Il secolo galante/La marchesa Du Deffant
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LA MARCHESA DU DEFFANT
La prima donna del secolo XVIII che ebbi occasione di studiare fu madamigella Lespinasse e credetti allora che la mia curiosità si sarebbe fermata lì. Ma leggendo poi qualche volume di Memorie, fui presa insensibilmente nel fascino di quel secolo elegante e galante e mi accadde press’a poco come davanti ad una mostra di profumeria, di sollevare ora l’uno ora l’altro di quei barattoli graziosi, aspirando l’odore quasi insensibile della poudre maréchale, spinta, mio malgrado, ad aprire le scatole di lacca e di vernice Martin dove le belle del tempo (e le brutte anche) tenevano la loro raccolta di nèi. L’interesse di questa ricerca, proviene sopratutto dal collegamento che si riscontra fra Luna e l’altra delle persone che recitarono una parte in quella gaia commedia, sul palcoscenico di Parigi, aventi per spettatori tutto il mondo civile. Di nessun altro secolo e in nessun altro paese, io credo, si potrebbe raccogliere un materiale tanto abbondante per cui ne rimane lumeggiata e vivificata una intera società, in mezzo alla quale ci riesce di muoverci come in casa nostra, incontrando dappertutto delle conoscenze che se appaiono spesso vane e leggiere, sono pure qualche volta simpatiche per doti intime di sentimento e sempre per una superiorità spirituale della quale a noi non resta oramai che la tradizione.
Più vicina di tutte a madamigella Lespinasse e legata indissolubilmente alla di lei storia è la marchesa Du Deffant. Senza la Du Deffant, colei che fu la donna più appassionata del secolo XVIII non sarebbe forse mai uscita dalla nativa provincia e le sue smanie ed i suoi ardori portandosi sopra altri oggetti sarebbero rimasti nell’ombra che tanti romanzi copre e cela. I lettori che si sono commossi alla passione della Lespinasse hanno il naturale desiderio di conoscere chi fosse veramente la sua prima protettrice e poi nemica, e se il nome di lei è meno noto, non è certo perchè la Du Deffant non abbia lasciato anch’essa il suo epistolario, chè al contrario questo forma parecchi glossi volumi, ma piuttosto perchè manca alla figura della vecchia marchesa l’attrattiva passionale della sua competitrice più giovane e più simpatica.
È tuttavia con un certo grave e malinconico diletto che si sfogliano le lettere della Du Deffant per mezzo delle quali entriamo nelle ceneri di un mondo defunto; una specie di Pompei mummificata ne’ suoi gesti graziosi, sorridente ancora e leggiadra benché immobile, e come la sentinella partenopea colpita nell’atteggiamento della vita. Non abbiamo davanti questa volta una passione esclusiva, ma diversi .stati d’anima, ed a preferenza del personaggio ci attrae e ci interessa la decorazione del quadro.
I suoi biografi non sanno dirci dove nacque Maria di Vichy; forse al castello di Chamrond in Borgogna, proprietà della sua famiglia, intorno al 1697, forse a Lione. Maritata a ventun anno col marchese Du Deffant senza molto entusiasmo e senza un grande interesse nè da una parte nè tra, presentata a Corte nel periodo più licenzioso della Reggenza, la sua vita fu quella della maggior parte delle giovani donne d’allora: galanteria, giuoco, cene e poi ancora galanteria. La cronaca vuole anche ch’ella sia stata per breve tempo una deile favorite del Reggente; cerio poteva esserlo., dal momento che prendeva parte insieme alla Parabère alle piccole orgie eleganti del Palazzo Reale, dove si rievocavano le memorie di Capua, dove un principe che era intelligente e buono sciupava miserevolmente i doni della natura e del destino. Ad ogni modo Filippo d’Orléans non fermò a lungo lo sguardo sulla marchesa Du Deffant. Altri e ben più oscuri furono i di lei primi amanti. Essi si perdono nel numero e nel tempo.
Chi la sollevò, in un certo qual modo, risvegliando la parte migliore della sua intelligenza, che era viva ed aperta, fu il presidente Hénault, storico e letterato, che godeva allora molta fama. Avendolo incontrato nelle sale della duchessa del Maine, dove ella tenevi il posto di dama d’onore, capì che quella poteva essere per lei una amicizia preziosa e la coltivò e se ne fece sgabello per passare dal mondo della galanteria ad un altro mondo un po’ più serio, non troppo si intende, quale appunto poteva convenire ad una donnina lontana oramai dalla prima giovinezza, che si era discretamente compromessa, e voleva pur salvare qualche cosa. Il presidente Hénault, dalle abitudini meno gravi de’ suoi scritti, dotto inondano, le servì di puntello per non cadere totalmente quando, divisa una prima volta dal marito, poi riconciliata, poi divisa ancora con uno scandalo che minacciava di alienarle anche i più benevoli (e, per la morte della duchessa del Maine, ritirata dalla Corte), aperse in casa propria un salotto in concorrenza a quelli che nel linguaggio del tempo si chiamavano bureaux d’esprit. Colle idee del secolo XVIII un legame decoroso e fisso equivaleva ad un matrimonio.... Il presidente Hénault fu in questo senso il secondo marito della marchesa Du Deffant.
Troviamo poi fra i suoi intimi aulici alcuni personaggi già noti a chi conosce qualche cosa della società di allora. Primo fra tutti d’Alembert, il celebre d’Alembert, poi il cavaliere d’Aydie (fu precisamcnte in casa sua che d’Aydie conobbe madamigella Aïssé stessa, così diversa d’animo e di costumi, le era grande amica; e Pont de Veyle, figlio del signor Ferriol, cresciuto insieme a madamigella Aïssé, tutta una catena di seconde parti che al pali delle avemarie di un rosario tengono uniti i grossi paternoster e completano il movimento un po’ pettegolo, ma così vivace e così tipico, di quella società dove le cene si succedevano alle cene; per cui un gran da fare delle dame e dei cavalieri era quello di andare a mangiare in casa altrui, quasi tutti i giorni della settimana ed una seria preoccupazione degli Anfitrioni, onde per essa mostravano particolarmente il loro tatto, quello di riunire persone affiatate tra loro e simpatizzanti. Tutti gli epistolari dell’epoca rigurgitavano d’inviti a cena. Si ha una impressione costante di tovaglie damascate, di argenteria scintillante fra i cristalli di Baccarat, e ci par di vedere i servitori, quei vecchi servitori che nascevano e morivano in una famiglia, circolare sorridenti ed ossequiosi coi larghi piatti colmi di vivande.
Dopo la cena, il giuoco; dopo la tavola dita i tavolini del trictrac, del faraone, del biribl Là marchesa confessa in una sua lettera di avere avuto per tre mesi appena la passione del giuoco; ma se non passione, certo conservò l'abitudine dalla quale era quasi impossibile liberarsi colla frenesia di giuoco che dominava l’aristocrazia, per cui ogni palazzo sembrava convertito in una bisca e gli stessi principi del sangue tenevano pubblicamente giuochi d’azzardo. Sotto questo rapporto, che non è il solo, la signora Geoffrin seppe dare ai suoi ricevimenti una nota più alta e più intellettuale, per quanto parlando di lei la marchesa non nascondesse il suo disprezzo alla borghesuccia venuta dal nulla e la chiamasse sdegnosamente omelette au lard.
Senza dubbio nel salotto della Du Deffant, che era vissuta molto alla Corte, si conservava una tradizione di modi e di linguaggio, quelle sfumature, quel non so che di imprecisabile e di distinto che si sarebbe cercato invano nel salotto della Geoffrin; e, per verità, quantunque avessero molte relazioni in comune, gli intimi dell’una non furono mai intimi dell’altra. Hénault, che applicava forse alle relazioni mondane la pluralità dei mondi del suo amico Fontenelle e che non tralasciò di andare dalla Lespinasse nemmeno in seguito alla grande rottura colla Du Deffant, faceva pure le sue apparizioni in via Sant’Onorato; ma Suard, Marmontel, Grimm, quasi tutti i fedeli della signora Geoffrin non si trovavano a loro agio colla marchesa, la quale aveva un carattere’ esigente, sospettoso e pretendeva (al dire di uno che la conobbe assai bene) che si vivesse per lei sola. Teneva con frenesia ad essere amata; anche vecchia cercava e voleva la passione e non trovandola più nell'amore la pretendeva nell’amicizia. Una volta, a proposito di un cane chele avevano regalato, scrisse ad un amico: «È una piccola barboncina non troppo bella, ma mi ama e ciò mi basta.»
Si capisce che per una donna simile la cinquantina doveva segnare una data crudele, accresciuta da una minaccia di cecità, che in pochi anni divenne fatto compiuto, onde si può credere che solo per penitenza de’ suoi peccati le fu concesso di vivere ottantaquattro anni. Sul versante fatale dell'età il suo carattere si fece più aspro, più irritabile, sempre in preda al malcontento, ai rimpianti e ad una noia invincibile che ella paragonava al verme solitario, il quale ingoia tutti gli alimenti che entrano nel corpo di chi lo possiede stornandoli a suo profitto. La noia la divorava veramente a guisa di un enorme parassita che avesse dentro di sè. Fu in quel torno che ella prese la risoluzione di abbandonare Parigi e di ritirarsi nel castello di Chamrond presso il conte di Vichy suo fratello, ma le mancavano assolutamente i requisiti che abbelliscono la solitudine. Vi stette un anno, se ne stancò e volle ritornare a Parigi, conducendo seco la Lespinasse come damigella di compagnia.
Sono note ai lettori di questo volume le controversie che determinarono, dopo parecchi anni di convivenza, la separazione delle due donne, la gelosia della vecchia marchesa, le rivolte della Lespinasse ed il conseguente allontanamento traendosi seco d’Alembert. Questo fu il colpo di grazia per la Du Deffant, che dovette rinunciare così ad uno dei più vecchi amici, a colui che poteva credere il più sicuro. Era allora perfettamente cieca, di una cecità che non alterava le linee armoniche del bel volto e che ella sapeva palliare con grazia, supplendo alla luce della pupilla con una espressione attenta, con uno spirito vigile ed elastico, pronto ad afferrare tutte le gradazioni del pensiero. Sofferse immensamente ma non cedette. Nel suo cuore avido, nella sua immaginazione disoccupata, il posto lasciato vuoto da un uomo non poteva essere preso che da un altro uomo, ad onta che l’età incalzasse sempre più grave — e costui doveva essere Orazio Walpole.
Incomincia ora il periodo più curioso della vita di questa donna, il più denso di rivelazioni sulla sua psiche complessa, mista di ardore eppure rigida, comprendendo dell’amore tutto ciò che dà e nulla di quanto bisogna dargli, egoista e debole, quasi mai sincera se non nel soffrire. Poco simpatica certamente, ma resa oggetto di pietà per questo amore senile, che se è sempre un gran martoro, a mille doppi dovette esserlo per lei che si era lasciata sfuggire la divina giovinezza senza concretarla in nessun vero affetto, senza avere la coscienza di nessun ideale.
Orazio Walpole, figlio del potente ministro inglese che fu la gloria del partito Whig, era un uomo molto intelligente, che si occupava tanto bene di politica quanto di letteratura ed il di cui epistolario raccolto in sei volumi gode fama di essere tra i migliori dell'Inghilterra. Scettico, altezzoso, punto benevolo, la sua prima definizione della marchesa Du Deffant, alla quale fu presentato in uno de’ suoi viaggi a Parigi, fu questa: vieille débauché e d'esprit. Più tardi si induce a chiamarla bonne vieille, mosso a ciò da un sentimento di compassione per la povera cieca che nessuno amava veramente, se non forse la barboncina, e il di cui salotto era invaso da false amiche, che venivano a scroccare le sue cene nei giorni in cui non avevano di meglio, ridendo poi alle sue spalle, sostenute in ciò dall’esempio dello stesso Hénault.
Orazio Walpole le era stato presentato da lord Crawford, che ebbe pure il potere, non difficile, di accalorare la povera donna, alla quale egli non mancava di rimproverare con rudezza affatto britannica di volere ancora negli amici gli amanti ed appassionati! Battuta ferocemente dall’uno e l’altro ella scriveva rassegnata: «Depuis que je me suis mise à aimer des anglais mon humeur est devenue bien souple.» Certo Walpole, o per compassione come dissi, o per gratitudine, o per simpatia di ingegno, ebbe per la Du Deffant amicizia sincera, ma le smanie di lei e gli intempestivi ardori suscitandogli un segreto senso di ridicolo facevano da spegnitoio. Non poteva soffrire quelle attitudini sentimentali in una donna che aveva oramai settantanni, le metteva in burla, le commentava con feroce ironia, all'occorrenza la sgridava brutalmente. Il maschio, non domato dalle attrattive del sesso, sorgeva in tutta la sua violenza dominatrice. Lei, per contro, si faceva umile, sopportava tutto con amorosa pazienza, con quella devozione un po’ vile, così caratteristica nelle donne vecchie innamorate. Appena qualche volta, chi sa dopo quante lagrime segrete arrischiava un timido rimprovero: «En vérité, j’aurais grand tort de ne pas profiter de toutes vos lecons et de persister dans l'erreur de croire à l'amitié.» Vi persistette tuttavia fino all'ultimo giorno della sua vita sempre cercando nell’amicizia le vampate dell’amore.
E intanto scriveva: scriveva a Walpole, a Crawford, a Voltaire, ai Choiseul suoi parenti, a molti altri. Per essere più esatti diremo che dettava. Della sua calligrafia non si conserva nulla: corrispondenze e manoscritti sono opera di Wiart, il segretario che la accompagnava dovunque, che ella faceva svegliare all’alba per ricevere Io sfogo delle sue notti insonni. Questa dell’insonnia non era il minor tormento di una vecchiaia sterile ed irritata. Fino a ottant'anni ella ebbe il triste coraggio di correr le vicende delle cene in casa propria ed in casa altrui, coricandosi tardi nella notte, sola fino all’alba, quell’alba che ella non poteva vedere, ma che aspettava ansiosa per sfuggire alla torturante presenza di se stessa. «Ma journée ne commence qu’à six heures du soir. Je m’étais couchée la veille à cinq heures du matin. J’avaìs passé la nuit à jouer au pharaon. Voilà ce qui prouve le vide du coeur et de la tète... et on appelle cela vivrei» La coscienza della sua miseria morale le rendeva più insopportabile quella larva di esistenza che ella trascinava in unia oscurità perpetua urtandosi alla irrevocabilità del passato ed alla indifferenza di loro che la circondavano. Che triste cosa doveva essere vedere un rudero di donna, una cieca, che si faceva vestire e condurre in società tutte le sere, accanita dietro quel mondo che le sfuggiva in tutti i modi e del quale non poteva far senza! Fino alle due di notte la portantina stava pronta per trasportare l’impavida soupeuse, che non rinunziò a cenar fuori di casa neppure il giorno in cui morì il suo vecchio compagno, il presidente Hénault. Muoversi, stordirsi, udire il tintinnio delle posate, lo scoppio dei frizzi, il motteggiare salace — e rispondervi, ed illudersi di essere ancora qualche cosa al mondo, per sei, sette, otto ore — e poi la notte, l’orribile notte insonne!...
Nella tristezza della veglia, la vecchia marchesa componeva delle canzoni, degli indovinelli o dei ritratti come era la voga del tempo. Ecco una canzone dove si rispecchia qualche cosa del suo stato d’animo:
Il est un àge heureux, mais qu’on perd sans retours, |
Le plalsir vif avec l’amour, |
Il est an Age affreax, sombre et frolde salson, |
Son impuissance pour sagesse |
Queste canzoncine, naturalmente, facevano il giro degli amici, ed è ancora il meno se si pensa alla insopportabile mania che vi era di leggere in pubblico le lettere; mania che spiega la ricerca di bello stile e lo sfoggio di spirito che si trova in tutte quelle corrispondenze. Anche non immaginandosi di avere dei posteri per lettori, sapevano bene quale critica sottile aspettava ogni arrivo di corriere e come le lettere che appena appena contenessero una notizia, un pettegolezzo o un motto per ridere fossero accolte nelle conversazioni che bisognava pure alimentare in qualche modo. Era io sport di quei tempi.
Una corrispondenza fitta e molto nutrita tenne la Du Deffant colla sua parente duchessa di Choiseul, ed anche qui le dichiarazioni affettuose abbondano vestendo il carattere esagerato del secolo, ornandosi di complimenti, di madrigali, non perdendo mai di vista l’effetto. Ma quantunque la duchessa di Choiseul fosse una angelica creatura degna di essere amata, ed ella stessa circondasse la vecchia parente di cure gentili, non pare che il cuore indurito della Du Deffant si abbandonasse sinceramente ad una affezione che era per lei troppo semplice. In una lettera a Walpole, dove gli annuncia la venuta a Parigi della Choiseul, dice: «Cette idée me cause une petite emotion; je crois que j'aurais du plaisir à la revoir.» Paiole molto fredde, molto compassate, nelle quali si cercherebbe invano un lampo solo dell’ardore che ella consacrava ad un altro genere di affetti.
E che il sentimento profondo, delicato, che l’amicizia colla nobile austerità de1 suoi doveri non fosse proprio nel suo temperamento e vi dominasse invece un violento egoismo, lo si può rilevare dal nessun accenno ch’ella fa mai alle persone che avevano cura di lei. L’unica volta che si mostra, vorrei dire afflitta, ma in realtà è seccata, dalla morte di un vecchio domestico, è perchè aggiungendosi alla mancanza della vista un principio di sordità sente che le sfugge con esso un sostegno e questa preoccupazione le impedisce di affliggersi per la morte di Voltaire, che era pur stato uno de’ suoi più antichi amici. È ben vero che a compenso delle lagrime mancate gli dedicò un calembourg. Siccome i versi piovevano sulla tomba del grande poeta, ella fece questa riflessione, che denota, se non altro, una lucidità di spirito meravigliosa: «Il subit le sort commun, il sert de pàture aux vers.»
Buio e desolato cuore quello di questa vecchia sopravvissuta quasi a se stessa; ella divampa fino all’ultimo, ma di una fiammolina fumosa che rasenta la terra e sa di lucignolo.
Un lieto contrasto alle lettere della Du Deffant rilevanti quasi tutte l’aridità di una vita inutile inasprita dalla diffidenza, sono quelle che le giungevano dal castello di Canteloup presso Amboise nella fertile Turenna, dai suoi parenti Choiseul. Queste lettere, accompagnale spesso da un paniere di ciliegie, dovevano portare nel tetro appartamento della marchesa un profumo di campi, di famiglia felice, di schiette risa che riuscivano qualche volta a scuoterla, ma più spesso attizzavano il sentimento astioso del suo abbandono.
Il duca di Choiseul, ministro di Luigi XV, era uno dei tre personaggi che la Dubarry simboleggiandoli in tre melarancie faceva saltare sul palmo della sua bianca mano dicendo: «Sauté Choiseul, saute Praslin, saute Condé!» e saltarono così bene tutti e tre secondo il volere della favorita che furono esiliati ciascuno nelle loro terre; disgrazia molto comune in allora. Ma per Choiseul l’esilio fu un trionfo. Contrariamente a quel che avviene in simili casi, il corruccio del monarca accrebbe invece di scemargli gli amici. L’umore gioviale, la franchezza del carattere, la sua faccia rubiconda, la buona salute di uomo sanguigno, amante della caccia e delle donne, lo facevano idoneo alla parte di castellano. Non era neppure troppo difficile nella scelta degli scherzi, per passare il tempo, avendo mandato una volta alla marchesa Du Deffant dei piselli freschi in un vaso da notte; vaso magnifico, si intende, che i domestici della marchesa propesero di trasformare in una zuccheriera. Fu per tutti gli anni del suo ritiro a Chanteloup corso di visite e corte bandita. Il maggiordomo, che entrava a dare un’occhiata alle sale per sapere il numero dei coperti da doversi ordinare a cena, riscontrava spesso quaranta o cinquanta persone. Ospitalità veramente regale, degna delle tradizioni fastose dei Choiseul e causa della loro rovina. Chi sa quanti domestici ’disimpegnavano il servizio nel castello a giudicarne da una frase della duchessa, che, parlando di febbri dominanti, accusa di. avere ammalati cinquanta dei suoi servitori! Vita larga, allegra, spensierata, dove gli scherzi puerili si alternavano alle discussioni filosofiche, prese alla leggera anche quelle come appunto era leggera l’anima dei nostri padri; ed è una impressione profondamente tragica l’udire qualche volta, a rari intervalli e fioca come di eco troppo lontana, la voce della miseria aggirantesi quale lupa randagia nelle campagne, attenta e vendicativa. Nessuna società si è scavata più allegramente la fossa, nè tante rose prosciolse sopra quelle zolle che dovevano così presto rosseggiare del suo sangue.
Bella, delicata figura, nella magnifica cornice del castello di Chanteloup, è la duchessa; una donnina esile, fragile come quei Sèvres che sembrano personificare tutte le grazie e le debolezze del secolo, riservata, modesta, buona. Della infedeltà del marito soffre in silenzio e conserva io un ambiente di salacità mordace e di costumi lesti una specie di candore naturale che la fa a quarant’anni timida come una fanciulla, pur difendendosi con fermezza e dignità. Ed altra figura simpatica è al suo fianco l’abate Barthélemy, vivace, leale, pieno di spirito, di cultura e di devozione per la sua signora.
Questi due personaggi che passarono quasi tutta la vita insieme, conforto l’uno all’altro senza che sia facile poter dire da qual parte meglio appoggiasse il beneficio tanto era reciproco, si trovano fra gli amici più sinceri, forse i soli nella vecchiaia della marchesa Du Deffant; la duchessa certamente per la bontà innata del suo cuore e per la parentela che le univa, l’abate perchè viveva nell’orbita della duchessa, satellite d’elezione e di lunga abitudine. Ma anche l’amicizia di questi buoni scendendo sul cuore ulcerato e invidioso della marchesa si trasformava in amarezza. È impossibile che la vecchia peccatrice non provasse la nostalgia di un vero affetto, quando Barthélemy, dall’alto della cameretta che gli avevano assegnata nel castello e dove imperversava il rovaio di un rìgido inverno, le confessa di aver messo di tutto sul suo letto, anche le sedie e i libri, per riscaldarsi, ma la supplica di non dir nulla alla duchessa affinchè nemmeno l’ombra di una preoccupazione possa turbarla per causa sua. Il pensiero costante dell’abate è la salute della sua signora; una salute minacciata sempre dalla soverchia sensibilità e che contribuiva a tenergli vivo quel sentimento di tenerezza, quasi di protezione, di cui circondava madama di Choiseul, che ella dovette sentire per tutta la vita intorno a sè a guisa di velo morbido che la difendesse da invisibili nemici. Questo gentile attaccamento era nàto fin dai primi anni del suo matrimonio, allora che sposa diciottenne aveva seguito a Roma ii duca di Choiseul incaricato di una missione per la quale Barthélemy gli serviva da segretario e non se ne era più staccato, sacrificando all’amicizia per i Choiseul una carriera più libera e dove forse il suo ingegno ed i suoi studi avrebbero trovato migliore impiego.
Ah! certo nella marchesa Du Deffant, s’imponeva il confronto tra questo legame profondo e l’amicizia distratta e lontana che a lei offriva Orazio Walpole. Molte volte nelle sue lettere alla duchessa la invidia, trova che è ben fortunata, che deve essere ben dolce resistenza a Chanteloup e le viene allora una smania improvvisa di lasciare Parigi, di andare a raggiungere quei felici esiliati della Turenna, ma l’irrevocabile come sempre la aggancia ne’ suoi ferrei artigli; non può rifare la vita, non può tornare indietro. Il never more fatale del corvo mormorava già nelle sue orecchie quel malinconico ritornello che Edgardo Poe raccoglieva un secolo dopo: Mai più! Mai più per lei la gioventù, la bellezza, il piacere, gli omaggi, i trionfi, tutte le cose che aveva irremissibilmente perdute. Mai più la calma della famiglia, il rispetto, l’ammirazione devota, la riconoscenza che non aveva saputo creare intorno a sé. Mai più!
La marchesa Du Deffant mori appena in tempo per non assistere agli orrori della Rivoluzione. La duchessa di Choiseul, che le sopravvisse, dovette abbandonare Chanteloup ai creditori, e dopo la morte di suo marito, del quale si assunse di pagare i debiti, si ritrasse a vita modestissima nel convento delle Récollettes a Parigi portando con sè quattro appena delle sue persone di servizio. Ma anche decaduto dalle antiche ricchezze e nello sfasciamento di tutto quanto la circondava, uomini e idee, l’abate Barthélemy seppe provarle che una vera amicizia è ancora fra i beni della sorte il meno caduco. Solo ammesso a visitarla nel ritiro ch’ella si era scelto, quando nei giorni del Terrore fu anch’esso imprigionato e condotto in quelle segrete dalle quali non si usciva che per andare al patibolo, la duchessa di Choiseul, che gli anni e le sventure avevano più ancora spiritualizzata quasi a farne una creatura di sogno, lei così fine e così fragile, ebbe il coraggio di presentarsi ai giudici e di ottenerne la libertà. Una lettera dell’abate alla duchessa in data d’allora termina con queste parole: «regardez à vos pieds, vous m’y trouverez toujours». Nella loro forma di madrigale esse chiudono la vitalità potente di un sentimento rimasto puro fra la generale corruttela, non in tutto simile da quelle figure di patrizi che degenerate dalla mollezza e dai piaceri seppero tuttavia, nelfora tragica che percosse la Francia alla fine del secolo XVIII, ritrovare davanti la morte la posa eroica dei Du Oueslin e dei Condé.