La Città dell'Oro/9. Una freccia mortale

Da Wikisource.
9. Una freccia mortale

../8. Le testuggini dell'Orenoco ../10. Fra i pecari e le mosche-cartone IncludiIntestazione 14 luglio 2020 100% Da definire

8. Le testuggini dell'Orenoco 10. Fra i pecari e le mosche-cartone

[p. 124 modifica]

IX.

Una freccia mortale.

I giorni seguenti, volendo affrettare la marcia per giungere alle grandi cateratte prima che il fiume toccasse la massima piena, avendo già da tre mesi cominciato il suo periodico innalzamento, navigarono quasi senza interruzione, non facendo che brevissime fermate per procacciarsi un po’ di carne fresca.

Più nulla di straordinario era accaduto. Degli indiani armati di fucile nulla avevano saputo, non avendoli più veduti, nè avendo incontrato nessun’altra banda di Ottomachi, sicchè li avevano dimenticati. Avevano invece superate le foci di numerosi e grossi fiumi che si riversavano con grande impeto nella grande fiumana.

Avevano già oltrepassato il Maniapure, grosso affluente di destra, che gli indiani chiamano Amarapuri, [p. 125 modifica]noto soltanto per una gigantesca cascata situata presso la sua sorgente, ma che produce tale fracasso da udirsi perfino alla foce; poi il Suapure più sotto, grosso affluente pieno di cascate e di passi assai pericolosi, che bagna un paese ricchissimo di mele selvatiche ed abitato dalla tribù dei Pafechi; quindi il Pao, il Cauxi, il Vacari, il Sinaruco, il Capure che viene considerato da taluni come un ramo del Meta e pel quale sarebbe disceso Barreo, il primo dei conquistatori spagnoli che tentò d’impadronirsi di quella immensa e ricca regione.

Dieci giorni dopo la loro partenza dalla piantagione, toccavano la foce del Cassanare, grande fiume che scaricasi nell’Orenoco venti leghe a settentrione del Meta, che si può navigare un mese intero senza toccare le sue sorgenti e che bagna un paese dei più fertili della Columbia.

Un tempo le sue sponde erano gremite di borgate erette dai gesuiti, ma gl’indiani ben presto le disertarono per ritornare all’antica vita selvaggia, ben più cara a loro della vita civile e sedentaria.

Anche sulle sponde dei fiumi vicini, sull’Urupi che lanciasi nell’Orenoco da una rupe altissima detta la Tigre, e sul Sinaruco, nel diciassettesimo secolo i gesuiti avevano raccolto in borgate le tribù dei Cirecoi [p. 126 modifica]e degli Jaruri, ma anche quelle ben presto scomparvero per opera della potente tribù dei Caribbi che già distrusse, nello scorso secolo, un grande numero di nazioni orenochesi, fino a che, a sua volta, venne poi fiaccata e per sempre, dalle grandi tribù alleate dei Caveri e dei Guipunavi.

Essendo la foce del Cassanare deserta e mancando la brezza, don Raffaele decise di arrestarsi una giornata per dare un po’ di riposo ai compagni ed anche per rifornirsi di carne fresca. Non voleva toccare le provviste di riserva che potevano diventare indispensabili durante la grande piena, nel caso che dovessero trovarsi, in quell’epoca, ancora sul fiume gigante.

Il luogo scelto per l’accampamento era l’estremità d’una penisola che divideva i due fiumi, ombreggiata da alcuni gruppi di candelabri (curopia), strani alberi, curiosissimi per la regolare disposizione dei loro rami e per le tinte argentine delle foglie e che producono frutti grossi quanto quelli degli alberi del pane, ma di forma più cilindrica.

Ancorata la scialuppa sulla sponda e assicurata solidamente per impedire alle correnti di trascinarla via, i viaggiatori tesero fra i rami degli alberi le loro comode amache per preservarsi dai serpenti che sono numerosissimi in quelle regioni. [p. 127 modifica]

Essendo già il sole prossimo al tramonto, rimandarono la battuta dei boschi all’indomani, contentandosi per quella sera d’un arrosto di pappagalli.

Erano in procinto di spegnere il fuoco per non attirare l’attenzione di qualche tribù d’indiani, persone più da temere che da avvicinare, quando l’acuto udito dell’indiano fu colpito da un legger rumore che si udiva in mezzo alle piante di legno cannone che costeggiavano una piccola palude non ancora visitata.

— Là, — diss’egli stendendo il braccio verso la palude.

— Uomo od animale? — chiese don Raffaele.

— Animale, — rispose l’indiano, sempre avaro di parole.

— È per te, Alonzo, — disse il piantatore.

— Quando si tratta di procurarci delle bistecche, sono sempre pronto, — rispose il giovanotto.

— Purchè non siano di giaguaro, — disse il dottore. — In tal caso, te le lascio, poichè, oltre essere pericolose a guadagnarsi, puzzano di selvatico.

— Molti animali, — disse Yaruri, che ascoltava sempre.

— Vieni, Yaruri, — disse Alonzo.

L’indiano si armò della sua cerbottana e di tre freccie e seguì il giovane cacciatore il quale si era già messo in cammino. [p. 128 modifica]

Faceva ancora abbastanza chiaro per poter distinguere la selvaggina, non essendo il sole ancora del tutto tramontato. Bisognava però affrettarsi, poichè sotto l’equatore il crepuscolo è di breve durata.

Procedendo rapidamente, pur con precauzione, in pochi minuti l’indiano ed Alonzo raggiunsero il margine della palude, la quale aveva una estensione notevole. Colà giunti videro che le piante di legno cannone si muovevano a circa quattrocento passi da loro, verso l’estremità della grande foresta che si stendeva sulle sponde dei due fiumi.

— Credo che siano tapiri, — disse Yaruri.

— Che animali sono? — chiese Alonzo.

— Grossi molto, ma la loro carne è un po’ coriacea.

— Sono pericolosi?

— Niente affatto.

— Allora li uccideremo più facilmente.

Approfittando degli ultimi bagliori del crepuscolo, girarono la palude e giunsero là dove si agitavano i fusti lucenti del legno cannone.

Un animale grosso come un vitello, ma col corpo male tagliato che rassomigliava a quello d’un maiale, con un muso allungato che terminava in una piccola proboscide, colla pelle rugosa come quella degli ippopotami e coperta di peli fini e radi sul dorso, ma più [p. 129 modifica]... andò a piantarsi nel tronco d’una palma.... (pag. 136). [p. 131 modifica]fitti sul collo e presso la coda, era occupato a masticare molto rumorosamente delle radici che cercava sott’acqua.

— Non mi ero ingannato, — disse Yaruri. — È un tapiro.

— Lo uccido con una palla nel cranio, — disse Alonzo.

Aveva già alzato il fucile, quando l’indiano glielo abbassò.

— Cos’hai? — chiese il giovanotto, sorpreso.

— Guarda!

— Non vedo nulla.

— Dietro al tapiro.

Alonzo alzò gli occhi e vide un oggetto nero lungo lungo, grosso come la coscia d’un uomo, sorgere dalla palude dietro al tapiro ed avanzarsi silenziosamente.

— Un serpente? — chiese Alonzo, rabbrividendo.

— Sì.

— Preferisco uccidere il serpente.

— È inutile.

— Perchè?

— Lo ucciderà il tapiro.

— Tu vuoi burlarmi. Nessun animale resiste alle strette terribili di quei serpenti d’acqua.

— Yaruri ha veduto i tapiri uccidere i serpenti. Guarda!... [p. 132 modifica]

Il serpente, un enorme boa acquatico, che doveva misurare l’incredibile lunghezza di dodici o tredici metri, si era rapidamente disteso ed in un baleno aveva stretta la vittima fra le sue potenti spire.

È noto che i boa, sia il constrictor che vive nelle regioni aride ed infuocate dell’America del Sud, come il scitale o anaconda che vive nelle paludi o lungo i fiumi, posseggono tale forza da stritolare, fra le loro anella, perfino i buoi. Nondimeno il tapiro, pur sentendosi a stringere, non sembrava per nulla spaventato.

Alonzo, che non lo perdeva di vista, lo vide ad un tratto impicciolirsi come se avesse emessa tutta l’aria che aveva nei polmoni, per gonfiarsi rapidamente e diventare una volta e mezza più grosso di prima. Il boa, che aveva stretto le anella, non ebbe il tempo di svolgerle. Si udì uno scricchiolìo come se la colonna vertebrale fosse stata bruscamente distaccata, poi il gigantesco serpente svincolò la coda e cadde al suolo come un pacco di biancheria umida.

— Il furbo! — esclamò una voce dietro ad Alonzo.

Era il dottore che li aveva raggiunti per vedere con quale specie di selvaggina avevano da fare.

— Ma ora gli mando una palla, — disse Alonzo.

— È inutile, giovanotto, non ne vale la pena. Quel povero tapiro è affatto inoffensivo e la sua carne è [p. 133 modifica]così secca e di gusto così sgradevole, che persino certe tribù indiane la sdegnano. Lascialo andare, che si è meritata l’esistenza.

— Pure mi hanno detto che gl’indiani la cacciano attivamente.

— Sì, ma per averne la pelle, la quale, essendo molto resistente, serve per fabbricare scudi e delle ottime scarpe.

— Ma che animali sono questi tapiri? Che esistenza conducono? Non sono carnivori?

— Sono solitari, di umore piuttosto malinconico e niente affatto carnivori; perciò inoffensivi. Vivono isolati in fondo alle più folte foreste che non abbandonano che al tramonto per recarsi nelle paludi. Talvolta, durante i giorni piovosi, escono anche di giorno, ma di rado però. Sono dei veri anfibi, poichè prediligono l’acqua e vi s’immergono con facilità per cercare il loro nutrimento il quale consiste in radici acquatiche che scavano con quella corta proboscide che tu vedi mobilissima.

— È vero, dottore, che i tapiri formano delle strade in mezzo ai boschi?

— Sì, Alonzo. Facendo sempre la medesima via dal loro covo alla palude più vicina e così pure nel ritorno, senza mai deviare d’una linea, finiscono col [p. 134 modifica]tracciare in mezzo ai boschi dei veri sentieri che diventano molto pericolosi per loro, poichè i cacciatori ne approfittano per trovare i covi degli animali.

— Somigliano ai porci per abitudini? Vedo che quel tapiro si diverte ad avvoltolarsi nel fango come un vero maiale.

— T’inganni, poichè invece sono assai puliti. Quando si sarà bene inzaccherato di fango si laverà per bene.

— Ma ditemi, dottore, come ha fatto a uccidere quel serpente?

— Quel boa acquatico?... È un modo che i soli tapiri possono usare, poichè quegli anaconda, così si chiamano quei pericolosi serpenti, posseggono tale forza da stritolare perfino i giaguari. Avendo i tapiri dei polmoni enormi, appena si sentono afferrare emettono tutta l’aria diventando più piccini. I serpenti ne approfittano per stringere di più, ma allora gli altri riempiono rapidamente i polmoni, si gonfiano d’un tratto e in tal modo spezzano gli anelli vertebrali dei nemici.

— Un sistema molto curioso.

— Ma molto utile, lo hai veduto, Alonzo, e se...

Un grido acuto echeggiato in mezzo alla cupa foresta, gli tagliò la frase. Era ancora quel grido enigmatico, strano, che avevano già udito e che rassomigliava a quello del tucano, ma assai più potente. [p. 135 modifica]

Yaruri era balzato innanzi emettendo una sorda esclamazione.

— Ancora! — disse il dottore, aggrottando la fronte.

— Ma è un segnale adunque? — chiese Alonzo.

— Sì, un segnale, — disse Velasco.

— Qualcuno adunque ci segue o ci precede.

— Lo temo, Alonzo.

— Ma che non si possa scoprirlo?

— Chi lo troverebbe in mezzo a queste foreste oscure?

— Ma domani farà chiaro e cercheremo l’autore o gli autori di questi segnali.

— Se questa notte non fuggiranno.

— Sorveglieremo le sponde del fiume.

Yaruri era tornato verso di loro: era inquieto ed in preda ad una viva emozione.

— Hai veduto nulla? — gli chiese Velasco.

— No.

— Ma chi credi che siano?

— Un indiano tutto non può sapere.

— Ritorniamo all’accampamento, — disse Alonzo. — Non è prudente lasciare solo mio cugino.

— Hai ragione, Alonzo.

Si misero in cammino costeggiando la palude, tenendo in mano le armi per essere pronti a respingere qualunque aggressione. [p. 136 modifica]

Avevano già percorso duecento passi, quando Yaruri s’arrestò bruscamente. Un uccello si era alzato rumorosamente, forse un grosso pappagallo od una arà emettendo un grido di spavento.

Si era levato a trenta o quaranta passi di distanza verso la loro destra.

Ad un tratto si udì un sibilo appena percettibile ed un cannello adorno all’estremità d’un piccolo tappo di midolla di legno cannone, andò a piantarsi nel tronco d’una palma, a due soli pollici dal capo di Yaruri.

— Una freccia! — aveva esclamato il dottore. — Fuoco, Alonzo.

Fecero fuoco a casaccio verso la direzione ove era venuto quel messaggero di morte. Appena cessate le due detonazioni, udirono uno spezzarsi di rami, poi più nulla.

L’indiano si era scagliato in mezzo alla foresta brandendo la sua cerbottana, ma si era subito trovato dinanzi ad una muraglia di verzura così fitta e così irta di spine, che aveva dovuto arrestarsi e tornare indietro.

Staccò la freccia che era formata d’un leggero cannello terminante in un’acuta spina e se la mise sulle labbra.

— È intinta nel curare, — diss’egli, sputando. [p. 137 modifica]

— Ma ti avveleni! — esclamò Alonzo.

— Non temere, — disse il dottore. — Il curare è mortale solamente se si mescola al sangue dell’uomo colpito, ma si può assaggiarlo impunemente.

— Era destinata a noi quella freccia?

— A Yaruri, — disse il dottore. — Gl’indiani non falliscono mai e se l’avessero destinata a noi, saremmo stati colpiti. Fortunatamente il nostro indiano ha udito il sibilo a tempo ed ha potuto evitarla.

— Qualcuno adunque ha interesse a sopprimere Yaruri?

— Così la penso anch’io.

— Ma a quale scopo? Perchè lui invece di noi?

— Per privarci della guida che ci conduce alla città dell’oro; tale è il mio sospetto. Affrettiamoci a ritornare prima che ci piova addosso qualche altra freccia.

Si ripiegarono in fretta verso la sponda dove trovarono don Raffaele assai inquieto ed in procinto di raggiungerli. Informato di ciò che era avvenuto, approvò la proposta del dottore di vegliare attentamente sul fiume e l’indomani battere la foresta per cercar di scoprire quei nemici misteriosi.