L'Uomo di fuoco/5. Nelle foreste brasiliane
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CAPITOLO V.
Nelle foreste brasiliane.
La loro corsa non durò più di un quarto d’ora, poichè ben presto si videro costretti a rallentarla in causa delle innumerevoli difficoltà che presentava quella foresta, diventata da un momento all’altro un vero caos di cespugli, di tronchi, di liane e di radici smisurate.
Era la vera foresta vergine, che in quell’epoca copriva la maggior parte del Brasile, stendendosi quasi senza interruzione fra le rive dell’Atlantico e la gigantesca catena delle Cordigliere.
Graziose bactris, superbe massimiliane regie, gigantesche palme maurizie dalle larghe foglie disposte a ventaglio, le foltissime curgia che s’incurvano verso terra e che sono quasi prive di fusto e spinosi javary s’intrecciavano in tutti i sensi colle passiflore maraniga, colle liane sipos color giallastro che formano delle sottilissime reti entro le quali gli stessi indiani si trovano imbarazzati a uscirne e alle carica papaia, specie di piante da zucche che producono certi cucurbitacei grossissimi quantunque di sapore poco delicato.
Alvaro ed il mozzo, imbarazzatissimi, si erano arrestati, cercando il modo di forzare quella vera parete di verzura, che pareva non offrisse passaggi.
— Sarà un po’ difficile a cacciarsi lì dentro, — disse Alvaro. — Non ho mai veduto una simile boscaglia.
— Eppure siamo ancora troppo vicini alla costa per fermarci qui, — disse il mozzo. — Facciamo come le scimmie, signore, se non vi spiace.
Così almeno non lasceremo tracce visibili se gl’indiani vorranno inseguirci.
— Il tuo consiglio è buono, ragazzo. Imitiamo dunque i quadrumani. —
Vedendo che a terra non potevano sperare d’avanzarsi, s’aggrapparono ai festoni delle liane e cominciarono bravamente la loro marcia aerea quantunque non poco imbarazzati dalle munizioni e dalle armi.
Passando fra un ramo e l’altro e scivolando fra le innumerevoli maglie delle liane, avevano guadagnato un centinaio di metri, quando un improvviso baccano li arrestò.
Delle urla orribili e acutissime si erano improvvisamente alzate in mezzo alla foresta, rompendo bruscamente il silenzio che vi regnava poco prima.
Pareva che si scannassero delle persone o che si sottoponessero a delle torture atroci, giacchè quegli esseri mandavano tali lamenti da far rabbrividire.
— Signore! — esclamò il mozzo che si era fermato a cavalcioni d’un ramo. — Si massacra qualcuno!
— Qualcuno! Mi pare che si sgozzino o che si martirizzino parecchie persone.
— Che vi sia qualche tribù di indiani in questa foresta?
— È quello che sospetto, Garcia.
— Occupati forse a torturare dei prigionieri prima di metterli sulla graticola?
— Ma... ora cantano quei prigionieri! — esclamò Alvaro che ascoltava attentamente.
Le urla lamentevoli erano improvvisamente cessate e si udiva invece un salmodiare strano come se in quella foresta si fossero radunati un paio di dozzine di frati.
Alvaro guardò il mozzo.
— Cantano o m’inganno io?
— Si direbbe, signore, che gl’indiani stanno pregando.
— E questo rumore, che cos’è? —
Anche quei borbottamenti erano cessati e si udivano dei colpi sonori come se una turba di spaccalegna fosse occupata a spezzare dei tronchi d’albero, interrotti da certi gorgoglii che parevano prodotti da torrenti.
— È impossibile che siano indiani gli autori di questi scherzi, — disse Alvaro. — Toh! Ora riprendono le urla lamentevoli ed i canti. Voglio scoprire questi concertisti.
— Chi credete che siano?
— Non saprei, non degli uomini di certo. Andiamo a vedere. —
Convinti di non aver da fare con dei selvaggi, ripresero la loro marcia aerea, mentre la foresta rintronava con un crescendo formidabile di urla, di borbottamenti, di gorgoglii e di colpi sonori.
Gli autori di quello strano concerto non dovevano essere lontani.
Nondimeno i due naufraghi procedevano lentamente, con infinite precauzioni, non sapendo ancora se gli esecutori di quello spaventevole fracasso fossero indiani od animali.
Dopo aver percorso un duecento metri, si arrestarono.
Sulla cima di un albero enorme, che cresceva in mezzo ad una piccola radura, si trovavano radunati i concertisti. Quella pianta era un superbo summaneira, uno dei più colossali che s’incontrano nelle foreste brasiliane, dalla corteccia bianchissima ed i rami assai nodosi, disposti simmetricamente ed il tronco sorretto alla base da grosse radici, specie di sproni naturali che si elevano fino ad otto ed anche a dieci piedi dal suolo formando una serie di scompartimenti entro i quali possono trovare comodamente rifugio due e anche più persone.
Uno scoppio di risa sfuggito ad Alvaro, aveva fatto cessare improvvisamente quello strano concerto.
Gli esecutori, spaventati, avevano abbandonato il tronco del gigantesco vegetale, rifugiandosi sui rami.
— Delle scimmie! — aveva esclamato il giovane. — Che gola hanno dunque quei quadrumani per imitare così bene i frati o gli ebrei quando cantano nelle loro sinagoghe? —
I concertisti erano veramente delle scimmie, delle barbado chiamate anche guariba buio, col pelame bruno e le mani, la testa e la coda nerissime.
Scorgendo i due naufraghi, si erano affrettate a disperdersi fra i rami della pianta, manifestando la loro collera con dei rauchi borbottamenti, poi tutto d’un tratto si misero, dietro ad un vecchio maschio, il direttore del coro con un’agilità sorprendente su una pianta vicina, scomparendo rapidamente fra i festoni delle liane e le fronde.
— Possono vantarsi di averci fatto passare un brutto quarto d’ora, — disse Garcia, ridendo. — Bel modo di spaventare la gente che passeggia nelle foreste. Io avrei giurato che si martirizzavano dei prigionieri.
— Ed anch’io, Garcia, — rispose Alvaro. — Se saremo costretti a fermarci molto tempo in queste foreste ne vedremo delle belle. Toh! Guarda come ha degli incavi quell’albero. Prenderemo possesso di una di quelle celle per passare la notte, giacchè il sole sta per tramontare.
— E la cena, signore? Quelle pere erano squisite però mi sento lo stomaco vuoto.
— Cerchiamo delle frutta.
— Preferirei una bistecca, signore.
— Oh! Il ghiottone! Sei un po’ esigente, ragazzo.
— Ma sono certo che non la sdegnereste, signor Correa.
— Non oserei affermare il contrario; disgraziatamente le nostre costolette devono essere ancora ben lontane e saremo costretti ad accontentarci di qualche frutto.
— Ecco là una pianta che ci fornirà la cena. —
Si lasciò scendere, servendosi d’una liana. Aveva già toccato il suolo quando Garcia lo vide balzare rapidamente indietro, facendo un gesto di ribrezzo.
— Signor Alvaro! — gridò il mozzo. — Ah! L’orribile bestia!
— Qualche serpente!
— Lo si direbbe un rospo... ma che rospo! —
Una schifosa bestia che saltellava fra le foglie secche era sfuggita sotto i piedi del naufrago. Era uno di quei sapos de minas che sono così abbondanti nelle foreste umide del Brasile, un rospo grosso quanto un cappello, colla pelle a chiazze gialle e nere e colle appendici cornute.
— Che bestiaccia! — esclamò Garcia, saltando da una parte. — Non ne ho mai vista una più ributtante, signore.
— Ti credo, — rispose Alvaro, allungandole un calcio per farla sfuggire più presto.
— E quelle bestie che saltano come se avessero le molle sotto le gambe? Non le vedete signore? Ah! Per Bacco! Non si sono mai vedute delle rane di questa specie.
— Delle rane!
— Ma, signor Alvaro!... Hip! Hep! Che salti! Come sono comiche! —
Una banda di rane tutte nere, che avevano le gambe posteriori lunghissime, aveva invasa la radura spiccando dei salti altissimi.
Erano delle parraneca, che si divertivano a gareggiare fra di loro, innalzandosi fino ai rami della summaneira.
Sono così agili e svelte che riescono sovente ad introdursi perfino nelle case, entrando per le finestre.
La truppa, sempre saltando disordinatamente, attraversò la radura e scomparve nel folto della boscaglia.
— Ci deve essere qualche palude o qualche laguna qui presso, — disse Alvaro. — Domani andremo a cercarla e tenteremo di procurarci del pesce. Ho portato con me degli ami e non sono un cattivo pescatore. —
Si diressero verso la pianta che avevano già adocchiata, i cui rami si piegavano sotto il peso di certe frutta che somigliavano a pigne, color verde.
Non avevano scelto male. Avevano messo le mani su un pinha, pianta preziosissima e tenuta in molta considerazione anche dagl’indiani essendo le sue frutta squisitissime, anzi le migliori che si raccolgano nei climi equatoriali.
Le pigne che produce in grande quantità, contengono infatti nelle loro squame interne una specie di crema biancastra, delicatissima e che non ha nulla da invidiare a quella dei durion della Malesia.
I due naufraghi in mancanza d’un cibo più solido ne fecero una scorpacciata, poi si rannicchiarono in una cella del summaneira che poteva contenerli comodamente, ed anche ripararli benissimo dall’umidità della notte.
Il sole era tramontato e le tenebre calavano rapidamente, oscurando la foresta già poco chiara anche in pieno giorno, in causa della impenetrabile vôlta di verzura che la copriva.
Mille strani rumori, che facevano sobbalzare il mozzo e trepidare anche Alvaro, cominciavano a udirsi sotto il cupo fogliame ed in mezzo ai foltissimi cespugli che formavano come una seconda foresta sotto le piante d’alto fusto.
Ora erano dei fischi acutissimi, interminabili, che parevano lanciati da fischietti e che rompevano improvvisamente il maestoso silenzio che regnava nella immensa foresta, come se centinaia di mastri di marina comandassero delle manovre; ora invece erano dei muggiti formidabili come se delle mandrie di buoi pascolassero sotto gli alberi; talvolta invece erano lunghi gemiti che diventavano strazianti oppure tocchi di campana o tintinnare di ferri.
Ad un tratto a tutti quei clamori misteriosi succedeva un breve silenzio, poi i fischi ricominciavano, i sibili si ripetevano ed in lontananza si udivano nuovi muggiti ed un assordante gracidare di rane e di rospi.
Alvaro ed il mozzo, assai inquieti, non sapendo a chi attribuire tutto quel frastuono, se ad animali pericolosi od a semplici esseri affatto inoffensivi, non osavano chiudere gli occhi, quantunque si sentissero stanchissimi.
Avevano udito a parlare vagamente di belve ferocissime che vivevano nelle foreste americane, di giaguari e di coguari, e temendo di venire da un istante all’altro assaliti da quei carnivori, si tenevano stretti l’un l’altro, tenendo gli archibugi puntati per essere più pronti a far fuoco.
Di quando in quando infiniti punti luminosi, che proiettavano dei lampi d’uno straordinario splendore, piombavano sulla radura volteggiando capricciosamente ora fra le alte erbe ed ora in mezzo alle fronde degli alberi.
Erano battaglioni di cucujos o meglio di moscas de luz, splendidi insetti somiglianti alle nostre lucciole, assai più grandi e che tramandano una luce vivissima dagli ultimi anelli addominali.
Lo sprazzo luminoso è così intenso, che con uno di quegli insetti si può leggere comodamente e anche illuminare una piccola stanza, anzi gl’indiani se ne servono ancora oggidì, per pescare, legandone alcuni ad un bastone che fissano, alla sera, sulle prore delle loro piroghe.
Erano già trascorse due ore da che i naufraghi si trovavano accovacciati entro il cavo dell’albero, quando udirono a breve distanza un rumore strano che pareva prodotto dal sollevarsi e dal rompersi di un’ondata, seguito subito da sibili acutissimi.
Il mozzo che già da qualche po’ si sentiva tremare le gambe, guardò il signor di Correa, chiedendogli:
— È qualche grosso animale questo, signore?...
— Non te lo saprei dire giacchè io non riesco a scorgere nulla al di là della punta del mio naso, — rispose Alvaro. — Quello che potrei dirti è che comincio ad averne fino sopra i capelli delle foreste brasiliane e che vorrei conoscere un po’ da vicino questi animali che fischiano, che battono l’incudine, che suonano le campane e che rompono il sonno a tutti.
Io mi domando come gli abitanti di queste regioni possono dormire con tutto questo fracasso.
— Udite signore questo sibilo?
— Sì, Garcia. Che ci sia qualche gigantesco serpente qui presso?
— Io ho paura di quegli orribili rettili. Preferirei affrontare una bestia feroce, signor Alvaro.
— Dovremo abituarci alla loro vista, mio povero ragazzo. Il pilota mi ha narrato che nelle selve americane se ne trovano in gran numero e di quelli mostruosi.
— Quando finirà questa notte? Mi pare interminabile.
— Chiudi gli occhi e cerca di dormire, — disse Alvaro. — Veglierò io. —
Dormire? Non vi era da pensarvi! Il mozzo aveva appena abbassate le palpebre che un’orchestra infernale fece rintronare l’immensa foresta da una estremità all’altra.
Migliaia e migliaia di rane, come se avessero atteso un segnale, si erano messe a gracidare formando una cacofonia spaventevole che avrebbe svegliato anche un morto.
I batraci, come abbiamo detto, infestano a milioni e milioni le foreste umide e alla notte gareggiano con zelo invidiabile. Ve ne sono varie specie e non tutte si accontentano di gracidare. Vi sono batraci che muggiscono come buoi, rospi che abbaiano come cani, ranocchi che sembra si gargarizzino, altri che martellano come se avessero a loro disposizione migliaia di caldaie da accomodare e altri ancora che vivono sugli alberi, che fischiano come locomotive o che stridono come ruote malamente ingrassate.
Immaginarsi che baccano! I timpani meglio conformati non possono resistere.
— Signore! — esclamò il mozzo spaventato. — Che cosa succede? La fine del mondo?
— Non spaventarti, sono rospi, — rispose Alvaro.
— Si direbbe che vi sono fra loro cani, bufali, calderai e ubriachi che cantano.
— Ci abitueremo anche noi a questi concerti, se vorremmo dormire.
— Spero che non rimarremo a lungo in questo paese e che cercheremo un mezzo qualunque per andarcene.
— Era quello che mi chiedevo poco fa, — rispose Alvaro.
— Dove andremo noi e quando potremo andarcene? Suppongo che non avrete il desiderio di finire la vostra vita fra queste foreste.
— Anzi, nemmeno di terminare la mia esistenza su una graticola con un contorno di banani e di pere cotte.
— Non vi sono stabilimenti di europei su queste coste?
— Nemmeno uno, Garcia. Finora nessuno ha pensato a occupare il Brasile, quantunque appartenga a noi dopo che il nostro compatriota Cabral ne ha preso, pel primo, il possesso.
— Ho udito però raccontare che gli spagnoli si sono impadroniti di territori immensi.
— È vero, Garcia, però sono molto lontani da noi i posti spagnoli e dovremmo attraversare quasi tutta l’America meridionale prima di giungere al Perù.
— Un viaggio immenso?
— Di migliaia e migliaia di miglia attraverso foreste vergini abitate da tribù di antropofaghi e da belve d’ogni specie. Non mi sentirei l’animo abbastanza forte per tentare un simile viaggio. Ho udito a parlare invece di alcuni stabilimenti francesi che devono trovarsi al sud del Brasile, presso la foce d’un fiume immenso che si chiama la Plata. Si potrebbe tentare di raggiungerli.
— Saranno pure lontani.
— So che quel fiume si trova al sud, non saprei dirti a quale distanza da noi, — disse Alvaro.
— Ah! Signore! Credo che noi non usciremo più mai da queste selve e che non vedremo più mai nè il nostro Tago nè il viso d’un uomo bianco, — disse il mozzo sospirando.
— Non dispero. So che delle navi armate da negozianti dell’Havre, sono più volte giunte sulle spiagge del Brasile a caricare un certo legno chiamato verzino da cui si trae una tintura bellissima, rossa come la lacca. Chi sa che non possiamo vederne qualcuna a giungere nella baia.
— Allora, signore, non allontaniamoci da queste coste.
— Anzi non le perderemo di vista e faremo delle frequenti escursioni al sud ed al nord di quel magnifico porto. Ecco che i batraci cominciano a mostrarsi stanchi. Approfittiamo per gustare un po’ di riposo.
— E se qualche fiera approfittasse del nostro sonno per assalirci?
— Finora io non ho veduto altro che rane ed uccelli. E poi forse i pochi naviganti che sono approdati su queste coste, hanno esagerata la ferocia delle belve americane.
Teniamo il fucile fra le ginocchia e gli spadoni a fianco e dormiamo. —
Si rannicchiarono nel cavo della summaneira, l’uno presso l’altro e non tardarono ad addormentarsi, malgrado le loro apprensioni.
I batraci dopo essersi sfiatati per un paio d’ore, a poco a poco zittivano. Si udiva ancora che qualche salva di fischi o di muggiti, poi la foresta tornava silenziosa.
Al mattino i due naufraghi, che avevano dormito tranquillamente tre o quattro ore, furono svegliati da un altro concerto, meno assordante però, che si eseguiva fra i rami del gigantesco albero.
Era una banda di mahitaco, piccoli pappagalli dalla testa turchina e le penne verdi, incorreggibili chiacchieroni che gridano a piena gola per delle intere ore, senza mai un istante di tregua.
— In piedi, Garcia, — disse Alvaro stiracchiandosi le membra. — Il sole è già alto e la colazione forse ancora lontana mentre l’appetito è in aumento. Non dimentichiamo che il cuoco della caravella si trova nel ventricolo dei selvaggi.
— Dove andremo a cercarla, signore? — chiese il mozzo.
— Ci deve essere qualche stagno o qualche palude in questi dintorni, — rispose Alvaro. — Andiamo a esplorare verso il luogo ove le rane ed i rospi cantavano.
In mancanza di selvaggina ci accontenteremo di un buon arrosto di pesci. —
Raccolsero e divorarono alcune pinha, cambiarono la carica agli archibugi per tema che l’umidità della notte avesse guastata la polvere e appesisi i due barilotti si cacciarono in mezzo agli alberi.
In quel luogo la foresta non era più folta come nel tratto che avevano percorso il giorno precedente, essendo formata d’alberi d’alto fusto e di grossezza enorme che non potevano crescere gli uni accanto agli altri.
Erano palme gigantesche, alte più di sessanta metri, appartenenti a quella specie detta della cera perchè dal tronco e anche dalle foglie si estrae una materia grassa che serve benissimo alla fabbricazione delle candele.
Se ne trovano in gran numero nelle foreste brasiliane e anche sulle sierre dell’interno, potendo crescere fino ad un’altitudine di tremila metri, quindi anche sulla grande catena delle Cordigliere.
A quell’epoca gl’indiani non utilizzavano che le sue frutta, o meglio il germoglio, che è un cibo abbondante e sano, con un gusto delizioso che rammenta quello del carciofo e anche dello sparago e che essi trituravano e torrefacevano mescolandolo col latte estratto dal pao de raca.
Oggi invece forma la ricchezza delle tribù che posseggono i terreni su cui quelle piante preziose crescono, estraendosi molte cose di somma utilità da quei superbi vegetali. Si può anzi dire che tronco, foglie, radici, tutto serve ed è utile.
Nella sola provincia di Ceara, i fazenderi che hanno piantagioni di palme andicole, ricavano ogni anno non meno di novantamila arrobas di cera, ossia un milione e trecentoventidue chilogrammi, raccogliendola parte sulle foglie e parte nel tronco.
E non è il solo prodotto, come abbiamo detto. Si impiegano le foglie, che si prestano per un infinito genere di lavori, per fabbricare panieri, ceste, stuoie solidissime, cappelli, cordami e perfino delle stoffe grossolane e bruciandole ottengono anche un sale che è adoperato nella fabbricazione dei saponi.
E perfino dalle radici si ottiene un medicinale impiegato con buon successo nella guarigione delle malattie cutanee.
Alvaro ed il mozzo che non sospettavano nemmeno lontanamente la preziosità di quelle piante, solo occupati a cercarsi la colazione che sembrava molto lontana ancora, procedendo rapidamente giunsero ben presto su un terreno assai umido che cedeva facilmente sotto i loro piedi.
Canne smisurate cominciavano a prendere il posto delle palme, a ciuffi enormi, mescolate ad ammassi di cipò chumbo, specie di convolvulacee di color giallo e di cumarù dai fiori porporini e nelle cui bacche si trova chiusa la così detta fava tonka, usata dagl’indiani per profumare il tabacco.
Un numero infinito di uccelli garriva fra quei vegetali; ed in mezzo ai ceppi delle convolvulacee svolazzavano miriadi di quei vaghi uccellini chiamati beja flores, i famosi uccelli mosca o colibrì, colle penne superbe che riflettevano tutti i colori dell’arcobaleno: verdi, turchine, porporine e gialle a riflessi d’oro.
— Ci sarebbe da fare una frittata deliziosa, — disse il mozzo che osservava con vivo interesse quei minuscoli volatili che scomparivano interamente entro calici purpurei delle cumarù. — Come sono belli, signor Alvaro! Sembrano incrostati di perle preziose.
— Ammirabili davvero ma non valgono un buon pappagallo, — rispose il signor di Correa.
— Non ne mancano qui. Guardate su quell’albero quanti ve ne sono.
— E vedo anche delle bestiacce che fanno ribrezzo, fuggire attraverso i rami. Ah! Perdinci, come sono brutte! Che cosa saranno mai? —
Quelle che chiamava bestiacce, erano dei lagarti, orribili lucertoloni lunghi un buon metro, di color verde cupo, ma la cui pelle cambia sovente di tinta quando sono specialmente irritati, al pari dei camaleonti africani e che si tengono per lo più sugli alberi.
Sono velenosi, non però come le serpi e nondimeno la loro carne è mangiabile, anzi è ricercatissima essendo bianca e gustosa come quella dei polli e le cosce dei ranocchi.
Però anche se Alvaro l’avesse saputo, non avrebbe certamente avuto il coraggio di regalarsi per colazione una di quelle bestiacce, anzi temendo che fossero pericolose s’affrettò ad allontanarsi, facendo un gesto di disgusto.
La palude o lo stagno dovevano essere vicinissimi. Il terreno era saturo d’acqua e le canne aumentavano di passo in passo, mentre gli alberi diventano sempre più radi.
— Ecco laggiù l’acqua, — disse il mozzo che precedeva Alvaro. — Si direbbe che noi stiamo per giungere sulle rive d’un lago. —
Affrettarono il passo e si arrestarono dinanzi ad una vasta palude ingombra di piante palustri e di foglie immense che parevano piccole zattere, sulle quali passeggiavano gravemente numerosi trampolieri.
Più che una palude, doveva essere qualche savana sommersa, dal fondo forse pericolosissimo, senza consistenza veruna.
Aveva un circuito di parecchie miglia ed a malapena si potevano scorgere le piante che crescevano sulla riva opposta.
Qua e là si vedevano dei minuscoli isolotti coperti da palme e abitati da un numero infinito di uccelli, di cui, di japì e di choradeira che lanciavano le loro grida lamentevoli piene d’infinita tristezza.
— Che acque nere, — disse il mozzo. — Si direbbe che vi hanno versato dentro delle centinaia di botti d’inchiostro. Che vi possano vivere qui i pesci? —
Alvaro non rispose. Guardava con inquietudine un minuscolo isolotto coperto di canne che scivolava a fior d’acqua come se qualcuno lo spingesse e che stava eseguendo delle strane evoluzioni.
— Un isolotto galleggiante che cammina, — disse, additandolo al mozzo. — Eppure l’acqua è immobile e non soffia un alito d’aria.
— È vero, signore, — rispose il mozzo. — L’ho osservato anch’io.
— Che cosa possa essere?
— Che sia qualche indiano, signore?
— Sì, con una coda che potrebbe fracassarti le gambe, — disse Alvaro. — È un altro brutto bestione.
— Una bestia?...
— Un caimano od un alligatore.
— Con tutte quelle piante sul dorso?
— So che quei rettili di quando in quando si seppelliscono nel fango e che vi rimangono parecchio tempo in una specie di torpore profondissimo sicchè la piante che coprono il fondo delle paludi crescono anche fra le scaglie di quegli anfibi.
— Sono pericolosi?
— Talvolta, ma non dobbiamo spaventarci, Garcia. Eppoi non vedi che gira al largo senza fare attenzione a noi? Ah! I begli uccelli! Se provassi a fare un buon colpo?
— E la detonazione?
— Non abbiamo veduto finora altri indiani, quindi possiamo provare. —
Una nuvola di tucani con becco quanto come l’intero corpo, passava a cinquanta passi dai naufraghi.
Alvaro che aveva già al mattino caricato il fucile a pallettoni, mirò in mezzo al gruppo e fece fuoco.
Cinque o sei volatili caddero morti o feriti sopra un isolotto che si trovava a pochi passi dalla riva.
Il mozzo si era slanciato risolutamente in acqua, avendo osservato che il fondo si trovava solamente a qualche metro.
Ci teneva troppo all’arrosto per lasciarselo sfuggire.
Si era appena immerso e aveva percorsi una diecina di metri, quando un grido gli sfuggì, un grido che fece gelare il sangue ad Alvaro.
— Signore, aiuto! —