L'Aridosia/Atto II
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ATTO II
SCENA I
Cesare solo.
E’ non è cosa al mondo, che dalla sorte proceda, della quale gli uomini si possin più dolere che quando ella dà de’ sua beni a chi non gli merita: come dire, ricchezze, figliuoli, sanità, bellezze e simil cose. Imperò che, prima, l’offende quelli che li meritano e, in caso che ancora a loro ne dia, il paragone non li lassa lor parer buoni. E cosi li uomini, veggendo che dai tristi ai buoni la fortuna non fa differenzia, non si curano di cultivare ed ornare l’animo loro; ma, inchinati ove naturalmente el senso li tira, cioè al male, si precipitano: onde accade che pochi se ne truovano de’ buoni, assai de’ tristi. E di qui si metton li stolti a negare la providenzia di Dio, dicendo che, s’egli avessi providenzia e iustizia insieme, non comporterebbe mai che certi, che ne son indegni, abondassino di tanti beni e certi altri, che li meritano, ne mancassino. E, benché io sia altrimente resoluto, questa essere falsissima opinione, niente di manco, quando io considero quel mostro d’Aridosio di quanti beni gli 1 abonda, al quale di buona ragione avevono a mancare tutti, non posso fare non dubiti o almanco non mi dolga, tornando massimamente questo in mio preiudizio; perché lui è ricchissimo, sano e ha duoi figliuoli che son giovani molto dabbene ed una figliuola la quale, se l’amor non m’inganna, è la più bella e la più gentile, non dico di Lucca, ma d’Italia. Dall’altro canto, quale lui sia, se noi sapessi, lo intenderete. Egli è avaro, invidioso, ipocrito, superbo e dappoco, bugiardo, ladro, senza fede, senza vergogna, senza amore e senza sale; e, insomma, un mostro ingenerato da’ vizi e dalla sciocchezza. E la mia mala sorte ha voluto che io abbia a esser sottoposto a tanto male. Non m’è mal chi mi ha sottoposto; perché quattro anni sono ch’io cominciai a voler bene a Cassandra, la sua figliuola, non pensando però che questo nostro amore avessi avere si tristo effetto. Ma, andando crescendo, come fanno tutti li amori ben collocati, mi condussi a tale grado che poco piú accender mi poteva che quel ch’io ero, rendendomi pur lei del continuo il cambio. Né altro far potevamo che scriver, talvolta, l’uno all’altro qualche lettera, pur con molti rispetti. E, sendo venuto a termine che viver piú senza lei non poteva, né trovando via piú facile a satisfare il desiderio mio, pensai di addimandarla per moglie. E, conferito la cosa con mio padre, laudò il parentado per ogni altro conto che per il suocero; ma, considerando la voglia ch’io n’avevo e l’altre tutte buone parti, deliberò di farne parlare a persone di auttoritá con Aridosio, pensando che la cosa dovessi aver effetto perché era giudicato cosí da ogni omo. E cosi, trovato, pur con fatica, chi volessi negoziare tal cosa e parlato seco, s’ebbe risposta che il parentado li piaceva; ma che era povero e che non aveva il modo a dar una dote conveniente alla sua figliuola. Ed a me questa risposta, che in sul principio mi parve buona, mi diventò col tempo cattivissima in fra mano: perché io cercavo lei, e non la dote, e lei ignuda, non che senza dote, mi bastava; ma mio padre mi comandò che, senza mille ducati d’oro, mai concludessi il parentado o facessi conto di mai piú li capitare innanzi. Ond’io, per paura di mio padre, fui forzato a chinar le spalle e cercar nuove vie perché a farli dar mille ducati era tanto possibile quanto farlo diventar omo da bene. E cosi, riprovando altri modi, lo feci, credo, insospettire; e, forse anche per fare piú masserizia, el buon uomo se ne andò in villa ed èvvi giá stato piú di uno anno: dove mal contenta tien quella povera figliuola, credo, a zappar la terra; che meriterebbe di essere regina...
SCENA II
Lucido e Cesare.
Lucido. Io sarò qui adesso adesso.
Cesare... La qual, oggimai, per la miseria di suo padre, fornirá inutilmente la sua gioventú.
Lucido. Chi è questo che cosí si scandalezza?
Cesare. Costui m’ara udito.
Lucido. Ah! ah! Gli è il guasto di Cassandra. Tu stai fresco!
Cesare. O Lucido, quanto è che tu sei qui?
Lucido. È un pezzo; e ho inteso tutto quello che hai parlato.
Cesare. S’io non avessi voluto che si fussi inteso, non l’arei detto.
Lucido. I’ mi burlo teco. Adesso vengo. Ma i ragionamenti de’ giovani innamorati vanno in stampa; e, perch’io n’avevo sentiti degli altri, che come te innamorati erono, mi pareva con veritá poter dire d’aver sentiti anche i tua.
Cesare. I mia, Lucido, pur escon di stampa perché i mia mali sono straordinari.
Lucido. Oh! Cosí dicon tutti. Ma e’ mi sa male di non aver tempo da badar teco; perché io t’ho da dire cosa molto al proposito. E, se tu m’aspetti qui, al tornare, te la dirò. E starò poco.
Cesare. Aspetterò mille anni, se m’hai da dir cosa di buono.
Lucido. Lo intenderai. E adesso torno a te.
Cesare. Che domin può essere questo che Lucido dire mi vuole? Cosa appartenente a Cassandra bisogna che sia, perché sa bene che altro amore non ho che ’l suo. Ed anche cosa che importi debbe essere, che non mi farebbe giá aspettar qui indarno. Ma matto ch’io sono! A che mi vo io appiccando? Quasi come io non sapessi qual sieno le novelle de’ servi! Truovon certi loro arzigogoli soffistichi che hanno apparenzia di veri e poi non reggon al martello. Ma l’udirlo che mi nuoce? Sempre è bene ascoltare assai pareri quando in te è rimesso la elezione. Ecco ch’egli è tornato molto presto. Ed è tutto sottosopra, secondo che mi pare al volto.
Lucido. Guarda s’io sapevo come la cosa aveva andare! Ohi povero Tiberio! Ti converrá pensare ad altro che trastullarti con:
Livia.
Cesare. Tu sei tornato si presto?
Lucido. E non tanto che non bisognassi piú. l’ti fo intendere che Aridosio è in Lucca.
Cesare. Volevi tu dir altro che questo?
Lucido. Si; ma ho piú fretta adesso che dianzi.
Cesare. Tu hai molto gran faccende!
Lucido. Tiberio! o Tiberio! Erminio! Uscite un po’ qua.
Cesare. Che fretta è questa? Mi voglio.tirar in questo canto e star a veder che cosa eli’ è.
SCENA III
Tiberio, Lucido, Erminio, Cesare.
Tiberio. Chi mi chiama?
Lucido. Non ti diss’io che tuo padre verrebbe?
Tiberio. Mio padre?
Lucido. Tuo padre viene e sará adesso adesso qui.
Tiberio. Mio padre?
Lucido. Tuo padre.
Tiberio. E chi l’ha visto?
Lucido. Io, con questi occhi.
Tiberio. E lui ha visto te?
Lucido. Non, ch’ero discosto.
Tiberio. Io son rovinato, Lucido.
Erminio. Come abbiam noi a fare?
Tiberio. Dico che son rovinato, Lucido, se non mi aiuti.
Lucido. Che vuoi tu ch’io faccia?
Tiberio. Qualcosa di buono, Lucido mio.
Lucido. Facciam levar quel letto e quella tavola; e lasciam v la casa come la stava prima; e mandiam via costei.
Tiberio. Costei? e perché?
Lucido. Vuoi tu che tuo padre la truovi qui?
Tiberio. Dove vuoi tu ch’io la mandi, cosí sola?
Lucido. Dove l’è usa a stare. E tu vattene, per un’altra via, in villa.
Tiberio. Oh! Cosí scalzo? Dch! Lucido, truova un altro modo che io non abbia a partir da Livia mia.
Lucido. Lo farò, se tu truovi un modo che tuo padre non venga qui. Se noi avessimo il tempo lungo e fussimo tutti d’accordo, difficile sarebbe trovar remedio a questo disordine. Oh! Pensa, essendo mal d’accordo e senza tempo!
Erminio. Tiberio, tu fai sopra le spalle tua. Se tuo padre ti truova qui, come pensi tu che l’abbia a ire?
Lucido. I’ mi maraviglio ch’egli stia tanto perch’egli era giá drent’alla porta. È ben vero che va appoggiandosi e par che porti i frasconi.
Tiberio. Non sarebbe meglio ch’io mi rinchiudessi con Livia in una di queste camere e non li rispondessi mai?
Erminio. Oh bel disegno! Non vorrebb’egli veder chi vi fussi?
Tiberio. Gli arebbe forse paura a entrar lá.
Lucido. Orsú! Io v’intendo. State di buon animo: che io ho trovato un remedio col quale, standovi nel letto, medicherò tutti questi mali. Vattene, tu, drento da Livia. Voi, Erminio, rimanete fuori.
Tiberio. Oh che buona pensata è stata questa!
Lucido. Ma chiudete questa porta col chiavistello e colla stanga; e fate conto che non sia nessuno in questa casa; e, se gli è bussato, e se fussi rovinata la porta, non rispondete niente; e non fate strepito per casa: abbiate insin cura che il letto non faccia romore. Dall’altro canto, state attenti che, quando io mi spurgo, voi facciate il maggior romore che sia possibile con la panca, col letto, con quel che v’è. Ed uno di voi vadia in sul tetto e gitti giú qualche tegolo quando sente brigate intorno all’uscio. E non uscite una iota di questa commissione, che voi e me ruineresti a un tratto.
Tiberio. Non dubitare. Cosí faremo. Erminio. Che diavol vuoi tu far, Lucido?
Lucido. Il vedrete. Ma è meglio che intanto andiate a ragguagliar d’ogni cosa Marcantonio acciò che, bisognandoci pur l’opera sua, la possiamo adoperare. Ed ecco appunto di qua Aridosio. Guardate che non vi vegga intorno al suo uscio. Ed io ancora mi vo’ tirar qua drieto.
Erminio. Addio, adunque.
Cesare. Per Dio, ecco Aridosio. Che cosa ha esser questa? Io son disposto di starci insino al fine; ma in luogo che non mi vegga.
SCENA IV
Aridosio, Cesare, Lucido.
Aridosio. Dove diavol troverrò io questo sciagurato? Io credo che sará ito in chiasso, con riverenzía parlando. Oh povero Aridosio! Guarda per chi tu t’affatichi, a chi tu cerchi lassar tanta roba! A uno che ti tradisca ogni di e ad ogni ora ti dia nuove brighe e che desideri piú la morte tua che la propria vita.
Cesare. E’ ci è degli altri che desiderano questo medesimo.
Aridosio. Ma io me la porterò prima meco alla fossa che lasciargnene. Meschino a me! che, questa mattina, ho pensato di crepare affatto tra la fatica del venire a pie, che mi ha mezzo morto, e il dispiacer dell’animo. Dubito di non m’ammalare. E tutto per causa di quel... presso che io non dissi. Ma che indugio io a entrar in casa, e posare la borsa che troppo mi pesa, e poi darmi alla cerca tanto ch’io Io truovi per gastigarlo secondo che merita? Ma voglio aprir l’uscio.
Cesare. Per Dio, ch’egli ha la borsa seco.
Aridosio. Oimè! Che vuol dir questo? Sarebbe egli mai guasto el serrarne? A voltar in qua, peggio. E’ par che sia messo ei chiavistello di drente Io so pur che Tiberio non ha la chiave; ma temo piú presto che non ci sia entrato qualche ladro. Bisogna, un tratto, che qua sieno brigate.
Lucido. Chi è quel matto che tocca quella porta?
Aridosio. Perché son io matto a toccar le cose mia?
Lucido. Aridosio, perdonatemi: non vi avevo conosciuto. Voi siate, per certo, a toccar li. Discostatevi.
Aridosio. Perché vuoi tu ch’io mi discosti? / Lucido. Se avete cara la vita vostra, discostatevi.
Aridosio. E perché?
Lucido. Voi lo potresti vedere e sentire, se troppo vi badate intorno. Discostatevi, vi dico.
Aridosio. Vo’mi tu dir perché?
Lucido. Perché cotesta casa è piena di diavoli.
Aridosio. Oimè! Che sento io? che cosa è questa?
Lucido. Non vi dich’io che l’è piena di diavoli?
(Spurgasi. Fanno romore in casa).
Aridosio. Come «piena di diavoli»?
Lucido. Non gli avete sentiti?
Aridosio. Si, ho.
Lucido. E li sentirete dell’altre volte.
Aridosio. E chi l’ha indiavolata, Lucido?
Lucido. Questo non so io.
Aridosio. Oimè! che mi ruberanno ciò che io v’ho.
Lucido. Se non rubano i ragnateli...
Aridosio. Vi son pur gli usci, le finestre e altre masserizie.
Lucido. Avete ragione. Non mi ricordavo di questo.
Aridosio. Me ne ricordavo io, che toccava a me.
Cesare. Ancor non intendo io questa matassa.
Lucido. Oh! Voi tremate! Non abbiate paura; che non vi faranno altro male se non che voi non potrete usare la casa vostra.
Aridosio. Questo ti par niente? O se gli andassin anche in villa?
Lucido. Bisognerebbe che avessi pazienzia.
Aridosio. Bella discrezion, la loro, tór la roba d’altri! Almanco ne pagassin la pigione! Ma, per questa croce, che, se io dovessi metterci fuoco, ch’io ne gli voglio cavare.
Lucido. Voi gli giunteresti! Non vi stanno egli drento per piacere.
Aridosio. Tu di’ il vero. E la casa arderebbe, or che io la ripenso. Ma io gli vorrei pure amazzare.
Lucido. Se vi sentori, vi faranno qualche malo scherzo. E’ getton giú spesso tegoli, travi, ciò che truovano.
Aridosio. Oh! E’ mi debbon guastar tutta la casa?
Lucido. Pensate che e’ non la racconciano.
(Gittan giú de’ tegoli).
Ecco un tegolo. Discostiamci, che noi non abbiam qualche sassata.
Cesare. Io comincio a intender l’inganno.
Aridosio. Oh! Lucido, io ho la gran paura.
Lucido. E voi avete ragione.
Aridosio. Posson eglin dar qui?
Lucido. Messer no.
Aridosio. Quant’è che cominciò questa maladizione? ch’io non ho mai saputo niente.
Lucido. Non lo so. Ma due notte sono ch’io ci passai, che, facean un romore che parea la ruinassino. Allora l’intesi.
Aridosio. Non dir tanto, che tu mi fai paura.
Lucido. Certe volte, dicon questi vicini che suonano e che cantano: ma piú, la notte; e, ’l di, la maggior parte del tempo si stanno quieti.
Cesare. Quest’è la piú bella cosa ch’io mai vedessi.
Aridosio. Com’ho io a fare? Non è egli ben mandarvi tanti che gli ammazzin tutti?
Lucido. Parlate basso di simil cose.
Aridosio. Tu di’ il vero.
Lucido. E chi volete voi che gli ammazzi? Bisogna, piú presto, menarci preti, frati, reliquie e far comandare loro che se ne vadino.
Aridosio. E andrannosene?
Lucido. Risolutamente.
Aridosio. Ma e’ vi potranno tornar dell’altre volte?
Lucido. Cotesto si.
Aridosio. Eh! Io non starò a questo rischio: che io ti prometto che, come n’escono, subito la vo’ vendere, s’io la dovessi dar per manco dua fiorini che la non mi sta.
Lucido. L’aranno peggiorata piú di venticinque, gli spiriti.
Aridosio. Non me lo ricordare, che mi si addiaccia el sangue. Oh Dio! Io non ho però mai fatto cosa ch’io meriti tanto male; ma per i peccati di Tiberio m’interviene questo. Dov’è egli, quel rubaldo?
Lucido. Voi lo tenete in villa, e domandatene me che sto in Lucca?
Aridosio. Lo debbi bene sapere, che tu ed Erminio me lo sviate.
Lucido. Guarda a quel che costui sta a pensare! Par ch’egli abbi la casa piena d’angeli, non di diavoli.
Aridosio. Pensa che e’ ma’ portamenti di Tiberio mi fan crepare el cuore.
(Lucido spurgasi. Fanno romore).
Oimè! Lucido, di grazia, non ti discostare da me.
Lucido. Oh! Voi non do verresti volermi appresso, che vi svio il figliuolo.
Aridosio. Gli è un modo di dire. So bene che la colpa è sua e che, s’ei non volessi, non lo svierebbe persona. Ma a cosa a cosa. Io vo’ prima cavarmi questi diavoli di casa; e poi faremo conto insieme. Adesso me ne voglio andar in casa Marcantonio a consigliarmi quel ch’io debba fare. Ma che farò io della borsa?
Lucido. Che dite voi di borsa?
Aridosio. Nulla, nulla.
Lucido. Egli è forse lá, in casa, quella borsa dove voi avete e’ dumila ducati?
Aridosio. E dove ho io dumila ducati? Dumila fiaschi! Hai trovato l’uomo che ha dumila ducati! Ma avviati, Lucido; che io ne verrò a bell’agio.
Cesare. Ve’ s’ei niega d’aver danari, l’avarone!
Lucido. Venite pure a vostra commoditá; che non mi incresce l’aspettare.
Aridosio. Va’ pure alle tua faccende, Lucido.
Lucido. Per mia fé, ch’io non ho che fare.
Aridosio. Io son impacciato. Vattene, Lucido, che io starò un pezzo.
Lucido. Me ne andrò, da poi che volete esser solo. Io ho paura che questo vecchiaccio non ci voglia far qualche tradimento; ma so pur che ei non è da tanto. Me ne voglio andare a trovare Erminio e farlo morire delle risa.
Aridosio. Mi vo’ ritirare in qua, or ch’i’ son solo. Oh Dio! Io son pure sgraziato! Potevam’egli accader cosa peggiore che aver la casa piena di diavoli a causa ch’io non potessi riporre questi danari? Che ho io mai a far di questa borsa? S’io la porto meco, e che Marcantonio la vegga, son rovinato. E dove la posso io lasciare che la non stia a pericolo?
Cesare. Questo potrebbe pur esser la mia ventura.
Aridosio. Ma, da poi che nessuno non mi vede, sará meglio che io la metta qui in questa fogna, sotto questa lastra, dov’altra volta l’ho messa; e fidata sempre l’ho trovata. O fogna dabbene, quanto ti son io obligato!
Cesare. Obligato li sarò io, se ve li metti.
Aridosio. Ma, s’ella fussi trovata, una volta paga per sempre. E, s’io la porto anche meco, non va ella a pericolo d’.esser rubata, vedutami? Al certo, che è quasi quel medesimo: perché, come si sa che un mio pari abbia danari, subito li son levati.
Cesare. Nella fogna sta meglio.
Aridosio. Che maladetti siate voi, diavoli, che non mi lassate riporre la borsa in casa mia! Ma meschino a me, s’ei mi sentono! Che farò? Di qua e di lá son duri partiti. Pure è meglio nasconderla. E, da poi che la sorte dell’altre volte me l’ha salvata, me la salverá anche adesso. Ma non ti lassar trovare, borsa mia, anima mia, speranza mia.
Cesare. Diavol che ei ve la metta mai piú!
Aridosio. Che farò? Orsú! Mettiamla. Ma prima mi voglio guardare molto bene attorno e di qua e di qua e di qua e di quaggiú e di quassú. Oh Dio! che mi par che insino ai sassi abbin gli occhi da vedermi e la lingua da ridirlo. Fogna, io mi ti raccomando. Orsú! Mettiamla giú, col nome di san Cresci. «In manus tuas, domine, commendo spíritum meum».
Cesare. Ell’è tanto gran cosa ch’io non la credo, s’io non la tocco.
Aridosio. Adesso vo’ vedere s’ei si par niente. Niente, afe! Ma, se qualcuno ci venissi a picchiare sopra, gli verrebbe forse voglia di vedere quel che sotto ci fussi. Bisogna ch’io ci dia spesso di volta e non ci lasci fermar persona. Adesso voglio andare dov’io avevo detto e trovar qualche espediente per cavar color di casa. Me n’andrò di qua, ch’io non vo’ passar loro appresso.
Cesare. Quest’è pur gran cosa! E, se io non sogno (che mi par essere desto), questo è quel di che ha a por fine alle mie miserie. Ma che aspetto io? che qualcuno venga qui a impedirmi? Voglio ancor io veder s’io son visto. E da chi? Oh fogna santa, che mi fai felice! Guarda s’io ho trovato altro che un fungo! Voi state pure meglio in mano mia. E forse ch’io li ho a scérre dalle monete? Tutti d’oro sono. Oh fortuna! Questa è troppo gran mutazione perché, dov’io ero disperato d’aver mai a veder Cassandra mia, in un punto me l’hai data in mano. Ma, per fargli maggior dispetto, voglio rimetter nella borsa de’ sassi acciò che la gli paia piena insin ch’ei non la tocca; e racconciare, che non si paia niente. Oh Dio! Perché non ho io un capresto da metterci drento? Ma io non mi vo’ lasciare vincer dall’allegrezza perché ei dicono che gli è cosí prudenzia il saper sopportare una felicitá come una avversitá: benché io sia certo di non aver a aver mai la maggiore; che, se bene d’un altro diecimila n’avessi trovati, non mi varrebbon quanto questi. Ma ecco non so chi. Non voglio che mi veggano qui. Ogni cosa sta ben e non si par niente.
SCENA V
Lucido e Aridosio.
Lucido. Non vi date impaccio del prete, che io ve lo troverrò e tanto dabbene che non potresti trovar meglio; il maggiore scaccia-diavoli non è in Toscana.
Aridosio. Io ho scarico l’animo, da poi che la lastra sta bene.
Lucido. Che dite voi?
Aridosio. Dico che mi si leverá dell’animo una gran briga, se questi diavoli si mandan via. Ma io ti ricordo, Lucido, ch’io j son povero; ed, oltre ai danni che m’hanno fatti in casa, non vorrei aver a pagare a cotesto prete un occhio d’uomo.
Lucido. Non dubitate: ch’egli è persona che starebbe contento quando non gli dessi niente.
Aridosio. Io farò bene a cotesto modo. Ma come gli manderá egli via se gli hanno serrato l’uscio e le finestre?
Lucido. Con le orazioni e scongiuri: le quale entrano per tutto, benché sieno serrati li usci e le finestre.
Aridosio. Uscirann’eglin per l’uscio o per le finestre?
Lucido. Bella domanda! Posson uscir donde vogliono; ma bisogna che faccin un segno per il quale voi conosciate che ne sieno usciti. Ma basta. Avviatevi inverso Santo Frediano dov’è quel prete mio amico. Ed io vi vengo dreto. E merremlo qui di subito; e caverenne le mani. Intanto domanderò Erminio mio padrone, che di qua ne viene, s’ei vuol niente.
Aridosio. Andiamo insieme, Lucido.
Lucido. Avviatevi, ch’io vengo adesso.
Aridosio. No. Io ti voglio aspettare.
Lucido. Guarda che vecchio pazzo è questo! Dianzi voll’esser solo; adesso, a mio dispetto, vuol ch’io vadia seco. Lo domanderò pur se vuol niente.
SCENA VI
Erminio, Lucido ed Aridosio.
Lucido. Volete voi niente, patrone?
Erminio. Oh Lucido! Si, voglio. Ascolta.
Lucido. Andate dov’io v’ho detto.
Aridosio. I' mi riposo, intanto; e non ho fretta; ed ho paura andar solo. Della borsa ho paura.
Lucido. Fate voi. Che comandate?
Erminio. E’ si pensa a’ casi d’ognuno e a’ mia niente.
Lucido. Pensate voi che io procuri e’ fatti d’altri e e’ vostri si gittin dret’alle spalle?
Aridosio. Questo bisbigliare intorno alla borsa non mi piace.
Lucido. Non vi diss’io che avevo quasi trovato un modo, stanotte, per il quale voi vi potessi contentare?
Aridosio. Ch’avev’egli trovato?
Erminio. Si; ma, non mi avendo poi dett’altro, pensai che fussi vento.
Lucido. Io ho pensato che voi entriate in uno forziere e, fingendo di voler mandare panni ed altre robe, vi facciate portare insino in cella sua.
Aridosio. Oh! E’ mi batte il cuore. Ma, s’i’ veggio chinargli o far atto nessuno, io griderrò.
Erminio. Finisci.
Lucido. Poi, uscir del forziere.
Erminio. E poi?
Lucido. Sono stato per dirvelo!
Erminio. Tu hai pensato a altra cosa che a quella ch’io volevo che tu pensassi.
Aridosio. Oh borsa mia! che pagherei io d’averti in seno!
Lucido. Io mi penso che il desiderio delli innamorati sia il ritrovarsi con la dama; né penso che voi speriate che la vi doni mille scudi.
Aridosio. Meschin a me! Che dic’egli di dumila scudi? Grido io?
Erminio. Non t’ho io detto che desidererei che si trovassi un modo per il quale la potessi uscir di monasterio per tanto ch’ella partorissi?
Lucido. Ho inteso. A questo ancora si potrá pensare; ma sará piú difficile cosa. Patrone, togliete el guanto che v’è cascato.
Aridosio. Oimè che mi rubano! oh traditori! oh ladri!
Erminio. Che grida son queste?
Aridosio. La lastra sta pur bene.
Lucido. Ch’avete, Aridosio?
Aridosio. Non; nulla. Avevo paura.
Lucido. Che dicevi voi di ladri?
Aridosio. Avevo paura che e’ diavoli non mi rubassino in casa.
Erminio. Voi farete impazzar questo vecchio.
Lucido. I’ vorrei volentieri che crepassi. A che è e’ buono?
Aridosio. Quanto vogliam noi stare?
Lucido. Adesso vengo. Non abbiate paura quando siate meco.
Erminio. Dove avete voi andare?
Lucido. A trovare un prete; che voglia fare in modo che noi gli caviam di mano venticinque scudi che s’hanno a dare a Ruffo.
Erminio. Come farai?
Lucido. Lo saprete.
Erminio. Va’, adunque: perché e’ m’è si grato quel che tu fai per Tiberio come se tu ’l facessi per me. E non ti scordar però del fatto mio.
Lucido. Mi maraviglio di voi.
Aridosio. Andianne, Lucido.
Lucido. Io ne vengo. Volete voi altro?
Erminio. No. Io voglio andare insino al monasterio. Addio, Aridosio.
Aridosio. Chi è quello?
Lucido. È Erminio.
Aridosio. Oh! Addio, Erminio. Io non t’avevo conosciuto.
Erminio. Mi raccomando a voi. Egli è in còllora meco perché e’ pensa ch’io li svii Tiberio; ed ha fatto vista di non mi conoscere.
Lucido. Che guardate voi, che non ne venite?
Aridosio. No; nulla. Va’ pur lá.
Erminio. Ed io non me ne curo, che gli è un uomo da non lo volere per amico non che per padre. Ma che rest’io di bussare alla ruota? Tò, tò, tò.
SCENA VII
Monaca alla ruota, Erminio, Suor Marietta.
Monaca. Ave Maria.
Erminio. V vorrei che voi mi chiamassi la Fiammetta.
Monaca. EU ’è malata grave e non vuole che nissun la visiti. Non so s’io me li potrò fare l’imbasciata.
Erminio. Fategnene in ogni modo e, se lei non può venire, dite che mandi la maestra.
Monaca. Orsú! Io vo.
Erminio. Egli è ben vero quel che si dice: che chi un paio di guanti logora intorno a queste grate ce ne logora ancora sei dozzine. Quante volte ho io annoverati questi ferri! e considerati quali si dimenino, quali sieno impiombati, quali no! E so in qua’ vani si può mettere la mano a chius’occhi.
Suor Marietta. Chi m’ha fatta chiamare? Oh Erminio! Che ci è?
Erminio. Male, suor Marietta mia, da poi che la Fiammetta ha male lei.
Suor Marietta. Ella ha avuto si grande dispiacere di non ti potere venire a parlare! E non è venuta, piú ancora, perché le monache non li veggano il corpo grosso; perché le doglie non la stringon tanto che la non fussi potuta venire.
Erminio. Che l’ha le doglie, ch? . Suor Marietta. Oh! La potrebbe far ogn’ora el bambino.
Erminio. Meschino a me!
Suor Marietta. La poverina s’affligge tanto che io non penso mai che la lo conduca bene. E hammi detto che io ti dica da sua parte che tu vadia a trovare mona Gostanza sua zia e che gli facci scrivere una lettera alla priora per la quale la ricerchi che dia licenzia alla Fiammetta di farsi portar a ^ medicare a casa sua.
Erminio. Oh! La priora non lo fará.
Suor Marietta. Eh! Sopra la fede d’una donna dabbene sua zia, e in un caso come è questo, si bene: che, per il mona- y sterio, si crede che la stia per morire. S’ella fussi monaca, non dirrei cosi; ma alle non velate, qualche volta, s’è concesso.
Erminio. El tentar non nuoce.
Suor Marietta. Fallo in ogni modo; fallo, figliuol mio: e levaci cosí fatta pena dal cuore.
Erminio. Io la vorrei poter levar col proprio sangue perché la leverei a voi ed a me a un tratto.
Suor Marietta. Ma quanto piú presto fai quest’opera, Erminio mio, tanto è meglio.
Erminio. Io andrò adesso, se vi pare.
Suor Marietta. Va’, che la paura mia è che la non partorisca stasera.
Erminio. Dio ci aiuti.
Suor Marietta. Oh! Tu l’hai detto. Chi ha fede in lui non la può far male.
Erminio. Io vo a far questa faccenda.
Suor Marietta. Si; ma non dir alla sua zia che la sia s gravida.
Erminio. Oh! Voi dite le gran cose! Se l’ha andare a casa sua, non s’ha ella a vedere?
Suor Marietta. Oh! Tu di’ el vero: io non avevo pensato a cotesto. Ma come farem noi?
Erminio. Bisogna dirgnene.
Suor Marietta. Fa’ tu. Dignene in modo onesto.
Erminio. Lassate fare a me. Volete altro?
Suor Marietta. Ascolta. Chi manderai tu che la porti?
Erminio. Oh! Voi pensate troppo in lá. Bisogna prima aver la licenzia.
Suor Marietta. Ella s’ara.
Erminio. Dio il voglia. Raccomandatemi alla Fiammetta; e diteli che non pianga e non si affligga, dove il piangere e lo affliggersi altro non fa che farli male; e tenetela confortata, che noi troveremo bene qualche modo che ci consoli.
Suor Marietta. Cosí farò. Ella mi disse bene che io te la raccomandassi tanto tanto.
Erminio. E’ sarebbe come raccomandar me a me medesimo, maestra mia.
Suor Marietta. Però non te l’avevo detto.
Erminio. Orsú! Andrò dove noi siam rimasti.
Suor Marietta. Ascolta. Mandaci un po’ di trebbiano per risciacquarli la bocca.
Erminio. Cosí farò. E, se vi manca altro, fatemel assapere.
Suor Marietta. Vorremmo risposta di questa cosa presto.
Erminio. Io vo lá adesso.
Suor Marietta. Va’ sano, che Dio ti benedica.
Erminio. Io son certo che questa novella non ha a fare nessun buon effetto perché io credo che la priora darebbe prima licenzia a tutte l’altre monache che a lei. Pur proverò per satisfar loro. Quest’è la piú corta.