La Cuccagna

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Quirico Rossi

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Questo testo fa parte della raccolta Poemetti italiani, vol. X


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LA CUCAGNA


POEMETTO


DEL PADRE


QUIRICO ROSSI


Non quella che portò la Greca armata
Al gran conquisto dell’aurata pelle;
Non quella che con Elena rubata
Portò all’antica Troia arme, e facelle;
Non quella che dal Lana fu inventata
Per salir vivo a le superne stelle;
Ma quella nave, a cui si debbe il vanto
D’aver scoperta la cucagna, io canto.

     Nave felice! al cui lavoro intenta
Fu Cibelle la Dea di tutti i Dei,
Nave, che a noi la torta, e la polenta
E i pasticci recasti, e i vermicei
E i migliacci, di cui non fia mai spenta
La bell’arte e l’usanza a’ giorni miei,
Non isdegnar se de’ tuoi pregi in parte
Oggi m’accingo a schiccherar le carte.

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     Tornato già (per cominciar la storia)
Da l’oriente soggiogato, e vinto
Bacco di spoglie ostili e più di gloria
Che di pampini, e d’uve il capo avvinto,
La capitana sua, detta Vittoria
Di nuovi regni dal desio sospinto
Dal porto dei Ghiotton presso la Magna
Sciolse improvviso a ricercar Cucagna.

     Piena la sciolse d’oriental tesori,
Onde ville, e cittadi avea predate,
D’ardenti gemme onusta, e schietti avori
Di vesti d’or tessute, e ricamate
Da se tolte agli Indiani, a i Persi, a i Mori
Al Re Balorsa, e al Re Cizguzzarate,
Che furo al tempo quando in le bottacce
Si mettea il pane, e il vin nelle bisacce.

     Salpò la nave, e d’uno ad altro andava
De’ molti liti, che il gran mar circonda
Ne le darsene tutte, u’ s’approdava
Spinta dal fiotto, o dal favor de l’onda,
Or uno, ed or un altro ella lasciava
Degli arnesi onde avea grave la sponda;
E molte ne lasciò ricche per modo,
Che ricche anch’oggi son per quanto io n’odo.

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     Ma i pensier vostri altrove non volgete,
E della nave mia seguiamo il corso;
De la nave, che come inteso avete
Lungo spazio di mare avea trascorso;
Nè però ancor le fortunate, e liete
Piagge, e de’ monti butirosi il dorso
Scoprir poteva, e s’aggirava intanto,
Non vi saprei ben dir dove, nè quanto.

     Quand’ecco Gradellin che alla velletta
Stava inteso a spiar ogni confine
Vide da lungi biancheggiar la vetta
D’alcune clementissime colline
Così coperte di ricotta schietta
Come le nostre di nevose brine,
E Cucagna, gridò, se non traveggo
Cucagna, amici miei, Cucagna io veggo.

     Cucagna, s’udì tosto a ripigliare,
Da la festosa ciurma, e da’ soldati,
Cucagna, rispondean gli scogli, e il mare;
Cucagna il cielo, e i venti imbalsamati
Di mille odor soavi, e senza pare
Che spirando venian di tutti i lati,
Non d’incenso, di mirra, ovver di costo,
Ma di salami, e di bragiuole arrosto.

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     I passeggier come se avesser penne
Impazienti di veder la terra
Salgono a gara le superbe antenne,
Chi l’artimone, e chi il trinchetto afferra
Alle girelle alcun stretto si tenne
Gridando all’armi all’armi, guerra guerra.
E in questo dir l’avventurosa armata
All’isola felice era arrivata.

     Chi mi darà le voci, e le parole
Convenienti a sì nobil soggetto?
Chi l’ali al verso presterà che vole
” Tanto ch’arrivi all’alto mio concetto?
Ben or si converrìa di mondiole
Armar la pancia, e rafforzar il petto,
Che cantar deggio i colli, e la campagna
Della non più veduta alma Cucagna.

     Fiumi di burro a tutte le stagioni
Scorrendo vanno, e dilagando i prati
Dove nascon per erba i maccheroni,
E per ghiaia ravioli maritati;
Ed anitre, e pollastri, oche, e capponi
Di fritelle pasciuti, e saginati,
Che penne avendo di lasagne intorno
Volano al quietissimo soggiorno.

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     Sorge un colle nomato ivi Bengodi
Dove di latte una fontana spiccia;
Ombra vi fan le viti in vari modi
Altre erranti, altre avvinte di salsiccia,
Che mettono un salame a tutti i nodi,
Ed in luogo di foglie han trippa riccia,
A concimar la vigna, e il colle tutto:
Quivi il lardo s’adopera, e lo strutto.

     Le quercie che del sol frangono il raggio,
Hanno per ghiande ritondetti gnochi,
I quali giù tornando nel formaggio
(Ch’altra sabbia non trovasi in que’ lochi)
Invitano ciascun a farne il saggio,
Nè v’ha mestier di Guatteri, e di Cuochi,
Perchè d’un ventolino al caldo fiato
Tutto corto ivi nasce, e stagionato.

     Vinto all’odor di tali cose, e tante
De la nave ciascun tosto si slancia,
E a’ dolci cibi, che si vede innante
Troppo piccola aver duolsi la pancia.
Ciascuno brameria d’esser gigante
In questa guerra, o Paladin di Francia;
Ciascun quanto più può distende il ventre,
Acciò più torta, o più polenta v’entre.

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     Nel butiro talun si gitta a noto,
E vi s’immerge, e vi diguazza drento;
Sotto le quercie alcun sdraiato, e immoto
Stassi aspettando il susurrar del vento,
Onde cadono i gnochi, e ad ogni moto
Alza repente il naso, e abbassa il mento.
Ogn’uno in somma lietamente obblia
La noia, e il mal de la passata via.

     Ripieni tutti ormai di maccheroni
Diedero fiato ai musical stromenti;
Il grato risonar de’ pifferoni
Movea le rupi, ed arrestava i venti;
Le valli intorno, gl’antri, ed i burroni
Eco faceano ai non usati accenti.
Ma il trombetta dall’alto il segno diede
Di far ritorno alla paterna fede.

     Trasse ognuno alla nave, e seco prese
Alcuna cosa del paese estrano;
Tolse indi la busecca il Milanese,
E un paio di fiadon tolse il Bresciano.
Ad un querciuolo il Lodeggian sospese
Una forma di caccio; il Parmiggiano
Due spallette portonne, e i suoi granelli
Portò il Romano, e il Piacentin tortelli.

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     Di salsiccia gravosse il Vicentino
E prese il Vinizian buzzolai forti;
Due marzolini scelse il Fiorentino
Che avrian potuto suscitar i morti;
Il Carpiggiano di mostarda un tino;
Mele cotte il Felsineo di più sorti,
Torone il Cremonese, e il Bergamasco
Confetti, e gli nascose entro d’un fiasco.

     E già del Cucagnesco amato regno
Sciolta la fune (perchè star non lece)
Per le salse onde discorreva il legno,
Unto ben d’altro, che di raggia, e pece;
Tratte all’odor venian senza ritegno
Le scaltre Ninfe a sette, ad otto, a diece:
E il gran padre Ocean, che stava in letto,
Senza porsi i calzon, corse in farsetto.

     Bello a veder tutti i marini Dei
Guizzar d’attorno, e gir lambendo i lati!
Non mai che io mi ricordi a’ giorni miei
(Disse Nettun ) passò per questi stati
Sì ricca nave; e pur da’ Nabatei,
Dagli Arabi, dagli Indi colorati,
Dal Perso, dal Sabeo, dal Garamanta
Ne vengono ogni di più di millanta.

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     Va che dal ciel converse in lor le stelle
Piovan sopra di te benigni influssi:
Vanne franca da dazj, e da gabelle
Qual se d’un nobil Vinizian tu fussi.
Se i zaffi t’arrestasser, le budelle
S’indurin loro più che sterpi, o bussi;
Onde non possan più ber, nè mangiare,
Nè far cosa che allor foss’uopo a fare.

     Così dicea Nettun; del legno intanto,
Come scoglio l’avesse urtato, e scosso,
Sonò di fuora un lamentevol pianto
Di gente che gridava a più non posso:
Oimè! crepo, oimè! scoppio, oimè! mi schianto
Pietà, soccorso, aita! oimè commosso
L’alvo mi sento! oimè la pancia mia!
Ripienezza, ostruzion, dissenteria.

     Agguagliar non si può con le parole
Il doloroso, e miserando stato
A che d’esser condotto ognun si dole,
Perchè in Cucagna avea troppo mangiato;
In lutto sono volte le carole,
E veggonsi malati in ogni lato,
Un su la piazza giace, uno in sentina,
Chi su la poppa, e chi sotto schiavina.

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     Come se avvien talor che una gran frotta
Di sorci infra gl’orror d’ombra notturna
O l’arsenico, ovver la rabbia inghiotta,
Che la fantesca pose in piato, o in urna,
Nel tornare che fanno alla lor grotta
Fiammeggiando già in ciel l’ora diurna,
Chi cade qua, chi là, chi su, chi giù
Attossicato con la pancia in su.

     In guisa tal soldati, e passeggeri
Per la nave giacean di color privi:
Se non che al rutto, e al ventilar leggeri
Davano indizio, che erano pur vivi.
Discorre il Capitan per li quartieri,
Dalle ciglia versando umidi rivi.
Seco non ave medicina, e vede,
Che prende il morbo rio sempre più piede.

     Dopo lungo penare immantinente
La prua rivolge a la vicina terra;
L’ancora curva con l’adunco dente
Morde l’arena, e il cheto lido afferra,
Quivi un’Isola d’erbe e fior ridente
Posta tra la Zelanda, e l’Inghilterra,
Lentamente sorgea facile, e piana
Dagli antichi scrittor detta Bottana.

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     Al Duca stesso a domandar del medico
Si fece incontro un Isolan cortese:
Signor, disse, ogni morbo io curo, e medico
Con l’erbe naturali del paese;
Ho meco i libri del famoso Empedico,
Che i gran secreti di natura intese:
Con un semplice mio sano di botto
Mal, per cui spendereste il crudo, e il cotto.

     Un mal per cui vi converrebbe un anno
Guardar il letto, e prender beveroni
Che oltre al metter lo stomaco in affanno
V’obbligan di calar sempre i calzoni:
Pillole, cassia, manne, ed il malanno,
Cose che col guastar le complessioni
Alla morte vi portan di galoppo,
Non vaglion quanto val un mio sciloppo.

     Con un sciloppo, o con la polve io dico
Di corregiuola, d’echio, d’urinaria,
Di mercorella, d’aro, d’onobrico,
D’orchide, di castrangola, d’erniaria,
Di leucoia, d’altea, di caprifico,
D’orizza, di cacaglia, e vizicaria,
Di buglosso, e coriandro, e che so io,
Curo ogni morbo pertinace, e rio.

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     Subito do vossignoria guarita
Dal cattar, dalla tosse, dalla tigna,
Dal reuma, da una grande pituita,
Dal carboncol, dal foco di Ciprigna,
Da un cancro, da una piaga infistolita,
Da polmonea, da una febre maligna,
Da sordità, e flussion ne la mascella,
Da rottura, da gotta, e da renella.

     Ho meco privilegi in pergamena
Di Duchi, di Regine, e Imperadori,
Che (senza fermar lor pranzo, nè cena)
Più volte de la tomba ho tratto fuori;
E se voluto avessi quest’amena
Isola abbandonar, tanti tesori
Accumular potea, che avrei comprato
Nella Spagna ancor io qualche Grandato.

     Stordito il Duce ad un parlar sì schietto:
Spedite, disse, a ricercar alcuna
Di quest’erbe possenti, e vi prometto
A chi le recherà pagarne ognuna
Con premio tal, che non l’avrà a dispetto.
Ma sieno colte al punto della luna,
Come fa d’uopo al gran bisogno mio:
Torno a la nave, ivi v’attendo, addio.