicchè la sua fama s’è potuta via via meglio sviluppare e dilatare.

E in realtà, meritava. Perchè se certo ispiratori furono i suoi tempi, è anche vero che un’anima ben disposta e profonda egli portava in mezzo al fervore e al tumulto d’un secolo nel quale l’arte non s’era rifugiata solo in cuore d’un Penitente umbro o d’un fiero esule fiorentino. Ella spirava e raggiava potente d’ogni parte — dal petto degli asceti, dalle avventure dei cavalieri, dai volanti gonfaloni dei liberi comuni, dalle audacie dei guerrieri, dai pinnacoli dei templi, dalle torri merlate dei castelli feudali, e dalle vaste opere dei pensatori d’allora — monumenti grandiosi di scienza di sapienza, in cui fu il germe del nostro rinascimento, la sintesi della dottrina cattolica. Trovatori e menestrelli correvano la Francia, l’Italia e la Spagna a rallegrarvi di canti e di suoni le piazze e le corti, i racconti fantastici di Carlo Magno e di re Artù eccitavano le menti nella esuberanza delle descrizioni e delle passioni, e, in quel bisogno prepotente che tutti agitava di votarsi alla santità d’una causa grande e generosa, che assorbisse le energie prorompenti della vita, moltitudini di crociati si stringevano ancora intorno a principi e monarchi per correre sulle spiagge ridenti della Palestina, a liberarvi il gran sepolcro: avvenimenti solenni in cui splendono l’eroismo e la poesia del medioevo, e che senza essere una follia infruttuosa fu invece e parve anche al Villemain l’età epica per eccellenza delle nazioni europee. Tempi, così, di ardori e di entusiasmi, che passavano sotto il sole in una luce di gloria e festa, durante la primavera delle lettere e delle arti, e che si rivivono oggi attraverso le folgoranti rievocazioni dei poeti e dei romanzieri. L’itala gente dalle molte vite risorgeva da i detriti del passato, si procedeva in tali fatti e personaggi che la storia non si direbbe atta a ben illustrarli tutti. Innocenzo III, Luigi IX, Francesco d’Assisi, Domenico di Gusman, Alberto Magno, Tommaso d’Aquino, Ruggero Bacone, Bonaventura di Bagnorea, Bonifacio VIII, Dante, e, di più scarsa importanza, Vincenzo di Beauvais, Enrico di Gaud, Duns Scott, Raimondo Lullo, Alessandro d’Ales, sono le figure per eccellenza rappresentative delle forze intellettuali e morali del secolo prodigioso, e la solenne prova della sua unica situazione di spirito davanti alle età posteriori. Mai come allora, per alcuni rispetti almeno, l’Europa fu convertita in un ampio studio aperto alle muse ed alle severe elucubrazioni della mente. Ed a torto il medio evo fu screditato, a cominciare dagli umanisti, fino all’aspro poeta maremmano, che prima di giungere alla libertà di spirito onde meglio giudicò uomini e cose, la chiamò età nera, età barbara. Fu invece il periodo di elaborazione delle nostre energie, di preparazione cupa e magnanima della nostra rinascita, perchè nelle sue ignorate profondità e nell’enormi produzioni dei suoi maestri si gettarono i germi della vita e del pensiero. Dal giorno che Gregorio VII — «il genio del comando che emancipa e che illumina» piega sotto la forza dei suoi anatemi, le provincie d’occidente ed inflisse al monarca tedesco l’umiliazione di Canossa, d’allora il trionfo del principio religioso e della civiltà cristiana, dettero la più vigorosa spinta alle grandi ascensioni di nostra gente. E la chiesa fu la sua guida: nel suo seno bisognerà trovare le vaste anime che rivelarono il nostro pensiero e lo sorressero per la grandezza dell’avvenire. Essa sola potè allora penetrare nelle solitudini delle coscienze e nelle intimità delle famiglie, ed essere la nobile e costante ispirazione dell’arte, della poesia, della politica e della civiltà.

Ora di questo secolo che tutto s’avviva e freme sotto i candidi riflessi dell’Umbria francescana da cui venne al mondo un sole grande, e si sparsero intorno le faville animatrici del bene, della pace, della giustizia e dell’amore — di questo secolo è figura sovrana S. Bonaventura. Esso l’abbraccia per quasi cinquant’anni con la prodigiosità dell’opera sua d’insegnante, scrittore, oratore, superiore di Ordine, cardinale, consigliere ed amico di pontefici e di re. Ma — converrà ammetterlo scarsa fu la parte avuta dalla sua poesia nello splendore ch’egli gettò nella sua età, e, per ben altre qualità di mente e di cuore, che non per forti inclinazioni all’arte si vide cumulata tanta larga e concorde simpatia di elogi sul grande italiano del trecento che Lutero chiamava «incomparabile» e Rosmini diceva «universale e sommo».

Ciò non ostante, l’indifferenza che trascurò la sua non troppo modesta opera di poeta è immeritata e colpevole. Esso rivela in lui uno degli aspetti più simpatici — cioè quella tendenza ch’è la sua forma mentale, il carattere e lo spirito che vela e pervade la sua

[p. 118 modifica]produzione mistica e teologica, consentendole atteggiamenti ed efficace di cui dovrà tener conto chiunque voglia abbracciare e approfondirne l’anima nella stia integrità e pienezza.

Ernesto Tanlongo.

(Continua).

  1. Lodevole eccezione fa il giornale di Milano La Perseveranza che, per regola, non pubblica suicidii.