Il raggiratore/Atto I
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ATTO PRIMO.
SCENA PRIMA.
Camera in casa del Conte Nestore.
Il Conte, Il Dottore, Cappalunga ed Arlecchino.
Conte. In due parole vi spiccio tutti.
Dottore. La prego io, signor Conte, che ho degli affari alla Curia.
Conte. Che mi comanda il signor dottor Melanzana?
Dottore. Voleva renderle conto di quel che ieri s’è fatto per la causa di don Eraclio.
Conte. Avete parlato con esso lui?
Dottore. Non signore. Poichè, per dirle la verità, con don Eraclio, quantunque sia il principale di questa causa, io parlo mal volentieri. E uno che non sa niente nè di pratica, nè di legge, e presume assai di saperne.
Conte. È vero; don Eraclio presume di saper tutto, e il pover’uomo non ne sa niente. Se non foss’io che lo dirigessi!
Dottore. È verissimo; se non fosse vossignoria! (Ma però si fa pagar bene, per dirigerlo verso la strada della malora). (da sè)
Conte. Due parole ancora col signor Dottore, e subito sono da voi. (a Cappalunga)
Cappalunga. Ma io non ho tempo da perdere, signore. Mi lasciano quelle due copie di Raffaello per due zecchini; se vuole che vada a prendere i quadri...
Conte. Sì, subito. (Buon acquisto, li posso vendere per sei almeno). (da sè, e cava la borsa di Tasca)
Arlecchino. E mi, che gh’ho un negozio1 più grando de tutti i altri negozi?
Conte. In che consiste un sì gran negozio?2
Arlecchino. Me sbrigo in quattro parole. La sappia, sior... Ma bisogna per l’ordene del discorso tornar a dir tutto quello che la m’ha dito in tre mesi che se cognossemo.
Dottore. Non la finirà mai questo sciocco.
Conte. Aspettate un poco. Arlecchino, che mi parlerete con comodo. Ditemi voi, signor Dottore... Tenete, eccovi tre zecchini. Andate a prendere i quadri. Portateli da qui a due ore da don Eraclio, che vi sarò io pure. (a Cappalunga, dandogli li denari)
Cappalunga. E per me niente?
Conte. Ci sarà qualche cosa per voi, a misura del buon negozio che mi riuscirà di fare. Siate lesto nel procurarmi vantaggio. Una man lava l’altra: e l’uomo vive dell’uomo. Chi non s’aiuta, s’affoga. Portatevi bene meco, ch’io sarò generoso con voi.
Cappalunga. Vado subito. (Questi è un bravo raggiratore).(parte)
SCENA II
Il Conte, il Dottore ed Arlecchino.
Conte. Eccomi, signor Dottore, da voi. Che c’è di nuovo intorno agl’interessi di don Eraclio?
Dottore. Le nuove sono cattive. Perderà il palazzo, io dubito.
Conte. Se perde il palazzo, non gli resta altro da perdere.
Dottore. Suo danno; merita peggio la sua condotta. Pare a lui di essere il primo cavaliere d’Europa; crede che la sua testa sia la più brava testa del mondo.
Conte. È vero, ma non lo vorrei vedere rovinato sì presto.
Dottore. Vossignoria ha della carità per lui.
Conte. Sì, e non poca.
Dottore. Per lui, o per la figliuola?
Conte. Ah Dottor malizioso! Ne sapete più d’amor che di legge, per quel ch’io sento.
Arlecchino. Sior Dottor, no ve stè a intrigar in tel me mestier, che mi no m’intrigo in tel vostro.
Conte. Taci, Arlecchino, che non si stimano quegli uomini che non sanno fare di tutto.
Dottore. Signore, mi maraviglio di voi... (al Conte)
Conte. Caro il mio Dottore, non andate in collera.
Dottore. Io sono un uomo d’onore.
Conte. Tenete una presa di tabacco.
Dottore. E se vossignoria mi perderà il rispetto, in casa sua non ci verrò più.
Conte. Eccovi un zecchino per i vostri passi di ieri.
Dottore. Ora, tornando sul nostro proposito...
Arlecchino. E a mi no se me bada. No voio esser strapazzà in sta maniera.
Conte. Anche voi siete in collera?
Arlecchino. Dei passi ghe n’ho fatto anca mi, dei passi.
Conte. Passi, parole, buoni uffizi, sì, caro Arlecchino.
Arlecchino. E in sta casa no ghe vegnirò più.
Conte. Ho capito. Eccovi mezzo scudo.
Arlecchino. La se comoda col sior Dottor.
Conte. Dunque va male la causa di don Eraclio? (al Dottore)
Dottore. I creditori vogliono in pagamento il palazzo.
Conte. E don Eraclio dove anderà ad alloggiare?
Dottore. Per la figliuola non mancherà una camera in casa del signor Conte.
Arlecchino. In cas de bisogno, a quella putta ghe posso esebir anca mi un tocco della me camera.
Conte. Volete ch’io ve la dica? Senza oltraggiar nessuno, salve le debite proporzioni, siete due capi d’opera.
Dottore. Mi vorreste mettere con colui?3
Arlecchino. No ghe vol miga tropp, sala? Con un per de persutti me dottoro anca mi.
Dottore. Orsù, io non ho volontà questa mattina di precipitare.
Conte. Bravo, signor Dottore, andate da don Eraclio; dategli la nuova dell’imminente perdita del suo palazzo, e fategli la cosa ancora più disperata che non credete.
Dottore. Perchè non volete almeno ch’io lo consoli?
Conte. Perchè verrò io a consolarlo.
Dottore. Vossignoria si farà merito presso di lui, e io non potrò sperar niente.
Conte. Se avete da me, che volete sperare da lui?
Arlecchino. El gh’ha un stomego forte el sior Dottor, capace de degerir tutto, se el magnasse anca da quattro.
Dottore. (È meglio ch’io me ne vada). Signor Conte, la riverisco.
Conte. A rivederci da don Eraclio.
Dottore. La prego di venir presto. Non mi lasci combattere con quel capaccio.
Conte. Cercate anzi di persuaderlo.
Dottore. Se non vi è pericolo, che si persuada: ha una testa di marmo, e vuol quel che vuole, e crede di saper solo più di quello potrebbono saper dieci. Più tosto che aver che fare con lui, vorrei, cospetto di bacco! aver che fare colla più ostinata donna di questo mondo.
Conte. Oh diavolo, che dite mai? Non lo sapete che bestia è la donna ostinata?
Dottore. Lo so, ma vi è il suo rimedio ancora.
Conte. Insegnatemelo, caro Dottore.
Dottore. Volentieri. In lege: Si mulier, Codice de obstinationibus, s’insegna così: Si mulier obstinata loquitur, verbera, ac verbera, iterumque verbera. (parte)
SCENA III.
Il Conte ed Arlecchino.
Conte. Questo è il codice dei villani. Le donne vanno trattate con gentilezza. Quello che non si ottiene colla buona grazia, difficilmente si può sperar col rigore: che dici tu, Arlecchino adorabile?
Arlecchino. Mi digo cussì, che per vencer l’ostinazion de Giacomina, ghe vorave el verbera verbera de sior Dottor.
Conte. Jacopina non ti vuol bene dunque?
Arlecchino. No digo per lodarme, ma credo che no la me possa véder.
Conte. Questo è poco male. Che ti ha detto di me donna Claudia?
Arlecchino. Donna Claudia m’ha dito... Ma no vorave fallar el nome. Donna Claudia xela la mugier o la fiola de sior don Eraclito?
Conte. Non lo sai ancora? Ma sei bene sciocco! Donna Claudia è la moglie. La figliuola è donna Metilde.
Arlecchino. M’ha dito donca donna Metilde...
Conte. Io non ti domando di lei, ma di donna Claudia.
Arlecchino. No di lei, ma di lei. Se podarave recever una grazia da vussustrissima?
Conte. Che cosa vuoi?
Arlecchino. Che almanco per una volta sola, dopo tre mesi che ho l’onor de conosserla, la me fasse la grazia de dirme la verità.
Conte. La verità non la dico sempre?
Arlecchino. Sior sì, el dise sempre la verità come un lunario.
Conte. (È un gran briccone costui; mi conosce più di quello ch’io mi credeva). Bene, qual verità vorresti tu sapere da me?
Arlecchino. Vorave saver, se in casa di don Eretico ve preme più la fiola, o la madre.
Conte. Questa non è cosa che a te debba premere.
Arlecchino. Ma la xe una cossa che la me confonde. Ora me mandè a parlar alla mader, ora me mandè a parlar alla fiola. Ora quella me dis: dirai al Conte, che si scordi di me. Ora me dis quell’altra: ricorda al Conte, che non mi privi della grazia sua. Stamattina, tra de ele do, ho credeste che le se volesse cavar i occhi. Tutte do in t’una volta le me voleva dir, che mi ve disesse; e le m’ha tanto dito, che no me recordo più gnente affatto quel che le m’abbia dito.
Conte. Sei sempre stato balordo, e lo sarai finchè vivi.
Arlecchino. Aspettè che ghe pensa un poco meio, che pol esser che me recorda qualcossa.
Conte. Converrà che io mi serva di qualcun altro.
Arlecchino. Zitto, zitto...
Conte. Ti ricordi di qualche cosa?
Arlecchino. Sior sì, m’arecordo che Giacomina m’ha dito che son un aseno.
Conte. Ha detto bene, che non poteva dir meglio.
Arlecchino. Obbligatissimo alle so grazie.
Conte. E donna Claudia?
Arlecchino. L’ha dito cussì de vussioria...
Conte. Come! ha sparlato di me?
Arlecchino. Ma lassème finir de dir. Ha dito cussì donna Claudia... Ma in te l’istesso tempo xe saltada suso donna Metilde.
Conte. E che ti ha detto donna Metilde?
Arlecchino. Adesso me vien in mente. La m’ha dito, che a vussioria disesse da parte soa...
Conte. Che cosa?
Arlecchino. La madre la gh’ha rotto el filo, e no l’ha podesto fenir.
Conte. Che cosa ha detto la madre?
Arlecchino. La dise: quando viene da noi il signore... Ma in quel punto xe arriva quella diavola de Giacomina, e mi, confesso la verità, me son voltà da quella banda, e delle do patrone no me son recordà più gnente affatto.
Conte. Bella premura che hai di me, che ti mantengo, si può dire, di tutto il tuo bisognevole!
Arlecchino. Ma vu no me podè far quel ben che me pol far Giacomina.
Conte. Va dunque, e più non mi venire d’intorno.
Arlecchino. Ma la Giacomina la pol far del ben anca a vussioria.
Conte. Come?
Arlecchino. Oh bella! parlando alle so patrone per vu.
Conte. Non dici male. Conviene coltivarla la cameriera. Procura ch’ella parli per me.
Arlecchino. Ma la verità vorave saver. Alla madre, o alla fiola?
Conte. A tutte due, per ora.
Arlecchino. Dise el proverbio: chi voi ben alla fiola, fa carezze alla mamma. No la xe miga boccon cattivo donna Metilde.
Conte. Sì, è una ragazza di garbo.
Arlecchino. Ho inteso, sior Conte el vorave matrimoniar.
Conte. Prendi quest’astucchio. Portalo in nome mio.
Arlecchino. A donna Matilde?
Conte. No, a donna Claudia.
Arlecchino. No capisso gnente.
Conte. Non è necessario che tu capisca.
Arlecchino. Ma mi bisognerave che savesse tutto, per no fallar.
Conte. Fa quel che ti dico.
Arlecchino. Vorave sta volta che fessi a mio modo.
Conte. Che cosa vorresti tu ch’io facessi?
Arlecchino. Qualcossetta anca per la ragazza.
Conte. Bene. Recale questa piccola tabacchiera. Ma bada bene, che la madre non sappia della figliuola, e la figliuola non ha da saper della madre.
Arlecchino. Sior sì, lasse far a mi... Ma un’altra cossa ghe vol.
Conte. Che cosa?
Arlecchino. Un regaletto alla cameriera.
Conte. Che vuoi che le dia? Non ho niente in pronto.
Arlecchino. Senza sto complimento, se scorre pericolo de no far gnente che staga ben.
Conte. Eccoti uno scudo.
Arlecchino. Sto scudo mo veramente lo tegnirave volentiera per mi.
Conte. Fa come vuoi.
Arlecchino. E per la cameriera?
Conte. Sei un birbante, Arlecchmo carissimo.
Arlecchino. Sarà come che la dise ela.
Conte. Ma per ora non ci è di più.
Arlecchino. Son galantomo: me contento de quel che se pol aver. Vago a far el mio debito. La scatola alla madre, el stucchio alla fiola...
Conte. No, l’astucchio alla madre...
Arlecchino. Mi dirave el stucchio alla fiola.
Conte. Perchè?
Arlecchino. Perchè l’è una galantaria più da putta, che da maridada.
Conte. Fa quello che ti ho ordinato di fare, e reicordati di regalare la cameriera.
Arlecchino. E se la me dà dell’aseno?
Conte. Non importa.
Arlecchino. Sì, l’è la verità: se la me dise aseno, è segno che la me vol ben, che la desidera che gh’abbia del ben, perchè i aseni al dì d’ancuo i xe quelli che gh’ha fortuna, (parte)
SCENA IV.
Il Conte, poi Spasimo.
Conte. Bellissima è la storiella di queste due graziose femmine, madre e figlia, che mi amano. La figlia aspira all’onore delle mie nozze. La madre all’onore della mia servitù. Coltivo l’una e l’altra per il mio fine, e intanto, se dono sei, son sicuro di pigliar venti. Per la stessa ragione soffro le insulsaggini di don Eraclio e di qualche altro suo pari. A spese loro mantengomi in questa nobiltà ideale. La mia contea è fondata sull’aria, e le mie rendite le ho stabilite sul raggiro della testa. Se mi conoscessero, non mi direbbono il signor Conte. Il conte Nestore sono io, il conte Nestore. Pasquale di messer Nibio diventato è il conte Nestore.
Spasimo. Signore, favorisca venire alluscio di strada, che vi è una femmina pazza, che non si può discacciare nè colle buone, né colle cattive.
Conte. Una pazza? Quali pazzie ha ella fatte?
Spasimo. Senta se questa è una delle leggiere. All’abito, alla figura, al modo suo di parlare, si vede una donna ordinaria; indovini chi si figura di essere?
Conte. Chi mai? qualche dama?
Spasimo. Sì, signore, una dama, ma qualche cosa di più.
Conte. Via, spicciati.
Spasimo. Dice di essere sorella di vossignoria illustrissima.
Conte. Mia sorella? Come si chiama costei?
Spasimo. Disse ella chiamarsi Carlotta.
Conte. (Povero me! sarà pur troppo colei). (da sè)
Spasimo. Comandi, che cosa vuol che si faccia?
Conte. Aspetta. (È una bestiaccia mia sorella. E venuta a precipitarmi). (da sè)
Spasimo. Ci vuol poco a cacciarla via costei. Sono venuto a dirglielo, perchè se mai sentisse a gridare...
Conte. Aspetta, ti dico. (Come diavolo ha saputo ch’io mi ritrovo in Cremona?) (da sè)
Spasimo. (Ci vedo dell’imbroglio nel mio padrone. La sarebbe bella, se fosse sua sorella davvero!) (da sè)
Conte. (Qui ci vuole un ripiego). Dimmi, vieni qui. Colei che dice essere mia sorella, è stata veduta da altri alla porta?
Spasimo. Non c’era nessuno, per buona fortuna.
Conte. Presto dunque, fa che passi, e conducila qui da me.
Spasimo. Ma come mai, signore...
Conte. Senti; ti voglio ammettere ad una confidenza che è importantissima.
Spasimo. Si fidi della pontualità mia.
Conte. E bada bene che, se tu parli, la tua vita è in pericolo.
Spasimo. (Costei è venuta a scoprire la contea del fratello).(da sè)
Conte. (Il ripiego non è fuor di proposito). Sappi che costei è una giovane di bassa estrazione, che ho amata per qualche tempo. L’ho dovuta lasciare per altri impegni. Ella per amore mi cerca, e per comparire con titolo onesto, ardisce di fingersi mia sorella.
Spasimo. Il solito è, in questi casi, fingersi moglie e non sorella, mi pare.
Conte. Poteva ella temere di ritrovarmi in casa una moglie vera; e già impegnato mi trova colla figliuola di don Eraclio.
Spasimo. Mandiamola via dunque.
Conte. No, non voglio inasprirla. La farò partire da qui a qualche giorno.
Spasimo. E intanto passerà per sorella.
Conte. Questo può essere il minor male.
Spasimo. In quegli abiti farà poco onore al fratello.
Conte. A ciò si può rimediare. Introducila presto, prima che mi faccia scorgere dal vicinato.
Spasimo. Vado subito.
Conte. E bada bene.
Spasimo. Non c’è pericolo. (parte)
SCENA V.
Il Conte solo; poi Carlotta e Spasimo.
Conte. Mancavami ora codesto imbroglio. Si può far peggio per me? Son curiosissimo di sapere come e perchè sia costei venuta. Minor male sarà, se non è venuto seco mio padre. Con costei, che è donna alfine, posso compromettermi di farla essere quel che vogl’io; ma se venisse mio padre, che è uomo all’antica, vero contadino di que’ rustici satraponi... eccola. Bella figura da farmi onore!
Carlotta. L’ho poi ritrovato questo baronaccio di mio fratello.
Conte. Cara sorella, son contentissimo di vedervi.
Spasimo. (Ha principiato con un bel complimento). (da sè)
Carlotta. Bell’azione da somaraccio! piantarci tutti così, senza carità, senza discrezione.
Spasimo. (Non faccia che parli così, signore). (piano al Conte)
Conte. (Amore la fa parlare; si lamenta, perchè l’ho abbandonata), (piano a Spasimo) Vattene, ti chiamerò se averò bisogno. (a Spasimo)
Spasimo. Sì signore. (in atto di partire)
Carlotta. E vostro padre ancora mi ha detto...
Conte. Riposatevi; parleremo dappoi.
Spasimo. (Ha padre vivo il padrone). (da sè)
Carlotta. Eh, caro signor Pasquale...
Conte. Vuoi andartene? (a Spasimo)
Spasimo. Vado subito. A chi dice Pasquale?
Conte. A te l’averà detto.
Spasimo. Fatemi grazia, signore, di dirle il mio nome, che se mi dice un’altra volta Pasquale, non mi terrò di dirle...
Conte. Vattene, e avverti di non parlare.
Spasimo. (Oh, temo voglia esser difficile, che io non dica niente). (da sè, e parte)
SCENA VI.
Il Conte e Carlotta.
Carlotta. Voi siete qui dorato, inargentato, e a casa vostra si muor dalla fame.
Conte. Zitto. Il diavolo vi ha qui portata per rovinarmi. Dite piano, che nessuno vi senta.
Carlotta. Dirò piano quanto volete; ma ora sono con voi, e da voi non mi parto più, e vi ci dovete pensare.
Conte. Se saprete condurvi, se avrete giudizio, io potrò fare la vostra fortuna.
Carlotta. Son venuta qui per disperazione. È stato detto in villa da noi, che voi eravate in Cremona. Son due giorni che giro per ritrovarvi, e nessuno mi sa dar conto di voi. Passando di qui, vi ho veduto a caso alla finestra4...
Conte. Avete domandato di me?
Carlotta. A più di trenta persone.
Conte. Sapete chi sono io?
Carlotta. Che domanda graziosa! non conoscerò mio fratello?
Conte. Ma in Cremona lo sapete chi sono?
Carlotta. Chi siete in Cremona?
Conte. Il conte Nestore di Colle Ombroso.
Carlotta. Serva umilissima del signor Conte5.
Conte. Servitore umilissimo della signora Contessa.
Carlotta. Per me non voglio titoli. Ho bisogno di pane, e son venuta per questo.
Conte. Ma se volete star meco, avete a sostenere il mio grado.
Carlotta. Con questi bei vestimenti?
Conte. Circa agli abiti, si fa presto. Un rigattiere vi veste in meno di un’ora.
Carlotta. Fate voi, fratello, io sono nelle vostre mani: ma badate bene, che ci faremo burlare.
Conte. So che avete dello spirito. Quando voi sappiate adattarvi, la vostra compagnia mi sarà utile, mi sarà cara. Non ho nessuno che tenga conto del mio.
Carlotta. Avete roba? Avete quattrini?
Conte. Ho di tutto, sorella mia, non starete male.
Carlotta. E la vostra povera moglie?
Conte. Un giorno penserò anche per lei.
Carlotta. Voleva io ch’ella venisse con me.
Conte. No, per ora. Sarei rovinato.
Carlotta. E vostro padre?
Conte. Mio padre ha da vivere. Pensate a voi, non pensate a loro. Chi sa che non mi riesca di maritarvi col titolo di Contessa?
Carlotta. Per il titolo stimo il meno. La difficoltà consiste in saper fare.
Conte. Imparerete col tempo. Vi darò io delle buone lezioni. V’introdurrò a poco per volta nelle conversazioni civili. Non dubitate: io sono in credito, e colla scorta mia farete voi pure la vostra bella figura. Venite meco, che voglio farvi vedere i frutti dell’ingegno mio. Vedrete ori, argenti, biancherie.
Carlotta. Ma ditemi, in grazia, che mestiere fate?
Conte. Mi maraviglio di voi. Son chi sono. Il conte Nestore non fa mestieri. (parte)
Carlotta. Fortuna, ti ringrazio. Se il conte Nestore non fa mestiero, avrà finito d’arar la terra anche la contessa Carlotta. (parte)
SCENA VII.
Camera in casa di don Eraclio.
Don Eraclio e il Dottore.
Dottore. Si persuada, signor don Eraclio, che la cosa è così.
Eraclio. Voi non mi venderete lucciole per lanterne. Di legge ne so ancor io quanto basta.
Dottore. Ella, per quel ch’io sento, mi crede ignorantissimo.
Eraclio. Io non dico questo.
Dottore. O un ignorante, o un furbo.
Eraclio. Né l’uno, nè l’altro.
Dottore. Dunque sarà vero, che la di lei causa è in pericolo.
Eraclio. Vi dico che la mia causa non la posso perdere.
Dottore. Favorisca. (Vorrei pur veder di convincerlo, se fosse possibile). (da sè)
Eraclio. Ho esaminato bene l’articolo, e so che la causa non la posso perdere.
Dottore. Favorisca. Sa ella di essere debitore di Anselmo Taccagni di duemila scudi di capitale?
Eraclio. È verissimo.
Dottore. E di sette anni di frutti al cinque per cento?
Eraclio. Non lo nego.
Dottore. Dunque bisognerà soddisfarlo.
Eraclio. Ma la causa non la posso perdere.
Dottore. Cospetto del diavolo! vossignoria debitore è certo.
Eraclio. Va bene.
Dottore. Ha ella altro modo da pagare un tal debito, oltre la cessione del palazzo di cui si tratta?
Eraclio. Lo sapete, io non so dove rivolgermi per pagarlo.
Dottore. Dunque la causa non si potrà sostenere.
Eraclio. Ma questa causa non la posso perdere.
Dottore. Se avessi due teste, me ne vorrei tagliar una.
Eraclio. Tagliatevi quel che volete; la causa non la posso perdere.
Dottore. Ma mi dica almen la ragione.
Eraclio. Siete un bel Dottore, se avete bisogno ch’io vi suggerisca il come, il modo, il perchè.
Dottore. Sarò un ignorante. Favorisca d’illuminarmi.
Eraclio. In questa sorte di liti non procede il giudice more legalis.
Dottore. More legali, vorrete dire.
Eraclio. Ecco qui; voi altri dottori non sapete altro che stare attaccati alle lettere dell’alfabeto. Un esse di più, un esse meno, vi fa specie; ma non sapete il fondo della ragione.
Dottore. La sentirò volentieri da lei.
Eraclio. Da me sentirete di quelle cose che vi faranno stordire. Troverete pochi cavalieri della mia nascita, del mio rango, della mia antichità, che sappiano, come me, di tutto quello che si può sapere.
Dottore. Mi premerebbe saper per ora la di lei virtù nel proposito di questa causa.
Eraclio. In materia di cause ne ho difeso più di voi forse, per carità, per amicizia, per protezione. Il mio nome alla Curia è rispettato e temuto.
Dottore. S’adoperi dunque per sè, come si è adoperato per gli altri.
Eraclio. A un cavalier mio pari non è lecito agire per me medesimo, come far saprei per un altro.
Dottore. Illumini me almeno, che sono il di lei procuratore. So il mio mestiere, per grazia del cielo; ma pure imparerò volentieri qualche cosa di più da un cavaliere del di lei talento.
Eraclio. Noi abbiamo una causa... Come chiamate voi la causa che abbiamo?
Dottore. Questo è un giudizio di Salviano, intentato da un legittimo creditore ipotecario per intentare l’effetto obnoxio.
Eraclio. Questo obnoxio è un termine da dottore; non lo capisco.
Dottore. Vuol dire obbligato.
Eraclio. Bene dunque, noi abbiamo una causa di Salviano obnoxio.
Dottore. Non confondiamo i termini.
Eraclio. Ed io vi dico che la causa non si può perdere. (alterato)
Dottore. Se non mi dice la ragione, non ne sarò persuaso.
Eraclio. La ragione è questa. Salviano non può portar via il palazzo obnoxio di un cavaliere ipotecario, che non ha altro che questo pel decoro della nobile sua famiglia. Nè vi può essere, nè vi sarà giudice sì indiscreto, che dopo venti secoli di nobiltà, voglia precipitare una famiglia come la mia, che discende da Eraclio, imperatore di Roma.
Dottore. Eraclio è stato imperatore di Costantinopoli.
Eraclio. Questo non serve; ma la causa non si può perdere.
Dottore. Ora che ho inteso la ragione, me ne consolo con lei: vada dal giudice, mostri la discendenza di Eraclio...
Eraclio. E gli farò vedere, che i miei antenati erano padroni del Po, dalla fontana Aretusa dov’egli nasce, sino all’Adriatico dove s’inselva.
Dottore. Il Po s’inselva nel mare?
Eraclio. Voi non sapete altro che di Salviano.
Dottore. Tutti non possono avere una mente così felice.
Eraclio. Dottore, parliamo di cose allegre. Già la causa non si può perdere. Oggi resterete a desinare con noi.
Dottore. Riceverò le sue grazie. (Convien pigliare quel che si può). (da sè)
Eraclio. Abbiamo due capponi di Venezia, un alesso e un arrosto, e un pezzo di vitella mongana, e un piatto di ostriche, e due bottiglie esquisite, oltre il solito desinare che avrà ordinato la dama.
Dottore. La signora donna Claudia è ella, per quel che si dice, che bada all’economia della casa.
Eraclio. Non si dice, che bada all’economia; queste sono ispezioni di gente bassa. Donna Claudia mia moglie bada allo splendor della casa, non all’economia.
Dottore. E vossignoria illustrissima non s’intrica nelle cose domestiche.
Eraclio. I pari miei non hanno l’uso, non hanno il tempo. Altre cose maggiori occupano il mio talento.
Dottore. Per esempio le liti.
Eraclio. Sì, anche le liti; ma non questa che abbiamo presentemente. Questa è una lite che non si può perdere.
SCENA VIII.
Cappalunga e detti.
Cappalunga. Con permissione di vossignoria illustrissima.
Eraclio. Che? non c’è nessuno de’ miei servitori?
Cappalunga. Perdoni; non ho trovato nessuno. Mi sono preso l’ardire.
Eraclio. Quelle due corniole che l’altro giorno mi avete venduto, non le stimano niente. Dicono che ho gettato via il mio denaro.
Cappalunga. Non se n’intendono questi signori. Se vossignoria illustrissima non le avesse conosciute per antiche e buone, non le avrebbe comprate. Io non ne ho cognizione, ma ella che sa, le ha conosciute subito; non vi è nessuno in questa città, che abbia l’intelligenza delle cose antiche, come ha il signor don Eraclio. (al Dottore)
Dottore. Sì, certo. Egli è intelligente di tutto, specialmente poi delle liti.
Eraclio. Sì, delle liti, delle antichità, delle cose rare, me ne intendo più di nessuno. E son sicuro che le corniole sono bellissime; e se le mando a Roma, me le pagano a peso d’oro.
Dottore. Se sono corniole antiche, vagliono altro che a peso d’oro.
Eraclio. Tacete col vostro Salviano.
Cappalunga. Signor don Eraclio, ho una bella cosa da fargli vedere.
Eraclio. Che cosa avete da farmi vedere?
Cappalunga. Due quadri di Raffaello.
Eraclio. Di quel bravo, di quel celebre Veronese?
Cappalunga. Non signore, non sono di Paolo Veronese, ma di Raffaello d’Urbino.
Eraclio. Voleva dire di quello. Lasciatemeli vedere.
Cappalunga. Ora subito. (s’accosta alla scena, e chiama un uomo che viene con due quadri)
Eraclio. Li conoscerò io, se sono di Raffaello d’Urbino. (al Dottore)
Dottore. Badi bene, che non sieno copie.
Eraclio. Volete insegnare a me a conoscere le copie dagli originali?
Dottore. Se mi permette, vado via. Ritornerò a desinare.
Eraclio. Trattenetevi un poco; veggiamo questi due quadri.
Cappalunga. Eccoli, signore: questi sono due gioje.
Eraclio. (Lì va osservando con attenzione.)
Dottore. (Povero sciocco: non sa niente). (da sè)
Cappalunga. Ha mai veduto i più belli? (a don Eraclio)
Eraclio. Aspettate. (cava l’occhiale per vederli meglio)
Dottore. (Più che guarda, meno ne sa). (da sè)
Eraclio. È vero, sono di Raffaello da Pesaro.
Cappalunga. D’Urbino, vuol dire.
Eraclio. Da Pesaro a Urbino non ci sono che poche miglia.
Dottore. (Parmi che stia mal di memoria ancora). (da sè)
Eraclio. Quanto vagliono questi due quadri di Raffaello?
Cappalunga. Non dica quanto vagliono, che non hanno prezzo. Sono di una vedova, che non sa più che tanto.
Eraclio. Si possono aver per poco, dunque?
Cappalunga. Ma è stata un po’ maliziata, perchè dietro alla tela vi ha ritrovato scritto il nome dell’autore, e si è informata, e ha inteso dire che le pitture di Raffaello sono rarissime.
Eraclio. Sono rarissime, lo so ancor io. Lasciate vedere, (osserva per di dietro ai quadri) Ecco il nome dell’autore. Non si può negare che non sieno di Raffaello d’Urbino. (al Dottore)
Dottore. Chi se ne intende, non ha da cercare la sicurezza dietro del quadro.
Eraclio. Qui non si tratta di Salviano, signor Dottore. Quanto vuole la vedova di questi due quadri di Raffaello d’Urbino? (a Cappalunga)
Cappalunga. Ella mi ha domandato dieci zecchini l’uno: ma se si potessero aver per otto...
Eraclio. Per otto zecchini l’uno, sono assai piccoli; ne ho comprato uno l’altro ieri, grande sei volte tanto, per tre zecchini.
Cappalunga. Di Raffaello d’Urbino?
Eraclio. Non so di che mano sia. Ma non è cattivo.
Cappalunga. Perdoni. I quadri non si apprezzano dalla grandezza...
Eraclio. Lo so ancor io: dalla mano.
SCENA IX.
Il Conte Nestore e detti.
Conte. Servitore di don Eraclio.
Eraclio. Amico, siete venuto in buona occasione. Osservate questi due pezzi di quadro.
Conte. Oh belli!
Eraclio. Indovinate di che autor sono. (Non gli lasciate veder la tela per di dietro). (a Cappalunga)
Conte. Per me li giudico di Raffaele d’Urbino.
Eraclio. Originali, o copie?
Conte. Originali bellissimi.
Eraclio. Così diceva ancor io. Indovinate quanto ne vogliono.
Conte. Se si dovessero valutare per quel che vagliono...
Cappalunga. Per otto zecchini l’uno si possono prendere?
Conte. Li prenderei ancor io per questo prezzo. (Bravo Cappalunga, si è portato bene). (da sè)
Dottore. (Ci gioco io, che sono d’accordo fra questi due). (da sè)
Eraclio. Facciamo così, Conte, prendiamone uno per uno.
Conte. Sarebbe peccato lo scompagnarli.
Eraclio. Se volete che io ve li ceda...
Conte. Vi ringrazio. Se fossi al mio feudo, li comprerei; ma qui non ho casa mia, e poi ora ho da spendere in altro. È capitata stamane la Contessa mia sorella.
Eraclio. Davvero? me ne consolo. Verrò a fare i miei complimenti colla dama.
Conte. Mi farete onore; ma spicciatevi da quest’uomo, e non vi lasciate scappare una sì bella occasione.
Eraclio. Portateli nel mio gabinetto, e aspettatemi, che ora vengo. (a Cappalunga)
Cappalunga. Sì signore. (Mi sono portato bene?) (al Conte)
Conte. (Bravissimo. Aspettatemi dallo speziale).
Cappalunga. (Sì signore). (parte)
SCENA X.
Don Eraclio, il Conte, il Dottore.
Conte. Come va la causa, signor Dottore?
Dottore. Peggio che mai, signore.
Eraclio. Eccolo qui; è ostinato a credere che voglia terminar male. E io giudico, e sostengo, e provo, che la causa non si può perdere.
Conte. Così diceva ancor io; mi pare che don Eraclio non la possa perdere.
Dottore. Ma la ragione su cui si fonda, è ridicola.
Conte. Su qual principio fondate voi, don Eraclio, la ragione vostra?
Eraclio. Sovra un principio certo, infallibile.
Dottore. Perchè un cavaliere non ha da restare senza il palazzo...
Eraclio. Tacete. Non è questo solo il motivo.
Conte. No, non è questo il solo motivo. Conviene esaminare la natura del debito.
Eraclio. Questo conviene esaminare.
Conte. E se l’ipoteca è generale, o speciale.
Eraclio. E se è generale, non si può dire speciale.
Conte. E se al contratto mancano le debite solennità, non tiene.
Eraclio. Non tiene un contratto, che è fatto senza solennità. Il Conte sa quel che dice. Dottore, vi aspetto a mangiare i capponi meco, e la causa non si può perdere. (parte)
SCENA XI.
Il Conte ed il Dottore.
Conte. Questi è l’uomo più felice del mondo.
Dottore. Ma la sua felicità vuol durare per poco.
Conte. Intanto godrete oggi anche voi del buon gusto della sua tavola.
Dottore. Mi ha nominato i capponi di Venezia. Chi non verrebbe a mangiarne? In tutto il mondo non si trovano i più preziosi.
Conte. E dove trattasi di pelare, il signor Dottore non manca.
Dottore. E il signor Conte non monda nespole.
Conte. Don Eraclio è il miglior cappone del mondo.
Dottore. Ed ora Raffaello d’Urbino ha terminato di capponarlo. (parte)
SCENA XII.
Il Conte, poi donna Metilde.
Conte. Costui mi conosce un poco meglio degli altri; ma son certo però, che trovandoci il suo interesse a tenersi meco, non mi recherà pregiudizio. Non so, se colui d’Arlecchino avrà portato alle dame i miei regalucci. Ecco donna Metilde: veramente è una damina gentile; peccato che non abbia ventimila scudi di dote! Non vorrei che amore mi corbellasse. Starò in guardia più che potrò.
Metilde. Serva, signor Conte.
Conte. Riverisco la signora donna Metilde.
Metilde. Giacchè non c’è nessuno, vorrei prendermi una libertà.
Conte. Potete esser sicura di tutto il mio rispetto, e dirò anche della mia tenerezza.
Metilde. Tenete questa carta; riponetela presto, presto.
Conte. Che vi è qui dentro, signora?
Metilde. Lo vedrete poi. Compatite.
Conte. Permettetemi che possa almeno vedere...
Metilde. No, vi dico, non voglio. L’aprirete quando sarete da voi.
Conte. Non so che dire. Voi sempre mi caricate di grazie.
Metilde. Sono piccioli segni dell’affetto mio.
Conte. Veggo a mia confusione con quanta bontà mi trattate.
Metilde. Se potessi, farei di più.
Conte. Arlecchino è ritornato qui questa mane?
Metilde. Lo vidi, che appena mi era alzata dal letto; non gli ho potuto dire quel ch’io voleva. Mia madre è una tiranna con me.
Conte. Dopo non è tornato?
Metilde. No certo.
Conte. Potrebbe essere ritornato, che voi non lo sapeste. Vi è dubbio che possa averlo veduto donna Claudia senza di voi?
Metilde. Non può essere, perchè ella è stata sinora alla tavoletta. Tre ore ci sta ogni mattina allo specchio, e se io sto mezz’ora, mi sgrida.
Conte. Spiacemi che non abbiate veduto colui.
Metilde. Perchè? aveva qualche cosa da dirmi?
Conte. Aveva una cosuccia da darvi.
Metilde. Che mai?
Conte. Una picciola tabacchiera d’avorio, con una miniatura eccellente. Quando verrà, vi supplico d’aggradirla.
Metilde. Tutto è prezioso quel che viene dalle mani del signor Conte.
Conte. Posso vedere quel che rinchiude la carta?
Metilde. Per ora no, vi dico. Mi basta che l’aggradite, e che, per segno d’aggradimento, vi degnate di farne uso.
Conte. Qualunque sia la finezza che voi mi fate, non lo trascurerà6 il mio rispetto.
SCENA XIII.
Donna Claudia e detti.
Claudia. Che fate qui, scioccarella?
Metilde. Niente, signora.
Conte. Appunto m’informava da lei, dove poteasi riverir donna Claudia.
Claudia. La mia camera sapete dov’è, ne vi è bisogno che prendiate lingua da lei.
Conte. Signora, credo vi sia nota l’onestà mia, onde non possiate temere...
Claudia. Non vi offendete, Conte, che non lo dico per voi.
Metilde. Lo dice per me la signora madre. Gli dispiace ch’io sia qui, perchè vi è il signor Conte. Anderò via, se comanda.
Claudia. (Arditella!) Restate, io non ho soggezione di voi; anzi deggio parlare al conte Nestore per conto vostro, ed ho piacere che ci siate. (Vorrei disfarmene di costei). (da sè)
Metilde. (Se almeno mi proponesse a lui per isposa; ma sarà diffìcile). (da sè)
Claudia. Accomodatevi. (siede)
Conte. Per obbedirvi. (siede)
Claudia. Sedete, sedete voi pure. (a donna Metilde)
Metilde. Sì signora. (siede vicino al Conte)
Claudia. Chi vi ha insegnata la civiltà? Non si dà incomodo alle persone, sedendo da vicino.
Metilde. La sedia era qui... (scostandosi)
Conte. Resti pure. Anzi, nella stagione in cui siamo, si sta meglio vicini7.
Metilde. Mi accosterò dunque. (alzandosi un poco)
Claudia. Sfacciatella. A chi dico io?
Metilde. Compatisca. (rimane al suo posto)
Conte. (Sono in un pochino d’imbroglio; ma saprò condurmi). (da sè)
Claudia. È qualche tempo che ho desiderio di sfogarmi un poco colla mia signora figliuola. Da sola a sola non ho voluto farlo, temendo che l’ardir suo e la mia intolleranza mi conducessero a qualche eccesso. Mio marito è come se non ci fosse; non pensa che a rovinare la casa, ed a me lascia il peso della famiglia. Tutto anderebbe bene, mercè la mia direzione, se non avessi una figlia, che mi dà occasione di essere malcontenta.
Metilde. Che cosa le faccio io, che non mi può vedere?
Claudia. Che cosa andate dicendo voi, ch’io attraverso le vostre fortune, che non cerco di collocarvi, che sono una madre tiranna?
Metilde. Sempre, chi riporta, vi aggiugne qualche cosa del suo.
Claudia. Possono avere aggiunto: ma qualche cosa averete detto.
Metilde. Ho detto certo, ho detto.
Conte. Signore mie, non fate che la soverchia delicatezza vi faccia prendere le pagliucce per travi.
Claudia. No, Conte, giacchè ci siamo in questo discorso, contentatevi che si proseguisca.
Conte. Cara donna Claudia, vi supplico non inoltrarvi in un discorso che ora sembrami inopportuno. Fatelo in grazia mia, s’egli è vero che abbiate della bontà per me. (sottovoce a donna Claudia)
Claudia. Voi avete l’arbitrio di comandarmi. Sospenderò per ora.
Conte. Permettetemi ch’io vi dica una cosa, ch’ella non senta. (come sopra)
Claudia. Parlate pure con libertà. (s’accosta colla sedia)
Conte. (Doveva venire poco fa Arlecchino, a recarvi in mio nome un piccolo segno della mia rispettosa memoria; sarebbe egli venuto?) (piano a donna Claudia; e donna Metilde freme)
Claudia. (Non l’ho riveduto dopo la prima volta. Spiacemi v’incomodiate...)
Conte. (Vi supplico di scusarmi).
Claudia. (Se è lecito, di che cosa mi avete voi onorata?)
Conte. (Un picciolo astuccio8 d’Inghilterra con un picciolo finimento d’oro). (È princisbech, ma non importa). (da sè)
Claudia. (Sono tenuta alla vostra cortese attenzione...)
Metilde. Signora madre.
Claudia. Che cosa volete?
Metilde. Perdoni, non incomodi tanto il signor Conte.
Claudia. Fraschetta. (si ritira un poco)
Conte. Abbiamo ragionato di voi, signorina.
Metilde. Me l’immagino. La signora madre parla volentieri di me.
Claudia. Sentite? Sempre sospetta di me, e sempre con un simile fondamento. Orsù, alle corte, quello che voleva dire è questo...
Conte. Ma signora...
Claudia. Non è cosa che possa produr mal effetto. Metilde è in età da marito; voglio collocarla quanto più presto si può. E voi che siete un cavaliere entrante, che ha delle aderenze lontane, vi prego stare in traccia, se si trovasse un partito buono.
Metilde. (Mi vorrebbe maritare lontana, per non avermi dinanzi agli occhi). (da sè)
Conte. Non mancherò, signora, di usare ogni possibile diligenza per rinvenire partito degno di lei.
Claudia. Direte ora, ch’io non cerco di collocarvi?
Metilde. Ma mi vorrebbe mandar lontano.
Claudia. Qui non mi si offre un genero, che degno sia della nostra casa.
Metilde. Il signor conte Nestore non è di sangue nobile quanto noi?
Conte. Donna Claudia non ha ancora certa contezza della mia nobiltà.
Claudia. Vi credo nobilissimo, Conte mio; ma son certa che avreste difficoltà a pigliarla, sentendola a ragionare così.
Metilde. È egli vero, signor Conte, che ci avreste della difficoltà?
Conte. Signore mie, prima che c’impegniamo in un discorso che non può essere tanto breve, permettetemi che io vi dica una cosa che mi era dimenticata. Due ore sono, è capitata qui mia sorella.
Claudia. La Contessa vostra sorella?
Metilde. Come si chiama?
Conte. Carlotta.
Claudia. Voglio aver l’onor di conoscerla.
Metilde. Anch’io, se mi sarà permesso.
Claudia. Voi la vedrete quando verrà a favorirci. Intanto anderò oggi a farle una visita, se il conte Nestore me lo permette.
Conte. (Diavolo! troppo presto). (da sè) È un poco stanca dal viaggio, signora.
Claudia. M’informerò quanda averà riposato.
Conte. Non mancherà tempo...
Claudia. No certo. Oggi vo’ vederla; vo’ conoscerla ed abbracciarla.
Conte. (Vuol esser bene imbrogliata). (da sè)
Metilde. Ora, signor Conte, finite di dire quello che avete tralasciato di dire.
Conte. Nella situazione in cui sono, colla sorella che mi vuol dar da pensare, non ho il capo a segno per parlare con fondamento.
Claudia. No, Conte, se avete qualche inclinazione per la figliuola, ditelo liberamente.
Metilde. Parlate pure, se avete niente in contrario.
Conte. Parmi di sentir gente. Ecco qui Arlecchino.
SCENA XIV.
Arlecchino e detti.
Arlecchino. Servitor umilissimo. Fazzo riverenza; patroni.
Conte. (é venuto a tempo costui) (da sè) (Tanto vi siete fatto aspettare?) (s’accosta ad Arlecchino)
Arlecchino. L’è sta per causa de Giacomina9.
Conte. (Secondatemi). (piano ad Arlecchino) Vado subito. Signore, con permissione. La Contessa mia sorella ha bisogno di me.
Claudia. Ci volete lasciare?
Metilde. Senza terminare il discorso?
Conte. Resterei; ma... non ha detto ch’io vada subito mia sorella? (ad Arlecchino)
Arlecchino. Sorella?
Conte. La Contessa non ha detto ch’io vada subito?
Arlecchino. Sior sì... subito.
Claudia. Fatele i miei umilissimi complimenti.
Metilde. Anche per parte mia, signore.
Conte. Sarà favorita delle grazie vostre. Con permissione. (Prima di dar loro quel che vi ho consegnato, badate bene che siano sole, che una non se ne avveda dell’altra). (piano ad Arlecchino) All’onore di riverirvi. (alle due dame, e parte)
Claudia. Serva.
Metilde. Serva divota.
SCENA XV.
Donna Claudia, donna Metilde, Arlecchino.
Arlecchino. (Me despiase che le sia qua tutte do. Ma son capace anca de darghe ogni cossa, senza che una se ne incorza dell’altra). (da sè)
Claudia. Vi ha mandato qui dunque la sorella del Conte?
Arlecchino. (Questo mo l’è un altro imbroio). Siora sì, son vegnù, per dirla.... per causa de un servitor che vorave andar a servir, e i m’ha dito che vussioria ghe n’aveva bisogno.
Claudia. Sì, è vero. Dov’è costui?
Arlecchino. El sarà là de fora; l’è vegnù qua con mi. (finge guardar tra le scene)
Claudia. (Si volta verso la scena.)
Arlecchino. La tegna un regaletto de sior Conte. (piano a donna Metilde, e le dà l’astuccio)
Metilde. (Un astuccio? Mi aveva detto una tabacchiera), (da sè)
Claudia. Dov’è costui? Non lo vedo.
Arlecchino. Che el sia andà via? Menego, dov’estu? (s’accosta a donna Claudia)
Metilde. (Osserva l’astuccio). (Non vorrei che lo vedesse mia madre). (da sè)
Arlecchino. (La tegna un regaletto de sior Conte). (piano a donna Claudia, e le dà la tabacchiera)
Claudia. (Mi disse il Conte, che mi regalava un astuccio). (piano ad Arlecchino)
Arlecchino. (Oh diavolo, ho fallà). (da sè) (La tegna per adesso questa). (a donna Claudia)
Claudia. Ringraziatelo.
Arlecchino. Siora sì, la sarà servida. Bisogna che Menego sia andà via, el tornerà.
Claudia. Ditemi, è bella la Contessa?
Arlecchino. Chi Contessa?10
Claudia. La sorella del conte Nestore.
ARLECCHINO. Ah sì, no la xe brutta. (Mi no so gnanca che la sia a sto mondo). (da sè)
Metilde. È giovane?
Arlecchino. Cussì e cussì.
Claudia. È una bella figura?
Arlecchino. Piuttosto.
Metilde. Parla bene?
Arlecchino. Per quel che ho sentio mi, no me descontento.
Claudia. Somiglia al fratello suo?
Arlecchino. Qualcossa.
Metilde. È bianca in viso?
Arlecchino. Che vedo poco; no l’ho vista ben.
Claudia. Com’è venuta?
Arlecchino. La sarà vegnuda, come che la sarà vegnuda.
Metilde. Quando è arrivata?
Arlecchino. Gier sera.
Claudia. Come ieri sera, se ha detto il Conte che è arrivata questa mattina?
Arlecchino. Siora sì, stamattina. (Adessadesso le me chiappa in rede). (da sè)
Claudia. Chi l’ha accompagnata?
Arlecchino. Sior, vegno subito. (verso la scena)
Claudia. A chi dite?
Arlecchino. El sior Conte me chiama; con so bona grazia.
Claudia. Riveritelo.
Arlecchino. La sarà servida.
Metilde. (Ringraziatelo). (piano ad Arlecchino)
Arlecchino. Padrona sì.
Claudia. Se vedete la signora Contessa...
Arlecchino. Ho capito. Se vederè siora Contessa, la saluterò da parte soa. (Mai più son sta in t’un imbroio più grando de questo. E per cavarse a tempo, no ghe voleva altro che una testa de bronzo co fa la mia). (da sè, e parte)
Metilde. (Ho curiosità di veder bene l’astuccio). (da sè)
Claudia. (Non so come l’astuccio guernito d’oro siasi convertito in una tabacchiera di poco prezzo).
Metilde. Con sua licenza, signora.
Claudia. Andate, andate, che parleremo dappoi, (incamminandosi)
Metilde. Sì, signora, quando comanda. (incamminandosi)
Claudia. Un poco più di rispetto alla madre. (incamminandosi)
Metilde. Un poco più di carità alla figliuola. (incamminandosi)
Claudia. Le fanciulle non si prendono tal libertà cogli uomini.
Metilde. Io non credeva che ciò convenisse alle maritate.
Claudia. Fraschetta!
Metilde. Ho detto male?
Claudia. Levamiti dinanzi. (parte)
Metilde. Farò tanto, che mi mariterà per disperazione. (parte)
Fine dell’Atto Primo.
Note
- ↑ Edd. Guibert-Orgeas, Zatta ecc.: affar.
- ↑ Guibert-Orgeas, Zalta ecc.: grande affare?
- ↑ Zatta: con lui?
- ↑ Ed. Pitteri: in finestra.
- ↑ Guibert-Orgeas, Zatta ecc.: serva umilissima, signor Conte.
- ↑ Così l’ed. Pitteri. Le edd. Guibert-Orgeas, Zatta ecc.: non le trascurerò ecc.
- ↑ Guibert-Orgeas, Zatta ecc.: uniti.
- ↑ Guibert-Orgeas, Zatta ecc.: stucchio.
- ↑ Mancano queste parole di Arlecchino nelle edd. Guibert-Orgeas, Zatta ecc.
- ↑ Così nel testo.