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Il mio segreto/Prefazione

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Prefazione

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Francesco Petrarca - Il mio segreto (1347-1353)
Traduzione dal latino di Giulio Cesare Parolari (1839)
Prefazione
Francesco Petrarca ai posteri Dialogo primo
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PREFAZIONE


Frattantochè disensato io me ne stava pensando, ciò che assai di sovente m’accade, al modo onde fossi entrato nella vita, e al come sarei per uscirne, avvenne che m’apparisse in visione; non già come a chi malato d’animo sogna, ma sì quale all'uomo travagliato da veglia affannosa; una donna, bella d’ineffabil luce e chiarezza, e di forme che mal si potrebbero da mente umana imaginare: ned io so di che parte a me venisse, bensì vergine me la diceano il volto e la persona. Ed ella a me che maravigliato dall’insolito lume, abbassava lo sguardo dincontro ai raggi che dardeggiavami il sole degli occhi suoi, cosi parlò: perchè temi e ti turbi al mio insolito aspetto? Mossa a pietà de’ tuoi errori, venni di lontana parte a recarti aiuto, finchè n’è il tempo: troppo e molto più che non era mestieri, chinasti a terra gli sguardi, adombrati da nebbia. Che se le terrene cose di cotanto ti allettano, che sarà mai se rivolga il cuore alle eterne? All’udir queste parole, avvegnachè in me non fosse queto ancor lo [p. 26 modifica]sgomento, con tremante voce le risposi i versi di Virgilio.

Vergine, e qual mai nome a te dar posso?
Che mortali non son le tue sembianze,
Né come d’uom la tua voce risuona.

Io sono colei, mi rispose, che tu, con non so quale ricercata eleganza, hai descritto nell'Africa nostra, ed a cui, non altrimenti che il dirceo Anfione, con maraviglioso artifizio, e come a dire con poetiche mani, innalzasti nell’estremo occidente, e a sommo l’Atlante, una splendida e sontuosa abitazione. Orsù dunque ascoltami di buon animo; nè ti metta paura la presenza di chi venuta con te a dimestichezza da lunga stagione, hai dipinto con maestri colori. Tacque appena, che io, nel riandare il passato, pensai che niun’altro dovesse esser costei, se non la Verità, a cui ricordaimi aver collocato il palazzo sulle atlantiche vette; pur non poteva appormi di qual luogo fosse venuta, eccetto che dal cielo. Or mentre io rialzava gli occhi bramosi di riguardarla, le raggiò dalla fronte tal lume, che bisognommi atterrarli una seconda fiata: di che fattasi accorta, e non frapposto che un breve silenzio, caldamente favellando, e d’una in altra domanda passando, così con minute richieste mi rincalzò, [p. 27 modifica]che fui costretto ad aprirmi con lei di più cose. Quindi due beni me ne derivarono; che, ed io feci tesoro di nuova scienza, e dall’uso del conversare rinfrancato dal soverchio timore, giunsi a rimirarne il sembiante, che in sulle prime m’avea sì allucinato. E già riavutomi nell’animo, cominciava a risentire dalle sue parole una maravigliosa dolcezza, quando nel guardare se altri fosse penetrato nella solinga mia cella, me le venne veduto dappresso un uomo per età e forme assai venerando. Ned ebbi mestieri a richieder chi fosse; che il religioso volto, la modesta fronte, gli occhi composti, il misurato passo, le sacre vesti e la romana facondia, mi diceano abbastanza ch'io m’avea dinanzi il glorioso padre Agostino. Soavissimo n’era l'aspetto, ma un non so che di maestoso oltre l’umano vi traspariva, da togliermi affatto la voce. Non però me ne sarei rimasto a lungo silenzioso; che anzi, pensata la dimanda, correa la lingua ad interrogarlo, allorché di bocca la verità me ne venne udito il dolcissimo nome; la quale col rivolgersi a lui, rompendo a mezzo il corso de’ suoi pensieri, gli disse: o a me caro fra mille, Agostino, tu conosci costui che ti venera tanto, e sai di qual pericolosa e lunga malattia sia preso, a tal che n’è vicino a morte; e sai altresì che, sebbene infermo, pure ignora in [p. 28 modifica]quanto pericolo si ritrovi: perciò è d'uopo provvedere alla vita di lui, vicina a mancare. Or chi può più acconciamente di te adempiere a quest'opera pietosa? e tanto più il farai ch’egli ti portò sempre singolare affetto e reverenza. E la scienza, questo ha di proprio, che molto più agevolmente s’apprenda, ove sen'ami il maestro. Che se la presente felicità non ti toglie la memoria delle sofferte miserie, ricorderai siccome quapdo eri rinchiuso nel carcere terreno, fosti travagliato da infermità alle costui somiglianti. Ed avvegnaché il meditare sui proprii mali, sia l'ottima delle medicine; io ti prego, o egregio curatore che fosti delle passioni che ti diedero guerra, che rompendo colla tua santa e cara voce un siffatto silenzio, voglia rinforzare, se puoi, del tuo aiuto la costui mortai languidezza. Cui egli: e sarà dunque che io in tua presenza ardisca parlare? tu a me consigliera, consolatrice, signora, maestra. La tua voce d’uomo, soggiunse ella, risuonerà più grata al mortale suo orecchio; e perciò ascolteralla più volentieri: poi, dacchè io mi rimarrò presente a’ vostri colloquii, stimerà profferito dalle mie labbra ciò che tu gli verrai dicendo. Egli, com'ebbe risposto che ubbidirebbe, indotto sì dall'autorevole comando di lei, che dalla compassione dell’infermo mio stato, volgendosi a me [p. 29 modifica]con affettuoso sguardo, paternamente abbracciommi. Allora la verità, fattasi scorta a’ nostri passi, ne trasse in luogo alquanto più appartato; ove postisi tutti e tre a sedere, ella rimosso ogni testimonio, tacendo portava sentenza dei nostri discorsi; i quali d’un argomento nell’altro, si protrassero sino al terzo giorno. E sebbene ne fossero soggetto i costumi del secol nostro, e le colpe comuni a tutti i mortali; da parere piuttosto un rimprovero rivolto al genere umano che a me in particolare, tuttavia ciò che a me toccava più davvicino, altamente mi rimase scolpito nella memoria. Ed acciocchè, collo scorrer degli anni, io non ne smarrisca la ricordanza, penso di affidare allo scritto quanto fu in quelle ore discorso; nel che fare, non intendo io già di aggiungere queste alle altre opere mie, perchè me ne torni gloria, di cui più non mi cale adesso che ad altre cose ho rivolto la mira, ma sì a richiamarmi la dolcezza di que’ colloquii, ove mi avvenga di rileggere lo scritto. Perciò tu o mio libretto, sfuggendo all’umano consorzio, te ne rimarrai contento alla compagnia di me solo, non immemore del proprio nome; chè verrai detto, e tal sei di fatto il mio segreto: ed in te, quando l’animo occupato sarà rivolto a più dure fatiche, verrò a cercare quello che celatamente si fu parlato tra noi. [p. 30 modifica]Acciocchè poi, come insegna Tullio, la narrazione non sia di frequente interrotta col disse e rispose, e la cosa sembri operata da uomini presenti; le mie parole e quelle dell’egregio interlocutore, non con altra distinzione segnai, che quella dei proprii nomi. La qual maniera di scrivere appresi dal mio Cicerone, ed egli da Platone. Ed a non allargarmi più oltre, ecco di qual guisa Agostino il primo mi favellasse.