Il romanzo della fortuna/VIII
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VIII.
Giorni che passano.
Ne seguirono dei giorni a quel giorno luminoso! giorni sempre più caldi della fine di agosto, durante i quali Chiarina non mancava mai di chiudere le imposte della sua botteguccia e di mettere un garofano fresco nel bicchiere, aspettando, rituffandosi nella ebbrezza del sogno. Ma le imposte non si spalancarono più davanti alla meravigliosa apparizione...
Alla metà di settembre vennero il signor Firmiani e Mariuccia per passare un mese alla Villa. Enzo no; Enzo doveva studiare per prendere la laurea ed era rimasto a Milano con un amico. Solamente alla domenica faceva qualche scappata, ma Chiarina non ebbe mai occasione di parlargli a lungo, nè egli di entrare nella botteguccia.
Sua sorella Maria si era fatta una bella ragazza, bionda, più bionda di lui e più florida, priva di quella espressione di malinconia soffusa che dava tanta serietà alla fisionomia di Enzo. Maria, che tutti ancora chiamavano Mariuccia, prendeva la vita serenamente, attaccata alla gioia, con pochi pensieri e poche occupazioni piacevoli. Ella e il signor Firmiani facevano delle passeggiate, delle visite, lunghe sieste, qualche partita a dama. Con Chiarina era affabile, espansiva. Avrebbe voluto che continuasse a darle del tu: Chiarina esitava, sbagliando spesso, e Mariuccia rideva. Andavano qualche volta insieme a trovare la maestra che era presso a poco dell’età di Chiarina e sedute tutte e tre sotto i pioppi assistevano al tramonto del sole sul lontano orizzonte della pianura.
A queste serate sotto i pioppi capitava, una volta sì ce una volta no, Giovanni. Egli era sempre bene accetto perchè girando nei paesi intorno sapeva raccontare le novità ed anche le piccole maldicenze, con un garbo tutto suo tra il serio ed il faceto che divertiva le fanciulle. Le stesse attitudini di prontezza e di intelligenza, di bonomia astuta e di onestà fondamentale che facevano prosperare il suo piccolo commercio lo aiutavano mirabilmente a creargli amicizie e simpatie.
Fosse così Enzo! — sospirò una volta Mariuccia — e Chiarina che udì l’esclamazione non si dette pace finchè ebbe indotto Mariuccia a parlarne un poco; ma ciò che disse non servì ad altro che a crescerle passione e malinconia. Trapelava dalle parole di Mariuccia un certo scoramento, quasi un dubbio sull’avvenire del giovane studente. Egli aveva ingegno, volontà, o per lo meno desiderio di volontà, eppure non riusciva nelle sue intraprese. Sembra — diceva Mariuccia — che sia nato sotto una cattiva stella; tutto gli va a rovescio.
Chiarina, quella sera, pianse; e prima di coricarsi si inginocchiò con un grande fervore a recitare le sue orazioni aggiungendo una preghiera breve ma ardente per lui.
Così la dolce pena entrava a stabilirsi definitivamente nel suo cuore, a far parte d’ogni pensiero segreto non solo, ma colla pietà ad assurgere nelle sfere più alte dell’altruismo, invocando sul suo capo la benedizione del cielo. Non altro. Ella non chiedeva altro a Dio che vederlo felice. In qual modo non voleva sapere.
Colla fine dell’autunno le venne a mancare anche la malinconica gioia di parlare di lui con Mariuccia. I signori Firmiani tornarono a Milano lasciandola come prima sola a custodia della Villa.
L’inverno fu triste. La botteguccia nella luce scialba dei tardi mattini appariva squallida e tetra. La porpora dei garofani non metteva più sul banco la sua nota trionfante, anche il bicchiere giallo del Reno era sparito; solo il gatto di ghisa restava immobile tra i due vasi delle caramelle e degli amaretti. Chiarina sedeva ancora sulla sua seggioletta di paglia a cucire od a far calze aspettando gli avventori, ma il rettangolo di sole non veniva più dinanzi al banco a segnarle l’ora e quando i bambini reduci dalla scuola irrompevano cogli zoccoli carichi di neve, scuotendo neve dappertutto, pestando piedi e mani per riscaldarsi, la prendevano sempre alla sprovvista come se avesse perduta ogni nozione del tempo.
Crudeli nella sincerità dell’istinto i più grandicelli avevano osservato queste distrazioni di Chiarina e ne approfittavano per spaventarla con assalti bruschi, con improvvisi rumori, ridendo poi della sua attitudine offesa.
La piccola orda barbara, invadente, chiassosa, distruggitrice, rompeva per poco la monotonia grigia delle giornate invernali.
Le rotonde guancie rese pavonazze dal freddo, gli occhi lucidi imploranti le caramelle, i nasini che percorrevano l’orlo del banco lasciandovi una striscia umida, danza vano per poco nel velo oblioso che sembrava sceso sulle pupille di Chiarina. Ella vedeva come un sogno un volo di sciarpe turbinanti intorno ai colli che dovevano proteggere, udiva grida, tossi, soffiar di nasi, sbatter di zoccoletti; poi un fruscio di pecchie sciamanti fra scoppi di risa e colpi di quaderni sulle spalle, poi silenzio.
Col vespro la luce andava scemando a poco a poco; Chiarina non ci vedeva più a lavorare. Ogni cosa nella botteguccia si vestiva di una tinta grigia indecisa; i contorni si perdevano; neanche la terraglia dei piatti e il metallo dei coperchi non rilucevano più affogati nulla nebbia crepuscolare. I sacchi del riso e delle lenticchie si ritraevano nel loro angolo buio, le pezze di cotonnato sparivano nelle profondità del soffitto. Chiarina, pari ad una statua, si immobilizzava sulla sua seggioletta colle mani sotto il grembiule e l’occhio fisso; ma il suo cuore palpitava, il suo cuore era caldo di una fiamma continuamente alimentata nel pascolo del ricordo. Il gran giorno luminoso proiettava ancora sulla sua pallida vita un fascio di raggi.
Il maggiore avvenimento di quell’inverno fu una visita di Giuseppe. Egli venne mal concio, lacero, affamato; secondo la sua abitudine non entrò in molti particolari, ma bastava il suo aspetto a commuovere Chiarina.
Disse appena che era stato chiamato alla leva militare, che doveva partire a giorni, che non aveva un soldo, e finì chiedendo cinquanta lire in prestito.
Chiarina non aveva cinquanta lire, ma se egli poteva aspettare il ritorno di Giovanni se ne sarebbe parlato.
— Non hai i denari che ti lasciò la signora Firmiani! — chiese improvvisamente Giuseppe,
— Metà di essi furono impiegati qui — rispose Chiarina con un gesto vago verso le merci che occupavano il piccolo negozio.
— E il resto?
— Col resto ho fatto un libretto di Risparmio sulla Cassa di Milano.
— Ebbene dammi quello.
Chiarina esitò.
— Non ti fidi?
— Aspetta Giovanni.
— Che c’entra Giovanni! Se hai cinquanta lire dammele; se non le hai dammi il libretto dal quale preleverò io le cinquanta lire e te lo riporterò domenica senza fallo.
Chiarina esitava ancora.
— Non puoi aspettare?
— No non posso. Non vedi in quale stato mi trovo? Ho avuto molte disgrazie; ma adesso al reggimento mi rifarò. Voglio entrare come attendente presso un ufficiale e chi sa che non capiti anche a me una buona eredità.
Chiarina non vide il sorriso cattivo che accompagnava queste parole.
— Mi riporterai subito il libretto?
— Parola d’onore.
— Le cinquanta lire — soggiunse Chiarina commossa — tienile pure. Mi basta che mi riporti il libretto.
— Sì, sì, non dubitare.
Chiarina nel consegnare a Giuseppe tutti i suoi risparmi pensava che infine era suo fratello, sangue suo, e che sarebbe stata una cattiva azione abbandonarlo nel momento del bisogno.
Giovanni però non fu totalmente di questo parere. Quando Chiarina gli ebbe comunicato la visita di Giuseppe e lo scopo ottenuto egli non seppe reprimere una smorfia.
— Ho fatto male? — domandò Chiarina.
— Quanto mai non abbiamo impiegato tutto qui! — esclamò Giovanni senza risponderle direttamente.
— Ha promesso che domenica mi riporta il libretto.
Giovanni non disse nulla nè per appoggiare nè per distruggere questa speranza. Solamente avendogli Chiarina domandato ancora se la biasimava di aver regalato cinquanta lire con tanta prontezza rispose asciutto:
— Il danaro era tuo. Del resto importa poco che tu glielo abbia prestato o donato. Tanto non ritorna più.
Per un pezzo non se ne parlò altro. Chiarina, persuasa del ritorno di Giuseppe, lasciò che si succedessero giorni a giorni, settimane a settimane, tranquilla e senza timore. L’inverno tuttavia finì senza che ella avesse avuto la benchè menoma notizia di Giuseppe e allora fu presa dall’inquietudine per il suo piccolo unico capitale; una inquietudine mista di biasimo, di mortificazione, di dolore, quasi di avvilimento perchè si trattava di suo fratello e l’onta della cattiva azione le faceva salire il rossore al viso. Per tranquillizzarsi ripeteva che egli non avrebbe mancato di renderle i denari, magari tardi, magari quando meno se li sarebbe aspettati.
Ed anche in questo caso Giovanni non diceva nulla nè per appoggiare nè per distruggere la sua speranza. Pensava da filosofo che quel che è stato è stato.
Spesse volte però quando tornava a casa dai suoi giri in biroccio e sedeva sullo sgabello di legno accanto al deschetto che Chiarina ammaniva sopra un cantuccio del banco, gli accadeva di ripetere:
— Se avessi un capitaletto da poter aprire altrove una bottega come mi intendo io! Sono stanco di girare sulle strade maestre. È ora di mettermi a fare sul serio.
Allora sì che Chiarina si crucciava di essersi lasciata togliere il suo gruzzolo e andava escogitando mezzi per rifarlo a poco a poco. Avendo trovato un giorno in uno scatolino di pillole un centesimo nuovo, tanto lucente da sembrare d’oro, disse a Giovanni:
— Lo ricordi? Questo è quel centesimo che uno sconosciuto lasciò cadere ritornando dalla sagra di S. Anna insieme ad altri soldi, che Giuseppe mi buttò nella sabbia e che io cercai per tutta una sera...
Giovanni ricordava perfettamente. Egli rispose serio:
— Un centesimo è il principio di un milione.
Chiarina non pensava certo al milione, ma quella monetuzza luccicante nel fondo dello scatolino le sembrava un sorriso di incoraggiamento e provò piacere a mettervi accanto altre monete diverse. Poichè gli affari della botteguccia non la occupavano in tutte le ore del giorno cercò lavoro fuori. Essendosi poi ammalata la moglie del dottore, ella che aveva assistito così bene la defunta signora Firmiani, fu pregata di prestare le sue cure almeno per una parte della giornata. Chiarina dopo di avere riflettuto un po’ appese al suo uscio un cartello col quale avvertiva la sua clientela di non poter trovarsi in bottega dalle dieci alle dodici e dalle cinque alle sette. Non perdette nessuno de’ suoi avventori ed assodò la sua fama di infermiera per modo che non vi fu più in paese malato grave che non richiedesse le sue cure.
In questo cumolo di occupazioni Chiarina trovava pure un sollievo alle segrete pene del cuore. La cara immagine non la abbandonava mai, ma era quasi un rendersi degna di adorarla nei brevi istanti liberi il sacrificio che ella faceva del suo tempo a un ideale di dovere verso il fratello buono e verso se stessa. Dopo una giornata di dedizione agli altri era con una specie di orgoglio che apriva il sacrario dell’anima sua per inginocchiarsi davanti alla sua passione. Le sembrava di averlo meritato quel momento di abbandono al pensiero dominante.
Passarono a questo modo anche la primavera e l’estate. Venne l’autunno, ma dei signori Firmiani non si vide nessuno. Chiarina seppe che erano andati tutti in montagna per ordine del medico e questa notizia la rese profondamente triste. La Villa così deserta colle persiane chiuse, colle camere mute, la riempiva di una nostalgia amara facendole rimpiangere i lieti autunni di un tempo e la presenza della vecchia signora Firmiani che tanto: sorriso di vita spargeva intorno a se. Come apparivano lontane quelle belle feste di S. Anna ove fin dal mattino tutta la casa era in piedi attiva e impaziente nei preparativi del gran pranzo; e poi la messa solenne nella chiesa piena di fiori e i dolci pomeriggi coll’arrivo degli invitati.
Quando la assalivano queste memorie di giorni lieti che non tornerebbero mai più, di consuetudini spezzate, di persone care o morte od assenti, ella che era pure tanto giovine ancora si sentiva stanca di una esistenza dove tutto le mancava nel momento migliore, dove una cospirazione sorda di eventi le creava sempre il vuoto intorno.
Un po’ di conforto le veniva dalle visite serotine alla maestra. Le due giovani donne, sedute sotto i pioppi, senza farsi molte confidenze provavano quel soave acquietamento di due esseri che si somigliano nelle aspirazioni e nei casi della vita. Entrambe orfane, entrambe sole, entrambe povere. La maestra aveva studiato molto, Chiarina poco, ma nella essenza delle loro anime non vi era alcun contrasto perchè entrambe chiedevano alla vita un solo dono: l’amore — e la sapienza dell’una e l’ignoranza dell’altra (esse lo sentivano) non avrebbe potuto modificare in nessun modo il concetto fondamentale della loro felicità.
Per tale riavvicinamento una nuova risorsa entrò nella vita di Chiarina. La maestra incominciò a darle qualche libro e fu come un rifugio aperto dove Chiarina trovò piaceri insospettati che vennero ad arricchire il suo spirito di cognizioni e di sensazioni diverse. Alcuni di quei libri diventarono suoi amici, altri suoi consiglieri; in altri ancora dove una grande anima appassionata e triste vibrava negli accordi della poesia immortale ella sparse lagrime dolci e tenere. A tutti dovette qualche istante di consolazione.