Il medico olandese/Atto I

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Atto I

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Personaggi Atto II
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ATTO PRIMO.

SCENA PRIMA.

Camera con libreria di monsieur Bainer.

Monsieur Guden e Pettizz.

Pettizz. Signor, se trattenersi le aggrada in questo loco,

A casa il mio padrone dee ritornar fra poco.
Guden. L’aspetterò. Frattanto, per non starmi ozioso,
Datemi qualche libro.
Pettizz.   Lo vuol serio, o giocoso?
Guden. Qualche cosa di buono.
Pettizz.   Vuol di filosofia?
Guden. Se ci fosse un trattato sopra l’ipocondria...
Pettizz. Oh signor, ve n’è uno, che al certo non ha pari:
La vita di un poeta, ch’è ognor senza danari.

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Guden. Eh, che sono i poeti, ancorchè sien meschini,

Contenti della gloria degli estri peregrini.
A compensar lor duolo bastano Euterpe e Clio.
Modo tal io trovassi di consolare il mio!
Ma, oimè, non ha rimedio finor questo mio male;
Recatemi, vi prego, un libro di morale.
Pettizz. Signore, un romanzetto è uscito ora in Olanda,
Che parmi sia a proposito per quel che mi domanda.
E un Uomo indifferente nel ben come nel male:
Le par che questo sia trattato di morale?
Guden. Soggetto di romanzo è l’uomo indifferente.
Il bene è sempre bene; il male ognor si sente.
Soffrir senza lagnarsi? No, no, credete a me,
Questa moral si scrive, ma in pratica non è.
Pettizz. Vorrei pur divertirlo, se fossemi concesso:
Vuole un poema inglese, che critica il bel sesso?
Guden. No, critiche non voglio, non sono al genio mio,
E quando mi allettassero, so criticare anch’io.
Il criticar le donne, lo stesso è che pretendere
Assalir colla spada chi non si sa difendere.
Si oltraggiano le buone degne di eterni onori,
Le triste non per questo si rendono migliori.
Pettizz. Non so che dir, signore; ecco la libreria:
Si serva come vuole, scelga vossignoria.
Guden. Non so; per dir il vero, tutto mi reca tedio,
Invano alla tristezza trovar tento il rimedio.
Lo studio era una volta il mio piacer più grato,
Or subito mi sento il capo riscaldato.
Alle conversazioni ero portato un dì,
Adesso son ridotto a vivere così.
Solo dal padron vostro la mia salute io spero.
Monsieur Bainer io stimo, lo stima il mondo intero;
E tante e tante leghe scorsi rapidamente,
Solo per consigliarmi col medico eccellente.
Pettizz. Ciascuno al mio padrone non sol si raccomanda

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In Leiden, dove siamo, ma per tutta l’Olanda.

E vengono ammalati da’ più lontan paesi,
Italiani, Tedeschi, e Svizzeri, e Francesi;
E d’Inghilterra poi, non molto a noi lontana,
Verran dieci persone almen per settimana.
Di quei che son di stanza di Leiden nel contorno,
Vengono qualche volta venti ammalati al giorno;
E se venir non possono, per altri la mattina
In vetri custodita gli mandano l’orina.
Guden. Ecco perchè mi spinse fama di sua virtute;
Spero, e non spero invano, da lui la mia salute.
Pettizz. Signor, con sua licenza.
Guden.   Dove andate, figliuolo?
Per cortesia vi prego, non mi lasciate solo.
Se compagnia mi manca, mi assaltano i tremori,
Mi ascendono alla testa i torbidi vapori.
Pettizz. Non tarderà il padrone; son l’ore consuete
Ch’egli ritorna a prendere in casa un po’ di quiete.
Verranno anche a momenti alcuni amici sui,
Che per studiar con comodo radunansi da lui.
Appunto andar io deggio a preparar il tè:
Eccole compagnia, signor, meglio di me.
(osservando fra le scene)
Ecco la cameriera della padrona mia,
Che le può far passare la sua melanconia:
È una giovane allegra, che le darà piacere.
Ma, signor, l’avvertisco, perch’ella è forastiere:
Si trattano le donne da noi con libertà,
Però son delicate in punto di onestà.
So che in altri paesi son uomini d’ingegno,
Se vedono una donna, fan subito un disegno.
Ma qui la libertà che dassi alle persone,
Fa che sien più cortesi, ma in fondo assai più buone.
(parte)

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SCENA II.

Monsieur Guden, poi Carolina.

Guden. Che in libertà si trattino, e sien le donne illese,

Lo credo un benefizio del clima del paese.
Carolina. Oh signor, mi perdoni, veduto io non l’avea;
Che fossevi persona qua dentro io non sapea.
Guden. Un galantuom trovate, che sa nutrire in petto
Per donna d’ogni grado la stima ed il rispetto;
E che ha delle Olandesi un’ottima opinione.
Carolina. Signor, è ben bizzarra questa dichiarazione.
Io non sono Olandese, ma ovunque sono stata,
Io so che dappertutto la donna è rispettata.
Guden. È ver; dite benissimo; anch’io son di parere,
Che un uom non si fa merito facendo il suo dovere:
Di un umor malinconico scusate i detti vani.
Carolina. Via via, non dubitate, che siete in buone mani.
Il padrone ha guarito, con i consigli suoi,
Uomini ipocondriaci assai peggio di voi.
Per dir la verità, signor uomo ammalato,
Il male fin adesso vi ha poco estenuato.
Grasso, rossetto in viso, che malattia è cotesta?
Ho paura, signore, che il mal sia nella testa.
Guden. Non parliam del mio male, vi prego in cortesia.
Carolina. Scusi. Con sua licenza.
Guden.   Deh, non andate via,
Non mi lasciate solo, graziosa giovinetta.
Carolina. Vuol la padrona un libro. È di là che mi aspetta.
Guden. Che libro vi ha richiesto?
Carolina.   Certo libro italiano
Che tratta delle Analisi, venuto da Milano.
Guden. Han giovinette ancora le femmine olandesi
Di tai studi difficili i loro geni accesi?
Carolina. Voi vi maravigliate che la padrona mia
Inclini al dolce studio della geometria?

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Stupitevi piuttosto, che con saper profondo

Prodotto abbia una donna un sì gran libro al mondo.
È italiana l’autrice, signor, non è olandese,
Donna illustre, sapiente, che onora il suo paese1;
Ma se trovansi altrove scarsi i seguaci suoi,
Ammirasi il gran libro, e studiasi da noi.
Guden. Se tal voi favellate, che siete alfin servente,
Qual sarà la padrona?
Carolina.   Per me non so niente.
Appresi dove sono a dir termini strani,
Appunto come parlano i pappagalli indiani:
Se a giocar, se a ballare si usasse in questo loco,
Vi parlerei del ballo, vi parlerei del gioco.
Ma usandosi da noi miglior divertimento,
Sono avvezzata anch’io parlar di quel che sento.
Guden. Ditemi: la padrona è bella? È giovinetta?
Carolina. Nipote è del padrone, qual figlia a lui diletta.
Guden. È giovane?
Carolina. È prudente.
Guden. È bella?
Carolina. È virtuosa.
Guden. Non rispondete a tuono; domando un’altra cosa.
Carolina. Della beltà vi cale, vi cal la giovinezza.
La virtù, la prudenza vi par poca bellezza?
Guden. Sì, egli è un tesoro, è vero, che l’intelletto appaga.
Capisco che non è nè giovane, nè vaga.
Carolina. Si vede ben, signore, che nella fantasia
Siete guasto alcun poco dalla melanconia.
Perchè di lei vi vanto la virtù, la saggezza,
Voi la credete antica, e priva di bellezza.
Non è ver, v’ingannate. I cinque lustri ancora
Non ha compiti; e tale ha beltà, che innamora.

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Se non parlai degli anni, se non parlai del volto,

È perchè le virtudi si apprezzano più molto.
Ma voi siete un di quelli, sia detto in confidenza,
Che amate, a quel ch’io vedo, l’esterno e l’apparenza.
Guden. No certo; son di quelli che amano il merto vero.
Questa padrona vostra potrà vedersi, io spero.
Carolina. Perchè no? qua le donne non vivon ritirate;
Sono liberamente vedute e frequentate.
E non crediate già Madama una di quelle,
Che sol parlar dilettisi di linee paralelle2,
Di circoli o triangoli, di punto e proporzione;
Piace anche a lei di fare la sua conversazione.
Anzi, all’uso di Leiden, figlie di varia età
Si radunano spesso in buona società,
In casa ora di questa, or di quella signora:
Fra loro unitamente si parla, si lavora,
Ora di cose serie, or di gioconde cose,
Sempre però modeste, e sempre spiritose.
Guden. Chi è quel che di là viene?
(osservando fra le scene)
Carolina.   È il padron ch’è arrivato.
Guden. Ecco la mia speranza. Il ciel sia ringraziato.
Carolina. Lasciovi in libertà; prendo il libro, e lo porto.
(va prendere il libro nella libreria)
Guden. Son dei mesi ch’io peno. Eccolo il mio conforto.
Carolina. Vedete quai figure? Vedete in qual impegno
(mostrando il libro aperto a monsieur Guden)
Dalla sapiente donna si è posto il bell’ingegno?
Osservatelo bene. Eh, confessar bisogna,
Che fan femmine tali agli uomini vergogna.
E poi del sesso nostro si sente a mormorare!
Oh quanto, quanto meglio farebbono a studiare! (parte)

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SCENA III.

Monsieur Guden, poi monsieur Bainer, poi un Servitore.

Guden. Ah, che beltà non curo, non giovami virtute;

Mi occupa il solo, il tristo pensier di mia salute.
Tristo pensier finora, ch’ogni sventura avanza,
E in sì grand’uom soltanto mi resta una speranza.
Bainer. Signor.... (salutandolo)
Guden.   Deh, soccorrete un che non spera invano
(incontrandolo ansiosamente)
Uscir, vostra mercede, fuor di miseria...
Bainer.   Piano.
Ehi, recate due sedie. (forte verso la scena)
Guden.   Signor, sono per me
Perigliosi i momenti.
Bainer.   Il vostro polso.
(chiede il polso a monsieur Quden)
Guden.   Oimè.
(nel dargli il polso, si turba)
Bainer. (Dopo averne sentito il polso.)
Ehi, chi è di là? Due sedie. (al servitore che viene)
Guden. Vi supplico, signore,
Sentomi un tale affanno...
Bainer.   Non abbiate timore.
Sedete.
Guden.   Ch’io vi esponga, signor, non isdegnate
Tutte le stravaganze di questo mal.
Bainer.   Narrate.
Guden. Or la decima luna sarà, s’io non m’inganno,
Il cuore un dì mi sento assalir da un affanno.
Dal cor in pochi istanti parvemi a poco a poco
Stendersi per le membra, e dilatarsi un foco.
Sentomi il capo acceso, tremo, mancar mi sento,
Più non mi reggo, e credo morire in quel momento.

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Stendo al polso la mano; parmi più non sentirlo.

Corro, così tremante, fin dove non so dirlo.
Acqua, gridando andava; chi mi soccorre? io spiro.
Recanmi alfin dell’acqua; alfin bevo, e respiro.
Ma che? quel dì fatale l’epoca è sventurata
Di tai barbari assalti, ch’io provo alla giornata.
Ma la notte, la notte è il mio crudel tormento.
Quando la sera imbruna, s’accresce il mio spavento.
Parmi che mi si stacchino le viscere dal petto;
Sei, sette volte almeno forza è balzar del letto.
E se mi prende il sonno, ahi che dormir funesto!
Veggo leoni e demoni, e con tremor mi desto.
A tavola, al teatro, in un festino, al gioco,
Sentomi questa fiamma salire a poco a poco;
E funestar temendo altrui colla mia morte,
Mi forza un rio timore fuggir da quelle porte.
Niente mi consola, ogni piacer mi è odioso,
Son diventato agli altri, e a me stesso noioso.
Ah voi, signor, porgete a tanto mal ristoro,
O questo dì non passa, ch’io mi consumo e moro.
Bainer. Altro a narrar vi resta?
Guden.   Son cento i miei malori,
Ma vi narrai per ora i sintomi peggiori.
Se male io mi spiegai, se il labbro mi tradì,
Ritornerò da capo.
Bainer.   No, no, basta così.
V’intesi a sufficienza. Di qual paese siete?
Guden. Soccorretemi prima; poi chi son lo saprete.
Bainer. Sì, vi soccorrerò; ma per un tal malore
Siate sicuro intanto, signor, che non si more.
Guden. Come? Se in dieci mesi sento morirmi ogn’ora?
Bainer. Moriste tante volte, e siete vivo ancora?
Son flati, son vapori, son convulsioni interne;
Son mali che spaventano chi teme, e non discerne.
Sentite il buon tabacco. (gli offre del tabacco)

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Guden.   Signor, vedo che invano

Per consigliar con voi partii sì da lontano.
Ed il veder ch’io sono sì poco consolato,
Creder mi fa che il male sia grave e disperato.
Bainer. Voi, che fin qua veniste pien di fantasmi rei,
Quale concetto avete finor de’ fatti miei?
Guden. Signor, tanto vi stimo, che fin dal settentrione
Venni a cercar da voi rimedio e direzione.
Moscovia, Danimarca, la Prussia, la Sassonia,
La Svezia, il mio paese natio, ch’è la Polonia,
E Inghilterra, che pochi lodar suol per costume,
Voi della medic’arte suol appellare il nume.
Volai sino in Olanda per monti, fiumi e valli,
Lenti pareanmi al corso i rapidi cavalli,
E tosto che le mura ho di Leiden vedute,
Dissi fra me giulivo: ecco la mia salute.
Bainer. E il moto salutevole sì poco vi ha giovato?
Guden. Ah signor, il mio male, lo veggo, è disperato.
Bainer. No, cerchiam la cagione, che misero vi rende;
Questa non vien dal corpo, dal spirito dipende.
All’esame, all’esame.
Guden.   Ora mi consolate.
Fatemi le ricerche dall’arte praticate.
Bainer. Dite, signor Polacco, come si sta d’amori?
Guden. Perchè non domandate se ho sete, se ho dolori?
(un poco mortificato)
Bainer. Non istudiai soltanto Ippocrate e Galeno.
Di medico son io filosofo non meno;
E di cento ammalati ricorsi all’arte mia,
Ottanta ne guarisce buona filosofia.
All’esame, all’esame. È amor che vi tormenta?
Guden. Signor, quella ch’io amava, miseramente è spenta.
Bainer. Quant’è che più non vive?
Guden.   La misera morì,
Poco pria ch’io giungessi a delirar così.

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Bainer. E a me pel vostro male dunque chiedete aita?

Volete per guarirvi ch’io la richiami in vita?
Giovine appassionato, capite or le ragioni
Fondate, ragionevoli di mie interrogazioni?
Guden. Ma, signor, il principio puol esser metafisico;
Ma il mal che ora m’affligge, è doloroso e fisico.
Si è tanto abituato, reso si è così forte,
Che adesso ogni momento minacciami la morte.
Bainer. Che morte? Che minaccie? Scacciate ogni timore;
Per questo mal, vi replico, al certo non si more.
Voi bramereste, il veggo, l’alta consolazione,
Che sopra il vostro male facessi una lezione
Coi termini dell’arte, con qualche anatomia,
Per render più confusa la vostra fantasia.
No, uditemi, signore: trattate il vostro male
Come un fanciullo armato, che l’inimico assale.
La spada può ferirvi, se gli esponete il petto,
Ma piccola difesa delude il giovanetto.
Tale dal mal potrete, volendo, esser oppresso,
Ma la difesa vostra è dentro di voi stesso.
Se la ragion si opponga al mal che vi fa guerra,
Ecco il bambino inerme, ecco la spada a terra.
Guden. Ma signor....
Bainer.   Ma signore, chi a me dal settentrione
Venuto è per consiglio, m’insulta, se si oppone.
Guden. Qualche medicamento almen per consolarmi.
Bainer. Eh ben, se vi guarisco, quanto volete darmi?
Guden. Signor, il sangue istesso darei per istar bene.
Ho lettere di cambio, so quel che far conviene.
Bainer. Saranno le cambiali, sarà il vostro danaro
Opportuno al rimedio, che darvi or mi preparo.
Uditemi: prendete nei borghi al rio vicini
Comodo albergo e lieto, in mezzo a bei giardini.
Una conversazione trovatevi gioconda.
Vivete cogli amici a tavola rotonda:

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Giocate per piacere, non mai per rovinarvi,

Prendete un buon cavallo talor per sollazzarvi.
Anche un amore onesto, che vi trovaste io lodo;
Chiodo, i poeti dicono, scaccia dall’asse il chiodo.
Ecco il rimedio vostro. Sarà la mia mercede,
Che a’ miei buoni consigli abbiate a prestar fede.
Bainer da tai malati di profittar non cura;
Sincerità è il mio vanto, non vivo d’impostura.
Voi di me vi fidate; io sono un uomo onesto.
La malattia conosco, ed il rimedio è questo. (parte)

SCENA IV.

Monsieur Guden, poi madama Marianna.

Guden. Dunque sinor fui pazzo? dunque mi dolsi invano?

Tanto soffersi e tanto, per un principio insano?
So che la donna estinta recommi un fier dolore,
Ma non mi par la sola fonte del mio malore;
E se la cagion prima anche da lei sia sorta,
Persister dieci mesi dovrà dacch’ella è morta?
Bainer è un uomo grande, sa dir, sa consigliarmi,
Ma dirlo anche potrebbe affin di consolarmi.
Mi lascia? mi abbandona? Ah, non avrò quiete,
Se a parlar non ritorno.... (correndo per la scena)
Marianna.   Signor, dove correte?
Guden. (Stelle, che volto è questo! Della mia bella estinta
Parmi vedere in esso l’immagine dipinta.
Oh fatal somiglianza, che mi risveglia in cuore
L’amara rimembranza d’un sventurato amore!) (da sè)
(si ferma sorpreso, salutandola)
Marianna. Siete voi l’ammalato?
Guden.   Per mia disgrazia il sono.
Marianna. Forestier?
Guden.   Sì, madama.
Marianna.   Di qual nazion?

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Guden.   Pollono3.

Marianna. Da region sì lontana fin qua chi v’ha condutto?
Guden. Monsieur Bainer, madama, non trovasi per tutto.
Marianna. Vi ha egli soddisfatto?
Guden.   Dirò, per dir il vero,
Sembra che del mio male non prendasi pensiero.
Marianna. S’ella è così, signore, vivete in festa e in gioco.
Quand’ei non s’interessa, il male sarà da poco.
Guden. Ma esige un ammalato maggior compatimento.
Marianna. Che dato egli non v’abbia alcun suggerimento?
Guden. Ecco i consigli suoi: palazzo infra i giardini,
Amicizie, cavalli, conversazion, festini.
E all’ultimo, cred’io solo per beffeggiarmi,
Giunse a lodar perfino l’idea d’innamorarmi.
Marianna. Cotai medicamenti son ben particolari;
In bocca di mio zio sono estraordinari.
Egli però degli uomini è ben conoscitore;
Vi avrà con una occhiata letto perfin nel cuore.
Guden. Madama, ho già risolto prestar fede a’ suoi detti;
Vuò divertir lo spirito con piacevoli oggetti.
Marianna. Ite a cercar adunque ciò ch’ei vi suggerì.
Guden. Dove potrei andare per star meglio di qui?
Marianna. Sì, è ver, sono anche i libri un bel divertimento.
Guden. Ma di studiar per ora, madama, non mi sento.
Quel che provar può farmi lodevole il consiglio,
E l’amoroso sguardo di un sì amabile ciglio.
Marianna. Il ciglio mio, signore? Oh, giudicar conviene,
Che dello zio i consigli capiste poco bene.
Guden. Anzi, se mi approfitto di sì felice sorte,
Medico e medicina ritrovo in queste porte.
Marianna. Qual trovar medicina sperate in questo tetto?
Guden. Egli non disapprova un rispettoso affetto.
Marianna. Ma impiegarlo per chi?

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Guden.   Per voi, se nol sdegnate.

Marianna. Caro signor Polacco, ridere voi mi fate.
Guden. Lo so, lo so, che invano spero trovar conforto;
Meco le mie sventure, ovunque vado, io porto.
Per me le stelle ingrate son d’ogni bene avare. (agitato)
Marianna. Questo trasporto vostro è ben particolare.
Guden. Che può sperare un uomo pieno di larve in petto?
Reso dal mal stucchevole, orribile d’aspetto? (agitato)
Marianna. Oh signor, non è vero. Frenate omai quell’ira.
Il vostro volto è tale, che riverenza ispira.
Sprezzo di voi medesimo vi porta a questo segno:
Non vi si vede in viso, di quel che dite un segno.
Guden. Esser può che madama co’ suoi lumi vezzosi (rasserenato)
M’abbia tratti dal volto i segni dolorosi.
Marianna. Son di guarir lo spirito arti al mio ciglio ignote.
Guden. Ah, non so chi più vaglia, se il zio, se la nipote.
Marianna. Vi scordaste, mi pare, i suoi suggerimenti.
Propose all’uopo vostro miglior divertimenti:
Gioco, feste, giardini, moto, allegria di cuore.
Guden. Aggiungete, madama, qualche discreto amore.
Marianna. Oh mi perdoni, in questo ei vi consiglia male.
Guden. No, dubitar nol posso; Bainer so quanto vale.
Marianna. Bene, il paese nostro d’oggetti è provveduto:
Basterà che voi siate in Leiden conosciuto.
Non mancherà chi apprezzi del vostro cuore il dono.
Guden. Le lettere ch’io porto, paleseran chi sono.
Non paladin del regno, non della corte amante,
Ma giovane onorato, banchiere e negoziante.
Nè di vantarmi intendo, nel dichiarar ch’io sono
Tal, che da sorte amica ebbe ricchezze in dono.
Ma che mi val al mondo l’aver comodo stato?
L’oro che può valermi, s’io son sì sfortunato?
Marianna. Or di che vi dolete?
Guden.   Mi dolgo aver sofferto
Tanti dolori e tanti, della mia vita incerto.

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E allor che dal mio seno spero smarrito il tedio,

Trovar che al male mio contrasta il mio rimedio.
Marianna. Signor, non vi avrà detto il medico eccellente,
Che possa il vostro male guarir sì facilmente.
Spegner non può sì presto poc’acqua un sì gran foco;
Soglion le medicine oprare a poco a poco.
Non siate uno di quelli che hanno in soffrir dispetto,
Che von con una bibita balzar fuori di letto.
Sanan le medicine sofferte e reiterate.
Via, signor ammalato, curatevi e sperate. (parte)
Guden. Vedo, o di veder parmi, di madama il pensiero.
Sì, medica pietosa, la mia salute io spero.
Se tanto ella somiglia al bel che ho già perduto,
Di pace e di conforto il ciel mi ha provveduto.
Di Bainer mi sovviene quel paragon ch’io lodo:
Chiodo, mi disse il medico, scaccia dall’asse il chiodo.

Fine dell’Atto Primo.

Note

  1. Alludesi a Gaetana Agnesi (1718-1799), che fin dal 1748 aveva pubblicato a Milano le sue famose Instituzioni Analitiche. Il Goldoni ebbe in dono dall’autrice stessa «l’opera algebrica», pare nel 1753 (v. Lettere di C. G. edite dal Masi, Bologna, 1880, p. 108; e Fogli Sparsi del G. raccolti da A. G. Spinelli, Milano, 1685, p. 28).
  2. Così è stampato nel testo.
  3. Così il testo, secondo la vecchia grafia.