Il diavolo nella mia libreria/Italia, Italia!

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Italia, Italia!

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Pietro Metastasio mi parla La gallina e i pulcini
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Italia, Italia!

Vi è però una cosa che fa pena per chi conserva ancora anima italiana: ed è il vedere come nel Settecento questi padri gesuiti esaltavano l'Austria e spiegavano la politica.

Io mi rendo ragione di tante cose: i nobili italiani erano legati all’Austria per interesse di classe, come si dice oggi; i signori letterati erano avventurieri, cosmopoliti, riformatori dell’universo, benefattori del genere umano, quando erano ascritti alla francomuratoria; ma dell'Italia non si occupavano se non qualche volta quando sognavano l’elmo di Scipio; le masse popolari sentivano la dignità della nazione a un dipresso come la sentono oggi. [p. 167 modifica]Io cerco di capire tante cose anche contro il mio sentimento. Io capisco benissimo che il mezzo migliore per condannare in blocco tutta la storia della rivoluzione politica d’Italia è quello di negare l'Italia, come asseriva il Metternich, e come trovo scritto in questo catechismo gesuitico, composto per il popolo, dopo il 1831, dove è detto: «libertà non esiste, indipendenza politica non esiste, patria è il villaggio dove uno è nato, Italia è un’invenzione della setta satanica. Unità di razza, di lingua, di costumi in Italia? Nessuno ebbe detto mai simile enormezza».

E per l'appunto così: l'idea di un Regno italiano non aveva mai esistito, se non pure ai tempi di Teodorico, e poi si era nascosta sotto le ali di qualche duca Alpino (evidente allusione alla casa di Savoia), disceso dal loro sangue, che colla propria ambizione fomentava questa idea, da prodursi in tempi propizi...

(E qui, fra parentesi, si può notare che [p. 168 modifica] sotto specie di vituperarla, non si poteva fare alla casa di Savoia più grande elogio).

Capisco le invettive alla mente, vasta sì ma traviata dell'ex abate Gioberti; capisco i dardi contro il famoso conte di Cavour, quasi Giano bifronte del satanico Mazzini. E per noi italiani non è senza profonda significazione che i gesuiti riconoscano questo nel conte di Cavour: che egli fu autore del gran fatto dell'unità d'Italia: appunto colui che il popolo d’Italia meno conosce o riconosce, che i repubblicani, da Brofferio, da Guerrazzi al Crispi nominarono sempre a denti stretti. Non parlo di Garibaldi e di Mazzini che gli furono cordialmente avversi.

Quest'uomo dal genio equilibrato fra la idealità e la realtà, fra l'audacia e la prudenza, apparso in una terra di fanatici o di molto apatici in materia politica, appose la sua firma alla cambiale della Rivoluzione, e la fece passare allo sconto delle Potenze d’Europa, chè con la firma del Mazzini, probabilmente, mai non sarebbe passata. [p. 169 modifica]Cavour è morto così presto che se volessimo sapere se egli è lieto, oggi, o pentito dell’opera sua, converrebbe ricorrere ad un’evocazione medianica.

Ma la storia urgeva: forse o allora, o mai più!

Capisco, anzi ammiro, quando i Gesuiti vanno a vedere che cosa si nasconde sotto le formule mistiche del Mazzini, Dio e popolo, Stadii del progresso come unica rivelazione di Dio su gli uomini.

Essi scoprono che sotto si nasconde socialismo e comunismo. Anzi, veramente, dicono: la coda di Satanasso.

Capisco la esclamazione del papa Gregorio XVI: «Oh, caeci reges qui rem non cèrnitis istam!» («Oh, re ciechi, che non vedete questa cosa!»).

Quale cosa? I congressi scientifici. A varie riprese, nelle varie capitali degli Stati [p. 170 modifica] italiani furono tenuti, nei primi decenni del secolo passato, congressi scientifici e letterari; e il Papa vuol dire ai nostri sovrani che permettevano quelle adunanze: «non vi accorgete che, sotto la scienza, si fa della politica rivoluzionaria?».

Riconosco volentieri che Ferdinando II di Borbone fu molto calunniato dai settari e dai governi massonici (come qui vedo chiamate Francia e Inghilterra). Fu deriso coi nomi di re Lazzarone, re Bomba, ma non mancò di lealtà e di dignità di re; fu additato come tiranno, anzi il peggior tiranno che fosse in Italia, e certo se trovava uno, non dirò con la barba all’italiana, ma semplicemente con la barba a collana, gli diceva: «va a tagliarti subito questa barba»; ma fu ben migliore della sua fama.

Il suo maggior torto fu di voler pensar lui con la sua testa, per tutto il suo popolo, avendo testa non bastevole per fare il re.

Anche lui detestava gli intellettuali e, in generale, gli scrittori, che chiamava per [p. 171 modifica] disprezzo pennaruli. Ma non gli si può negare un certo suo acume, anche se non riusciva a capire come un signore, un barone del suo reame potesse fare il liberale. Gli spiantati, i paglietta senza cause, i pennaruli potevano fare i liberali; ma un nobile...

Perchè allora liberale, che oggi vale quasi come codino, era il più elevato termine rivoluzionario fra noi.

Al quale proposito si può osservare che la rivoluzione italiana, compiutasi nel 1870, abbattè le paratie stagne che ci dividevano dalle altre nazioni; e allora dovemmo subire la legge dei vasi comunicanti, e i liquidi rivoluzionari con grande impeto e con tutti i loro nomi, irruppero fra noi.

Io capisco, anzi trovo dal suo punto di vista ragionevole questo rapporto che Francesco IV da Este, dileggiato anche lui dai liberali col nome di Rogantin di Modena, presentava al famoso congresso dei re, [p. 172 modifica] tenuto in Verona nel 1822. Dice: uno dei più grandi mali della società è che tutti imparino a leggere e a scrivere; il troppo potere e diritto che si concede ad ogni uomo letterato, la moltiplicazione di professori d'ogni sorta, e la troppo grande facilità che si concede ovunque per la gioventù di studiare.

Io stavo con la testa un po’ in giù meditando su queste opinioni del duca di Modena, quando mi parve che dai vecchi libri venissero fuori facce smunte di Gesuiti defunti. Essi agitavano davanti ai miei occhi l’ultimo bollettino rivoluzionario, italiano, dove era stampato così: guai se il movimento intellettuale dovesse essere volto a sbarrare il passo alle classi lavoratrici: esso verrebbe subitamente infranto.

«Liberali, liberali — mi dicevano i gesuiti: — la biscia morde il ciarlatano». [p. 173 modifica]Che cosa dovevo rispondere? « Ebbene, sì: i figli minacciano i padri di antropofagia. Se ciò vi fa piacere, o padri gesuiti, ho piacere per voi e ho dolore per questo povero e caro nostro paese».

E in fine capisco come nel Settecento i Gesuiti dovessero guardare all’Austria, come alla colonna vertebrale di tutto il sistema politico europeo, perchè l'Austria era la sola grande potenza cattolica, che vuol dire universale, e non per nulla gli imperatori d’Austria erano chiamati Sacri Romani Imperatori.

E mi spiego assai bene con quanta premura, in su la fine del Settecento, il papa Pio VI andasse a Vienna a parlare con l'imperatore Giuseppe II. «Se mi fa il liberale anche lei, non sapremo più dove andremo a finire». [p. 174 modifica]

Quello che non riesco a capire, cioè capisco anche, ma non riesco a mandar giù, sono questi cataplasmi di abbiezione applicati su questo disgraziato popolo d’Italia!

Erano lezioni di storia, allora contemporanea, per spiegare come la Lombardia e il Reame di Napoli, cioè gran parte d’Italia, nel 1714 passò automaticamente, come un gregge che cambia padrone, dalla Spagna all’Austria in conseguenza della prima guerra di Successione.

Austria, allora, voleva dire anche Germania; ed è noto che un’unica sovranità — che più tardi fu divisa — regnò su Austria e Spagna al tempo di Carlo V d’Absburgo.

Dice la storia dei buoni padri:

Di due maestosissimi tronchi di sì altera radice, uno ne vedemmo nelle Spagne, a scolorirsi, a intisichire, a disseccare e quindi, per mezzo a nuvoli tempestosi d’armi e d’armati, [p. 175 modifica] sotto l'ombra dell'altro noi ci ricoverammo in Germania.

Dunque noi, come poveri pulcini abbandonati, ci rifugiammo in Germania, cioè trovammo protezione sotto le ali dall’aquila austriaca.

Ed ecco descritta l'aquila austriaca: un’aquila possente a ben soffrire anzi assalire il sole colla costante immobile pupilla, l'Austriaca, nera più che pece...

Se non che una grande sventura ci minaccia: l'imperatrice Maria Teresa pare sterile.

Queste terre austriache... Che cosa sono le terre austriache? La Lombardia. Queste terre austriache corrono il rischio di non avere l’Imperatore! Ella, la Augusta Principessa, non aveva ancora fatto lieto il Padre con un nipote, lo Sposo con un Figliuolo, la Stirpe con un Erede, i popoli (p minuscola) con un Sovrano. Sara non partoriva! Ma ci pensò Iddio! Appena in queste terre austriache volò la notizia della nascita del [p. 176 modifica] Regal Pargoletto, i treni della mestizia si mutarono in carmi di allegrezza, le divise di morte in ornamenti di pompa, il cruccio e il dolore in sobbollimento di gioia.

Era nato il Regal Pargolo d'Asburgo, il bersaglio di tutti i voti.

Ah, storia di viltà la nostra. «Fuori i lumi!» per ogni straniero che comandò in Italia. «Signori virtuosi, cantate belle canzoni. Pantalone, Arlecchino, offrite ai nobili signori una vostra rappresentazione. L’epa sarà piena».

Io sono ripreso, mio malgrado, da uno di quegli impeti di patriottismo che da qualcuno mi fu già rimproverato.

Mi viene la voglia di buttar via questo untuoso libretto. Esso è scritto dall’Abate Don Ignazio Venini, Panegirici e discorsi sacri, in Milano, 1782.

Ma esso mi spiega tanta storia, e poi vi sono tanti altri panegirici del genere, che dovrei disfarmi di quasi tutta la libreria!

Vedo la serie degli imperatori d'Absburgo [p. 177 modifica] che camminano fra due siepi di impiccati, sino a Cesare Battisti e a Nazario Sauro.

Questo grande impero oggi è crollato, l’aquila imperiale fu uccisa.

In che anno avvenne questo fatto?

Sa il popolo italiano che con le sue armi ha trafitto l’aquila imperiale?

L’ultimo degli imperatori d’Austria, Carlo I d’Absburgo, che portò quell'aquila in pugno, che sostenne quella corona, fu visto in una città della Svizzera scendere da un automobile, con in capo un berretto da viaggiatore; e, riconosciuto, si allontanò tristamente.

Tristi pensieri corrono per la mia mente: torbidi confusi pensieri: l’aquila imperiale di cui parla Dante! i borghesi hanno uccisa l’aquila imperiale. Avviene ora la Nemesi?

Bisognerebbe — conclusi fra me — insegnare bene al popolo la storia.

«Ma non capisci — mi dice Satana — [p. 178 modifica] che insegnare la storia vuol dire distruggere la storia?».

Sostanzialmente io mi accordo con quello che è detto in questo libro — che prima mi capitò fra le mani — delle lezioni morali del padre Carl'Ambrogio Cattaneo della Compagnia di Gesù, dedicate all'illustrissima ed eccellentissima Signora, la Signora Contessa Donna Clelia Borromea.

La causa di tutto il male è quella già detta: non habent pinguedinem come dice Sant'Anselmo: cioè, «manca l'olio di puro olivo».

Il padre Carl'Ambrogio e donna Borromea di fuori sono ben unti, ma dentro sono aridi.

E quale è questo olio? L'amore. Lo dice San Paolo ai Corinti: se ho la fede sì da tramutare i monti ma non ho l'«agape» nulla io sono. [p. 179 modifica]E che cos'è l'agape? L'amore agli uomini, quella cosa che io sento molto poco, che anche i Gesuiti sentivano come me, che anche i più grandi rivoluzionari per la fratellanza universale sentono come me.