Il buon cuore - Anno XI, nn. 44-47 - 23 novembre 1912/Religione

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I Morti Necrologio

[p. 346 modifica]Religione


Vangelo della Domenica seconda d’Avvento


Testo del Vangelo.

Nell’anno quintodecimo dell’impero di Tiberio Cesare, essendo procuratore della Giudea Ponzio Pilato, Tetrarca della Giudea Erode, e Filippo suo fratello Tetrarca dell’Iturea e della Traconitide, e Lisania Tetrarca dell’Abilene: sotto i pontefici Anna e Caifa il Signore parlò a Giovanni figliuolo di Zaccaria, nel deserto. Ed egli andò per tutto il paese intorno al [p. 347 modifica]dano, predicando il battesimo di penitenza per la remissione dei peccati, conforme sta scritto nel libro dei Sermoni di Isaia profeta: Voce di uno che grida nel deserto: Preparate le vie del Signore: raddrizzate i suoi sentieri, tutte le valli si riempiranno, e tutti i monti e le colline si abbasseranno; e i luoghi tortuosi si raddrizzeranno; e i malagevoli si appianeranno, e vedranno tutti gli uomini la salute di Dio. Diceva adunque (Giovanni) alle turbe, che andavano per essere da lui battezzate: Razza di vipere, chi vi ha insegnato a fuggire l’ira che vi sovrasta? Fate dunque frutti degni di penitenza e non vi mettete a dire: Abbiamo Abramo per padre. imperocchè io vi dico che può Dio da queste pietre suscitar figliuoli ad Abramo. Imperocchè già anche la scure è alla radice degli alberi. Ogni albero adunque che non porta buon frutto sarà tagliato e gettata nel fuoco. E le turbe lo interrogavano, dicendo: Che abbiamo noi dunque a fare? Ed ei rispondeva loro: Chi ha due vesti ne dia a chi non ne ha e il simile faccia chi ha dei commestibili. E andarono anche dei pubblicani per essere battezzati, e gli dissero: Maestro, che abbiamo da fare? Ed egli disse loro: Non esigete più di quello che vi è stato fissato. Lo interrogavano ancora i soldati dicendo: Che abbiamo da fare anco noi? Ed ei disse loro: non togliete il suo ad alcuno per forza, nè per frode, e contentatevi della vostra paga. Ma stando il popolo in aspettazione e pensando tutti in cuor loro se mai Giovanni fosse il Cristo, Giovanni rispose, e disse a tutti: Quanto a me, io vi battezzo con acqua, ma viene uno più possente di me, di cui non sono io degno di sciogliere le corregge delle scarpe; egli vi battezzerà collo Spirito Santo e col fuoco: Egli avrà alla mano la sua pala. e pulirà la sua via, e radunerà il frumento nel suo granaio, e brucerà la paglia in un fuoco inestinguibile. E molte altre cose ancora predicava al popolo istruendolo.

S. LUCA, Cap. 3.


Pensieri.

Ego... vox clamantis...

Cos’è una voce?

Non ogni rumore che percuota il nostro orecchio può dirsi una voce. Solo voce si dice un complesso d’armonie, che, udito, suscita e rivive nel senso l’impressione grata, nello spirito i fremiti buoni. Questo è voce! S’io guardo ed osservo il creato quale, quanta voce mi percuote! La distesa dei cieli, l’azzurro dell’onde, la varietà della terra, il brillare delle stelle ha per me un linguaggio potente: come piccino il mio essere innanzi a tanto mare!... quanto grande il mio spirito che tutto lo domina... quanta sublime intelligenza che ne misura le grandezze, ne divina le leggi, dal più profondo degli abissi strappa — vincitrice sempre — ogni più oscuro segreto...

Abbassiamo lo sguardo sul re del creato, sull’uomo, sul principe della terra. Nell’uomo grave mi parla il senno, la prudenza: nella madre il sublime atto del sacrificarsi alla vita, all’educazione, all’amore: nella timida fanciulla l’onor della vergine: nel giovane ardito l’ardire generoso, gagliardo degli anni primi... nel bambino l’ingenuo candore dell’angelo... Non è una voce? non è grande, immensa come tutto il creato questa voce?...

* * *

Tutto ci parla quaggiù. Lo stesso silenzio — disse il poeta — talvolta è un inno, ma questa voce è vaga, incerta per l’orecchio che la deve raccogliere: manca alle volte la parola che fissi la voce del creato, della natura... senza le note si perde il ritmo che freme nello spirito, senza la parola si perde il grandioso ritmo del cosmos.

Occorreva la parola. Venne da Dio. La religione ce la svela. Grandiosa voce della religione, che si fece udire in tutti i tempi, sino agli estremi confini della terra, dalle più superbe metropoli al tugurio del povero, dagli ampli palazzi alla tenda, al tucul del selvaggio abitator del deserto, della foresta!

S’inchinarono i popoli — felici loro! — a quella voce, alla voce di Cristo, il profetato. l’annunciato dal profeta del deserto.

S’inchinarono i popoli — felici loro! e n’ebbero civiltà, progresso, fraternità.

S’inchinarono i popoli — felici loro! — cessò l’egoismo in terra, l’odio, le gare disoneste.

S’inchinarono i popoli — felici loro! e levato il lor capo videro i cieli, scoprirono una seconda, una miglior vita; scoprirono non la materia dissolventesi e passeggera, trovarono l’ideale, la vita eterna.

S’inchinarono i popoli -- felici loro! — raccolsero non i triboli e le spine, raccolsero la felicità.

* * *

Banditore di questa voce è il sacerdote di Cristo. Dalla viva sua voce apprese il suono di giustizia, di libertà, di verità e corse i popoli interi perchè si svegliassero dal sonno di morte alla voce di vita. Per ogni dove generosamente quella voce — a mezzo della Chiesa — dei sacerdoti essa risuonò: nel tempio, nelle piazze, nelle arti, nelle scienze, nella libera voce, dei giornali che la stampa scarica ogni giorno. Come mai fu raccolta questa voce?

Parla il sacerdote: la sua semplice parola è raccolta dalla vergine pia, dalla vecchierella cadente, dall’uomo a cui l’età fugò l’ardor delle passioni, dal vecchio uso ai casti pensieri della tomba.

Parla il sacerdote: verso di lui l’ingiuria villana dell’operaio, l’odio verso di lui, il sorriso beffardo dell’uomo d’affari; verso di lui la benevola compassione del giovane signore che passa eloce, elegante, che apprezza quella voce per gli altri, la disdegna per sè.

Parla il sacerdote: al vibrar della sua voce freme d’amor nel suo cuore, all’amor di Cristo unisce l’amor dei fratelli che gemono in povertà, che fremono fra gli ori ed i comodi, di tutti... Chiede che l’amino, che lo abbiano a seguire dietro l’orme luminose di Cristo, della Chiesa... L’urlo lo osteggia... il popolo preferisce la voce delle proprie passioni, di chi lo adula, di chi lo avvince di catene d’oro. Il sacerdote?... vox clamantis in deserto.

B. R.

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Monsignor LUIGI NAZARI

di CALABIANA

Arcivescovo di Milano


Onoranze pel trasporto della Ven. Salma da Gropello al Duomo di Milano.

13-14 Novembre 1912



La Commissione

† Giovanni di Dio, Vescovo di Famagosta, Ausiliare di Milano.
Mons. Dott. Francesco Balconi, Arciprete del Duomo.

» Gaetano Pozzi, Can. della Metropolitana.

» Alessanbro De-Giorgi, Rettore dei Seminari.

Paolo Rossi, Arciprete del Duomo di Monza.

Sottocommissione Esecutiva

Rev.mo. Giuseppe Polvara, via S. Sepolcro, 2
M. R. Can. Eugenio Roncoroni, Sant’Ambrogio, 53
»  »  » Gaetano Pellegrini, Corso Venezia, 45

Sede della Sottocommissione esecutiva: Via S. Sepolcro N. 2


Dolci rievocazioni:

Un fiore su quella Venerata Tomba



Note gentilmente favoriteci dal Rev.mo Mons. G. Polvara.

* * *

Luigi Nazari dei conti di Calabiana nacque in Savigliano il 21 luglio 1808 da famiglia tra le più illustri del Piemonte e molto benemerita per virtù civili e religiose. Vestì, giovanetto ancora l’abito ecclesiastico nel seminario di Brà, e frequentò l’università di Torino, conseguendo le laure in filosofia e teologia. La prima S. Messa venne da lui celebrata nella natia Savigliano il 29 maggio 1831. Le sue preclari doti di mente e di cuore lo misero tosto in vista nella Reggia Carlo Alberto lo nominò suo Elemosiniere. Andato in seguito a stabilirsi a Savigliano, investito di un canonicato di famiglia, ivi si diede ad esercitare il ministero sacerdotale con zelo, prudenza, dignità e dolcezza così da conciliarsi l’affetto e la stima di tutti. Carlo Alberto aggiunsegli oltre quella di Elemosiniere di corte la carica di Amministratore delle opere di pubblica beneficenza e riformatore degli studi. A proposito di quest’ultimo ufficio è scampato al naufragio in cui sono andate perdute e disperse le carte private dopo la morte dell’illustre Arcivescovo, un vecchio diploma di idoneità, autografo rilasciato da lui ad un insegnante, che rivela da sè con quanta cura e acuta saggezza, egli attendesse alla amministrazione regolare dell’insegnamento pubblico e vegliasse alla disciplina morale degli insegnanti.

Più volte la Corte si servì dei suoi uffici per delicati e importanti affari, e più volte il canonico Calabiana fu sollecitato ad accettare un vescovado del Piemonte. La onorifica proposta, anzi che sedurlo lo sgomentava, e dopo ripetuti rifiuti, fu necessario che Carlo Alberto, proponendogli il vescovado di Casale, desse al suo desiderio il carattere più di comando che di invito per vincere le ritrosie. Per mezzo del ministro Avet il Re gli faceva dire: essere persuaso che avrebbe questa volta saputo conciliare coi suoi sentimenti i doveri che lo vincolavano alla Chiesa, al Paese, alla Corona.

* * *

Il R.mo Canonico di Calabiana il 6 giugno 1847 fu consacrato Vescovo in Roma, e il 22 agosto in mezzo alla più festosa accoglienza faceva il suo ingresso in Casale. Alcune parole della sua omelia in quella circostanza, pronunciate nella cattedrale, meritano di essere ricordate. In quelle parole il vescovo caratterizzava sè stesso:

«Anticamente la parte del Vescovo era opporsi in faccia ai contradditori, pugnare per gli altari e dare per essi la vita: e vedendo tornare inutile ogni resistenza, ritirarsi in fondo al Santuario ed umiliato nella polvere supplicare il Signore di avere pietà dei suoi figli e illuminare coloro che volontariamente si precipitano nelle ombre della morte. Ma nei tempi che corrono ben altra è la parte del Vescovo. Egli deve intendere questi movimenti degli intelletti e dei cuori; capitanare queste spedizioni sui campi della verità e dell’amore: informarvi lo spirito dell’umiltà; della religione; avvisare ai pericoli, scrutare nell’intimo ogni novità confermarle senza passione se buone: riprovarle senza timore, se cattive».

La confidenza e la stima che lo avevano circondato a Savigliano, non vennero meno, ma si conservarono e crebbero sempre più a Casale. Piaceva sopratutto la sua affabilità, l’interesse ch’egli prendeva delle cose cittadine, l’avvicinarsi, il confondersi con tutte le classi sociali, l’incoraggiarne gli intenti, il dividerne le speranze, l’aiutarne gli sforzi, applaudirne i risultati. Oltre al governo spirituale saggio e proficuo monsignor Di Calabiana procurava due insigni benefici a Casale: la fondazione del Ricovero di Mendicità e il restauro della Cattedrale. Della prima impresa Egli si fece iniziatore, aprì una sottoscrizione, ne perorò la causa nella seduta della Congregazione dello spedale il 3 febbraio 1848 e mercè il suo largo concorso Casale fu dotata della benefica istituzione. Circa il restauro della Cattedrale, per impedire che prevalessero alcune progettate riforme secondo le quali alle antiche linee lombarde si voleva sostituire una raffazzonatura artificiosa di gusto moderno, egli avocò a sè ogni cosa, ricorse ai dotti in materia e ristabiliva al culto e all’arte lombarda la bella basilica di Luitprando. Il suo contributo pecuniario anche qui fu decisivo per la riuscita dell’impresa.

Nella beneficenza era larghissimo, ma non voleva rumore: studiava i mezzi perchè il bene compiuto arrivasse a sollievo del bisogno senza che fosse possibilmente avvertita la mano benefattrice. Gli istituti di carità casalesi lo avevano patrono e benefattore; quando difettava di danaro aveva il soccorso del conforto, l’aiuto valido del consiglio e delle sue forti influenze. Nel 1849 quando gli austriaci invasero il Piemonte, i cittadini di Casale per ben due giorni sostennero Furto del nemico, ed anzi più volte uscendo dalla città ne misero in fuga le schiere numerose. Il Vescovo che era in Torino, accorse subito a Casale per dividere il pericolo di quei giorni coi suoi figli e fu efficacissima l’opera sua nel confortarli e rassicurarli.

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* * *

Con decreto 3 maggio 1843 mons. Di Calabiana veniva nominato Senatore, sebbene non avesse ancora raggiunta l’età di 40 anni, sicché il Senato nella tornata del 22 del mese stesso, per approvare la nomina senza contraddire allo Statuto, gli dovette concedere scltanto voto consultivo, finché non avesse raggiunta l’età prescritta. Era assiduo alle adunanze del Senato sempre inspirandosi ad un altissimo concetto, quello della religione unita alla libertà, e della libertà unita alla religione. Il suo programma politico costantemente seguito fu quello di contribuire all’accordo cordiale, nella distinzione delle rispettive attribuzioni, tra Chiesa e Stato a bene del popolo. E per conciliare gli interessi della Chiesa con lo Stato prendeva attivissima parte in Senato nell’aprile del 1855 quando venne discusso il progetto di legge sulla soppressione di diverse comunità e stabilimenti religiosi. Facendosi interprete dei sentimenti dell’episcopato piemontese aveva proposto, in cambio del rispetto delle istituzioni e delle proprietà religiose, di dare allo Stato una somma corrispondente a quella che il governo si riprometteva di ottenere con legge. La proposta non venne accettata dal governo, ma fu riconosciuta da tutti, e dallo stesso conte di Cavour, allora presidente del Consiglio, come prova di quel sentimento di vero e alto patriottismo, che ispirava mons. Nazari di Calabiana e l’Episcopato piemontese.

* * *

Nel 1867 il vescovo di Casale venne da Pio IX promosso alla sede di Milano. Nonostante la sottoscrizione plebiscitaria dei casalesi, che imploravano dal Papa la revoca di una tal nomina per il dolore di perdere l’amatissimo Vescovo, la nomina venne mantenuta. Degna dí essere conosciuta è la lettera cortese da lui scritta in data 12 giugno al sindaco di Milano per annunciargli il suo ingresso.

Il documento che noi trascriviamo dall’autografo, era rimasto finora inedito; e nella sua aurea semplicità basta a scolpire il carattere morale dell’uomo:

«Illustrissimo Signore, Trovandomi in dovere di recarmi quanto prima in mezzo dei miei diocesani io mi fo premura di annunziare a V. S. Ill.ma che quando nulla vi osti, avrei avvisato di prendere personale possesso di cotesta Sede Metropolitana il giorno 23 del corrente mese (domenica). Io l’accerto che quanto più modesto sarà il mio ricevimento, tanto maggiore sarà la soddisfazione del mio animo, il quale alieno per indole da ogni clamorosa dimostrazione non desidera altra cosa che di venire così apportatore di pace e di benedizione. Se le deboli mie forze non potranno operare tutto quel bene morale e religioso, che pure bramerei a vantaggio dei nuovi diocesani, io invoco sin da ora da chi amministra con tanto senno la cosa pubblica e dei buoni milanesi tutti compatimento ed indulgenza. La buona volontà essendo pur qualche cosa, di questa io spero, che vorranno Eglino tenermene conto. Mi dò l’onore di essere con ossequioso rispetto e particolare considerazione, di V. S. ill.ma dev.mo e obl.mo servitore

Luigi di Calabiana, arcivescovo».


* * *

Il suo ingresso avvenne appunto il 23 giugno del 1867. Numerose famiglie coi loro equipaggi furono a riceverlo alla stazione, e appena con la sua alta figura, col suo volto dignitoso e improntato a bontà, l’Arcivescovo si affacciò sul piazzale una salva di applausi inaugurò il suo episcopale ministero nella metropoli lombarda.

Le sue prime cure egli rivolse alla educazione e alla disciplina del clero; provvide con grande generosità affinché non pochi chierici e giovani sacerdoti di eletto ingegno e di attitudini distinte compissero nelle pubbliche Università gli alti studi e laureati potessero in seguito servire di ottimi insegnanti nei seminari diocesani.

La sua carità, che tante e sì belle prove aveva dato negli anni precedenti in Milano trovò un campo più vasto e dispose di risorse maggiori. Fatto erede di un cospicuo patrimonio da una pia dama milanese, che gli aveva serbato gratitudine per il conforto squisito che il vescovo le aveva dato in occasione di un grave lutto, mons. Di Calabiana erogava la somma alla erezione di un ospedale a Melegnano. Un palco al teatro alla Scala da lui regalato all’istituto dei ciechi fruttò all’Istituto la somma di 13 mila lire.

Poco dopo il suo ingresso in Milano nel dicembre del 1869 si riuniva il Concilio Vaticano. Si conoscono le vicende che in quel Concilio subì la discussione intorno alla dottrina della infallibilità del Pontefice. Mons. Di Calabiana appartenne al gruppo della minoranza, che non credeva opportuna la definizione dogmatica di tale verità. Appena proclamato il dogma egli però non solo si affrettò a farvi pronta adesione, ma invitò il suo gregge ad imitarlo. Se con la opposizione manifestò uno dei caratteri più importanti del Concilio, la libertà, con la sommissione manifestò che il carattere essenziale della Chiesa cattolica dinanzi alle verità dogmaticamente definite non può essere che uno solo: l’unità.

Un evento faustissimo venne ad associarsi al suo episcopato, un evento di fama mondiale: la scoperta e la esaltaziond dei corpi di S. Ambrogio e dei SS. Gervaso e Protaso. Son note le vicende di quell’episodio. Tutto era apparecchiato per il trionfale trasporto delle insigne reliquie dal Duomo a S. Ambrogio dove sarebbero state collocate nell’urna preziosa per la quale l’Arcivescovo aveva contribuito con una offerta di 30 mila lire, quando un improvviso ordine governativo vietò la grande dimostrazione religiosa. Le S. Reliquie vennero trasportate di notte tempo scortate da tutto il popolo milanese, che volle così esprimere la sua fede e la sua nobile protesta contro l’assurdo divieto. Memorabile è l’allocuzione recitata da mons. Di Calabiana in Duomo il giorno 14 maggio 1874 in tale circostanza.

Il 9 gennaio 1878 moriva Vittorio Emanuele II, e l’Arcivescovo di Milano si associava al lutto nazionale indicendo delle pubbliche preghiere di suffragio. La morte del grande Pio IX seguita poco appresso venne da lui annunciata al popolo con una nobilissima circolare in cui Egli esprimeva il suo profondo [p. 350 modifica]compianto per l’uomo da lui venerato e tanto provato dai dolori.

Nel 1881 ricorrendo il suo giubileo sacerdotale, clero e popolo con uno slancio unanime gli apparecchiarono solenni festeggiamenti ai quali si associavano Leone XIII, molti cardinali, l’episcopato lombardo e moltissimi vescovi italiani e stranieri.

Dalla Corte di Savoia egli venne insignito nel 1887 del gran Collare dell’Annunziata. La cerimoia del conferimento venne compiuta nel salone dell’Arcivescovado, per mano del generale Taffini per incarico di Re Umberto.

Leone XIII lo aveva carissimo, lo stimava assai e lo avrebbe elevato alla porpora, se date le condizioni particolari dei tempi, non avesse creduto più opportuno che mons. Di Calabiana rimanesse insignito delle prerogative sabaude.

* * *

Venuto a reggere le sorti spirituali della vasta archidiocesi in tempi difficilissimi, tra dissensioni acerrime nelle file stesse del clero, egli seppe con un tatto finissimo, con la dignità dell’aspetto e delle opere, con la dolcezza dell’anima evangelica e con la inflessibilità adamantina di un forte carattere raccogliere attorno a sè il clero, conciliarsene stima, affetto ed obbedienza. Il suo governo spirituale potrebbe essere riassunto in questa formula: il minor spiegamento possibile di autorità per un più largo effetto in ogni impresa. All’imposizione disciplinare preferiva le vie della persuasione e della carità; quando però l’intervento della sua autorità si rendeva necessario, la sua fibra resisteva a ogni difficoltà contraria, inflessibile, inespugnabile. Buon conoscitore di uomini sapeva vagliare i meriti degli uni e a suo tempo riconoscerli; non si induceva per nessun conto a favorire chi ne fosse indegno. Dalla pietà ferventissima in lui ritraeva luce nel difficile ministero e conforto nelle amarezze delle quali non fu esente il suo ministero.

* * *

Dopo il giubileo sacerdotale declinò. La sua robusta salute venne minata da un lento malore, che si protrasse alternando crisi e miglioramenti per dodici anni, finchè il 23 ottobre 1893. tra il cordoglio generale lo spense dopo ch’egli ebbe ricevuto con indicibile fervore i conforti religiosi e fatta la sua professione di fede.

L’ultima pastorale di mons. Calabiana, fu la divulgazione dell’enciclica del S. Padre sulla divozione del S. Rosario.

Ma l’atto più importante che chiuse lo splendido suo episcopato è stato il ripristino della facoltà teologica Pontificia nel Seminario Maggiore di Milano, del quale l’Arcivescovo di Milano è e sarà per diritto il gran Cancelliere. Nulla di meglio: Mons. Calabiana desiderava che coronare il proprio governo spirituale della Diocesi di Milano con un solenne attestato alla perfetta unione della Chiesa ambrosiana colla cattedra di San Pietro.

E Monsignore chiuse gli occhi nel bacio del Signore colla benedizione di Leone XIII, ch’Egli ebbe appena la forza di chiamare «grazia speciale».

Tra i molti accorsi al capezzale dell’illustre prelato morente vi fu il Re Umberto venuto appositamente dalla sua villa di Monza. Il Sovrano alla vista del grande amico nelle strette dell’agonia si mostrò visibilmente commosso.

La sua salma, vestita degli abiti pontificali, venne esposta nella cappella arcivescovile e per quattro giorni il popolo di Milano sfilò ininterrottamente davanti alla sua bara per deporre l’omaggio delle lagrime e delle preghiere.

I solenni funerali ebbero luogo il giorno 28 ottobre. Le autorità governative, le rappresentanze della Corte, del Senato, della Camera, della magistratura, del comune col numerosissírno clero diocesano e con una onda di popolo componevano il corteo imponentissimo.

In Duomo, parato a lutto, durante le esequie, mons. Ballerini, antecessore del defunto sulla cattedra milanese ed allora patriarca d’Alessandria, tessè con parole affettuose l’elogio funebre del compianto Arcivescovo.