La Secchia rapita/Canto quinto

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Canto quinto

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Canto quarto Canto sesto


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la


SECCHIA RAPITA


CANTO QUINTO.

________


ARGOMENTO.


È preso Castelfranco: e con auspici
     Poco fausti a Bologna il nunzio giunto,
     De’ Bolognesi e de’ paesi amici
     4Vede marciar l’esercito congiunto,
     Che ’l dì seguente addosso agl’inimici
     Giunge improvviso e di battaglia in punto.
     E ’l Potta anch’ei dall’espugnate mura
     8Tragge e schiera il suo campo alla pianura.

I.


Già il termine prescritto era passato,
     Nè la piazza Nasidio ancor rendea,
     Da contrassegni e lettere avvisato
     12Che l’esercito amico uscir dovea.
     Il Potta che si vide esser gabbato,
     Ne consultò col re vendetta rea;
     E l’alba era ancor dubbia, e ’l cielo oscuro,
     16Quando assaltò da cento parti il muro.

II.


Rimasero i Tedeschi, e i Cremonesi
     Che da Bosio Duara1 eran guidati,
     E la cavalleria de’ Modanesi,
     20Con loro insegne alla campagna armati.
     Il Potta avea de’ suoi gli animi accesi
     Con premi utili insieme ed onorati;
     Promettendo a colui ch’era di loro
     24Primo a salir, duemila scudi d’oro:

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III.


Mille n’avea al secondo, e cinquecento
     Promessi al terzo, onde correa a salire
     E a far di suo valore esperimento,
     28Stimulando ciascun la forza e l’ire.
     Ma l’inimico, in così gran spavento,
     Si difendea con disperato ardire,
     Sicuro omai di non trovar mercede
     32Dopo l’error della mancata fede.

IV.


Pioggia cadea dalle merlate mura
     Di saette e di pietre aspra e mortale:
     Ma con sembianza intrepida e sicura
     36Movea l’assalitor macchine e scale.
     I mangani al ferir maggior paura
     Facean da lunge, e irreparabil male;
     Che subito ch’alcun scopriva il busto,
     40Mastro Pasquin te l’imbroccava giusto.

V.


Non credo ch’Archimede a Siracusa
     Facesse di costui prove più leste.
     Fra gli altri colpi suoi nota la Musa,
     44Ch’un certo Bastían da Sant’Oreste,
     Sbracato, lo schernía, siccome s’usa,
     Mostrandogli le parti poco oneste:
     Ed egli tosto gli aggiustò un quadrello
     48Nel foro a pel dell’ultimo budello.

VI.


Rinforzossi tre volte il fiero assalto;
     Sottentrando a vicenda ordini e schiere;
     E giù nel fosso, e su nel muro ad alto
     52Morti infiniti si vedean cadere:
     Quando il fiero Ramberto ergendo in alto
     Una scala, di man trasse all’alfiere
     L’insegna; e ’ntanto i suoi colle balestre
     56Disgombravano i merli e le finestre.

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VII.


Sandrin Pedoca, e Batistin Panzetta,
     E Luca Ponticel gli furo appresso,
     Fu morto il Ponticel d’una saetta
     60Ch’uscì di man di Berlinghier dal Gesso.
     Ma Ramberto salito in sulla vetta,
     Si trovò incontro il capitano istesso,
     Ch’armato d’una ronca era venuto,
     64Correndo, in quella parte a dare aiuto.

VIII.


Tosto ch’ei può fermar tra’ merli il piede,
     Pianta l’insegna, e oppone il forte scudo
     A Nasidio che l’urta e che lo fiede
     68Colla ronca a due man d’un colpo crudo.
     L’aspra percossa ogni riparo eccede,
     L’armi distrugge, e lascia il braccio ignudo
     E ferito a Ramberto, e ’l cor ripieno
     72Di furore di rabbia e di veleno.

IX.


A Nasidio s’avventa, e con le braccia
     Pria nella gola, indi ne’ fianchi il cigne.
     Nasidio ratto anch’ei seco s’abbraccia,
     76Lascia la ronca, e al paragon si strigne.
     L’uno di qua, l’altro di là procaccia
     D’atterrare il nemico, e lo sospigne;
     Gli avviticchia le gambe, e lo raggira;
     80Or l’urta a destra, or a sinistra il tira.

X.


Grida Nasidio, che il guerrier sia preso,
     O quivi in braccio a lui di vita casso.
     Egli di rabbia e di furore acceso,
     84L’alza sul petto e tira indietro il passo,
     E sull’orlo del muro il tien sospeso;
     Indi si lancia a precipizio abbasso.
     Gesù chiama per aria in suo sussidio
     88Il discendente del famoso Ovidio.

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XI.


Giù nella fossa in loco assai profondo
     Giaceva appiè dell’assalite mura
     Una gran massa di pantano immondo,
     92E di fracido stabbio e di bruttura.
     Quivi caddero entrambo, e andaro al fondo;
     E d’abito mutati e di figura,
     Tornar senz’altro danno a rivedere
     96L’almo splendor delle celesti sfere.

XII.


E di nuovo correan per azzuffarsi,
     Come due verri2 d’ira e d’odio ardenti
     Corron nella belletta3 ad affrontarsi
     100Con dispettosi grifi e torti denti:
     Ma i soldati potteschi intorno sparsi,
     Furon lor sopra a quel fier atto intenti,
     E dalle man del vincitore altero
     104Trasser Nasidio vivo e prigioniero.

XIII.4


Fu condotto Nasidio innanzi al Potta
     Che lo fece castrar subitamente
     Per ricordanza della fede rotta,
     108E per esempio alla futura gente:
     Ed alla cima del gran naso, a un’otta,
     Con un filo d’acciar fatto rovente
     Gli fe’ attaccare i testimoni freschi
     112De’ malsortiti suoi tiri furbeschi.

XIV.


La bandiera frattanto era spiegata,
     Che Ramberto al salir trasse con esso,
     Da Batistino e da Sandrin guardata
     116E da molti altri che saliro appresso.
     Ma contesa in quel luogo era l’entrata
     Dall’inimico stuol sì folto e spesso,
     Che quivi si facea tutta la guerra,
     120Nè si potea calar giù nella terra.

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XV.


Ed ecco in sulla fossa al gran Voluce
     Improvvisa apparir la Dea d’Amore,
     Chiusa d’un nembo d’or, cinta di luce,
     124Ed infiammargli alla battaglia il core.
     Preso gli mostra il miserabil duce,
     E l’inimico stuol pien di terrore,
     Tutto rivolto alla bandiera alzata,
     128E la vicina porta abbandonata.

XVI.


Al magnanimo cor basta sol questo,
     E l’usato valor dentro raccende.
     Volge lo sguardo a’ suoi soldati presto,
     132E seco il fior de’ più lodati prende.
     Corre alla porta: e ne’ compagni è desto
     Emulo ardor ch’agli animi s’apprende;
     Onde Folco, Attolino e Bagarotto
     136Corrono anch’essi, e fanno agli altri motto.

XVII.


Egli infiammato di feroce sdegno
     Sta sulla soglia minacciando morte,
     E con una bipenne il duro legno
     140Percuote, e risonar fa l’alte porte.
     Mettono gli altri un ariete a segno,
     E ’l sospingon con impeto sì forte,
     Che già l’imposte e le bandelle sono
     144Tutte allentate, e ne rimbomba il suono.

XVIII.


Quei pochi ch’ivi in guardia eran fermati,
     Lanciano sassi, e mettono puntelli;
     E di paura afflitti e sconcacati,
     148Vanno mirando a questi buchi e a quelli.
     Ma dal fiero cozzar rotti e spezzati,
     Già cadono le spranghe e i chiavistelli;
     E Voluce dai gangheri a fracasso
     152Getta la porta tutt’a un tempo abbasso.

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XIX.


Come al cader di quella sacra avviene,
     Ch’ad ogni cinque lustri apre il gran padre,
     Quando la gente di lontan sen viene
     156A Roma a riverir l’antica madre;
     Che non giovan le sbarre e le catene
     A trattener le peregrine squadre
     Ch’inondano a diluvio; e chi s’arresta,
     160Lo soffoga la turba e lo calpesta:

XX.


Tale, al cader delle nemiche porte,
     L’impetuosa turba inonda e passa;
     E di pianto, d’orror, di sangue e morte
     164Ogni cosa al passar confusa lassa.
     Il feroce e l’imbelle ad una sorte
     Cade: ogn’incontro il vincitor fracassa.
     Fugge il vinto, e s’appiatta, o l’armi cede,
     168E s’inginocchia a domandar mercede:

XXI.


Ma non trova mercè nè cortesia,
     E invan s’inchina, e invan la vita chiede:
     Il Potta vuol che Castelfranco sia
     172Esempio eterno a non mancar di fede.
     Furore ha luogo; ogni pietà s’oblía:
     Veggonsi in ogni parte incendi e prede;
     E cade in poca cenere un castello,
     176Di cui non era in Lombardia il più bello.

XXII.


E già sulle ruine il vincitore,
     Dal lungo faticar stanco, sedea;
     Quand’ecco di lontan s’udì un romore
     180Che rimbombar d’intorno il pian facea.
     Venía il campo nemico a gran furore,
     Che ’l periglio de’ suoi già inteso avea;
     Ed era quel che la foresta e i lidi
     184Fea risonar di trombe e corni e gridi.

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XXIII.


Musa, tu che cantasti i fatti egregi
     Del re de’ Topi, e delle Rane antiche,5
     Sì, che ne sono ancor fioriti i fregi
     188Là per le piagge d’Elicona apriche;
     Tu dimmi i nomi e la possanza e i pregi
     Delle superbe nazíon nemiche
     Ch’uniron l’armi a danno ed a ruina
     192Della città della salciccia fina.6

XXIV.


Posciachè gli apparecchi e la contesa
     Di Bologna la fama intorno sparse,
     Trasse il desio di così degna impresa
     196Quattordici città seco ad armarse.
     Tremò l’Imperio, e invigorì la Chiesa;
     Sentì l’Italia in freddo giel cangiarse:
     E credo che ’l soldan de’ Mammalucchi
     200Ne mandasse ragguaglio al re de’ Cucchi.

XXV.


Il papa ch’era padre e protettore
     Della parte de’ Guelfi, e della Chiesa;
     Avendo udito in Francia il gran romore
     204E la cagion di sí crudel contesa,
     Per aggiungere a’ suoi fede e valore,
     Spedì subito nunzio a quell’impresa,
     Da Vienna, un suo domestico prelato
     208Che monsignor Querenghi era nomato.

XXVI.


Questi era in varie lingue uom principale,
     Poeta singular tosco e latino,
     Grand’ orator, filosofo morale,
     212E tutto a mente avea sant’Agostino.
     Ma il papa non lo fece cardinale
     Che ’n sospetto gli entrò di Ghibellino,
     Dopoch’ei ritornò di nunziatura:
     216E perdè la fatica e la ventura.

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XXVII.7


Nocquegli ancora l’esser padovano,
     Suddito d’Ezzelin, benchè innocente;
     Non volendo il Pontefice romano
     220Aver fede ad alcun di quella gente.
     Ma certo ei fu prelato e cortigiano,
     Fra gli altri in quell’età, molto eminente:
     E dallo sprezzo d’uom sì saggio e prode
     224Il Papa non ritrasse alcuna lode.

XXVIII.


Egli partì da Vienna in sulle poste:
     E nel passar dell’Alpi, a un ponte rotto,
     Il perfido caval per certe coste
     228Lasciò cadersi, e non gli fece motto;
     Anzi da discortese e bestia d’oste,
     Stava di sopra, e Monsignor di sotto:
     Onde la nunziatura indi levata,
     232Con mal augurio fu mezzo spallata.

XXIX.


Quivi ei montò in lettiga; e seguitando
     Con una spalla fuor d’architettura,
     Giunse appunto a Bologna il giorno quando
     236L’esercito uscía fuora alla ventura.
     Si fe’ porre il rocchetto, in arrivando,
     Da don Santi, e salì sopra le mura
     Dove all’uscir della città, le schiere
     240Chinavano a’ suoi piè lance e bandiere.

XXX.


Ed egli colla man sovra i campioni
     Dell’amica assemblea, tutto cortese,
     Trinciava certe benedizioni,
     244Che pigliavano un miglio di paese.
     Quando la gente vide quei crocioni,
     Subito le ginocchia in terra stese,
     Gridando: Viva il Papa e Bonsignore,
     248E muoia Federico imperadore.

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XXXI.


Ma perchè la man destra avea fasciata,
     E gli benedicea colla mancina,
     Fu scritto al Papa, ch’egli avea mandata
     252Una persona marcia ghibellina.
     Or basta: in ordinanza usciva armata
     La gente; e prima fu la perugina,
     Tremila che mandati avea la Chiesa
     256Col capitan Paulucci a quell’impresa.

XXXII.8


Questi di cortegian fatto soldato,
     Disertò gli Ugonotti e i Calvinisti,
     Fe’ vermiglia la Schelda; indi passato
     260In Francia, guerreggiò co’ Navarristi:
     Navigò nel Danubio; e alfin voltato
     In occidente a più sublimi acquisti,
     Fra i monti Pirenei passò in Ispagna,
     264E riportò per mar guanti9 d’Ocagna.10

XXXIII.


L’armatura dorata e rilucente
     Con sopravveste avea cangiante e varia;
     E camminava sì leggiadramente,
     268Che parea ch’ei ballasse una canaria.
     Disperata guidava e altera gente
     Che la fortuna amica e la contraria
     Egualmente disprezza, e si diletta
     272Sol di sangue, di morte e di vendetta.

XXXIV.


Seguía l’insegna di Milano, e avea
     Gran gente in sulle scarpe e in su le selle,
     Ch’ovunque il guardo di lontan volgea,
     276Rincarava le trippe e le frittelle.
     Seimila pacchiarotti11 a piè reggea
     Marione di Marmotta Tagliapelle:
     Mille cavalli avean per capitani
     280Galeazzo e Martin de’ Torriani.

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XXXV.


La terza insegna fu de’ Fiorentini
     Con cinquemila tra cavalli e fanti
     Che conduceano Anton Francesco Dini,
     284E Averardo di Baccio Cavalcanti.
     Non s’usavano starne e marzolini,
     Nè polli d’India allor, nè vin di Chianti:
     Ma le lor vittuaglie eran caciole,
     288Noci e castagne, e sorbe secche al sole.

XXXVI.


E di queste n’avean con le bigonce
     Mille asinelli al dipartir carcati,
     Acciò per quelle strade alpestre e sconce
     292Non patisser di fame i lor soldati:
     Ma le some coperte in guisa e conce
     Avean con panni d’un color segnati,
     Che facean di lontan mostra pomposa
     296Di salmerìa superba e prezíosa.

XXXVII.


Ma più di queste numerosa molto
     La quarta schiera e bella in vista uscía.
     La gran Donna del Po,12 tutto raccolto
     300Quivi di sua milizia il fiore avía.
     La ricca gioventù, superba in volto,
     Di porpora e di fregi ornata gía.
     Fiammeggia l’oro, ondeggiano i cimieri:
     304Passano i fanti armati e i cavalieri.

XXXVIII.


Tremila i cavalier sono, e due tanti
     Premon col piè della gran madre il dorso:
     Maurelio Turchi è il capitan de’ fanti;
     308E de’ cavalli il Bevilacqua Borso.
     Ma splende sovra questi e sovra quanti
     Vengono di Bologna al gran soccorso,
     Il magnanimo cor di Salinguerra
     312Che fa del nome suo tremar la terra.

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XXXIX.


Occupata di fresco avea Ferrara
     Salinguerra, e nemico era alla Chiesa,
     Ma i Petroni l’avean solo per gara
     316Tratto con larghi doni in lor difesa.
     Il Nunzio che sapea la cosa chiara,
     Tenne sopra di lui la man sospesa:
     Lasciò passarlo, e poi segnò la croce;
     320Ma se n’avvide e rise il cor feroce.

XL.


Ha seco il fior della Romagna bassa,
     Che volontaria segue i segni suoi,
     Lugo, Bagnacavallo, Argenta e Massa,
     324Cotognola13 e Barbian madri d’eroi.
     Questa gente coll’altra unita passa;
     Ma sua chiara virtù la scevra poi,
     È ’l capitan che la conduce a piede,
     328Faceo Milani, uom d’incorrotta fede.

XLI.


Ravenna e Cervia, sotto una bandiera,
     Seguono i Ferraresi a mano a mano,
     Di lance e spiedi armate alla leggiera:
     332E Guido da Polenta è il capitano.
     Di Cervia sol la numerosa schiera
     Potea ingombrar per molte miglia il piano,
     Se non spargeano l’aria e ’l sito immondo
     336I cittadini suoi per tutto il mondo.

XLII.


Passano in ordinanza i fanti armati;
     Poscia di cavalier segue un drappello;
     Duemila a piè, trecento incavallati
     340(Vocabol fiorentino antico e bello).
     Va pomposo il signor de’ Ravennati
     Sopra un nobil corsier di pel morello,
     Stellato in fronte, che col piè balzano
     344Par che misuri a passi e salti il piano.

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XLIII.


Rimini vien colla bandiera sesta:
     Guida mille cavalli e mille fanti
     Il secondo figliuol del Malatesta;14
     348Esempio noto agl’infelici amanti.
     Il giovinetto nella faccia mesta
     E ne’ pallidi suoi vaghi sembianti
     Porta quasi scolpita o figurata
     352La fiamma che l’ardea per la cognata.

XLIV.


Halli donata al dipartir Francesca
     L’aurea catena a cui la spada appende.
     La va mirando il misero, e rinfresca
     356Quel foco ognor, che l’anima gli accende.
     Quanto cerca fuggir, tanto s’invesca;
     E ’l suo cieco furore in van riprende;
     Che già sulla ragione è fatto donno,
     360Nè distornarlo omai consigli il ponno.

XLV.


Perchè, donna, dicea, di questo core,
     Legarmi di tua man di più catene?
     Non stringevano assai quelle onde Amore
     364Delle bellezze tue preso mi tiene?
     Ma tu forse notasti il mio furore,
     Dissimulando il mal che da te viene:
     Furore è il mio, non nego il mio difetto;
     368Ma mi traesti tu dell’intelletto.

XLVI.


Tu co’ begli occhi tuoi speranza desti
     Alla fiamma d’amor viva e cocente,
     Che sfavillar da questi miei scorgesti,
     372E chiederti pietà del cor languente.
     Ma, lasso! che vo io torcendo in questi
     Vani pensier l’innamorata mente,
     E sinistrando15 il caro pegno amato
     376Che da sì nobil petto in don m’è dato?

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XLVII.


Bella della mia donna e ricca spoglia
     Che donata da lei meco ten vieni,
     Acciocchè dal suo amor non mi discioglia,
     380E mi leghi in più nodi e m’incateni;
     Tu sarai refrigerio a la mia doglia;
     Tu sarai nuovo pegno a le mie speni.
     La bacia e la ribacia in questi accenti,
     384E va seco sfogando i suoi tormenti.

XLVIII.16


Passa il giovine amante; e dopo lui
     La gente di Faenza arriva e passa.
     Tutti son cavalier, fuora che dui
     388Staffieri a piè del capitan Fracassa.
     Del buon sangue Manfredo era costui;
     Onor di quell’età cadente e bassa.
     Secento ha seco; e cento, i più garbati,
     392Di maiolica17 fina erano armati.

XLIX.


Indi Cesena vien sotto l’impero
     Di Mainardo d’Ircon da Susinana,18
     Che s’è fatto signor, di condottiero,
     396Di gente disperata, empia e scherana
     Ottocento pedoni ha seco il fero,
     Usati a vita faticosa e strana.
     Non ha cavallerìa, ma i fanti sui
     400Vagliono più ch’i cavalieri altrui.

L.


La nona squadra fu degl’Imolesi
     Che da Pietro Pagani eran condotti,
     Mille e cento tra fanti e banderesi,
     404Saccomanni, briganti e stradíotti.19
     Dopo questi venieno i Forlivesi,
     Dagli Ordelaffi in servitù ridotti;
     Scarpetta di condurgli ebbe l’onore,
     408Che degli altri fratelli era il maggiore.

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LI.


Forlimpopoli segue, allor cittade
     Non men delle vicine illustre e degna.
     Sinibaldo, il fratel minor d’etade,
     412Regge la schiera sua sott’altra insegna.
     Sono ottocento armati d’archi e spade;
     Mille son gli altri: e vanno alla rassegna
     Distinti in guisa, che distinta splende
     416La gara che fra lor gli animi accende.

LII.


Colla gente di Fano a tergo a questa
     Sagramoro Bicardi il Nunzio inchina,
     E guida mille fanti alla foresta,
     420Usati a corseggiar quella marina.
     Allo scettro ubbidian del Malatesta
     Pesaro, Fossombruno e la vicina
     Senigaglia; e passar colla bandiera
     424Di Paulo dianzi entro la sesta schiera.

LIII.


Poichè fu di Romagna il fior passato,
     Ecco il carroccio20 uscir fuor della porta,
     Tutto coperto d’or, tutto fregiato
     428Di spoglie e di trofei di gente morta.
     Lo stendardo maggior quivi è spiegato;
     E cento cavalier gli fanno scorta,
     Fra gli altri, di valor chiaro e sovrano:
     432E Tognon Lambertazzi è il capitano.

LIV.


Dodici buoi d’insolita grandezza
     Il tirano a tre gioghi; e di vermiglia
     Seta hanno la coperta e la cavezza,
     436Le sottogole, e i fiocchi sulle ciglia.
     Il pretor di Bologna in grande altezza
     Sopra vi siede, e intorno ha la famiglia
     Tutta ornata a livrea purpurea e gialla,
     440Con balestre da leva e ronche in spalla.

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LV.


Nomato era costui Filippo Ugone,
     Brescian di quei dalla gorgiera doppia;
     E di broccato indosso avea un robone
     444Che stridea come sgretolata stoppia.
     Secondavano il carro e ’l gonfalone
     Quattrocento barbute21 a coppia a coppia,
     Co’ cavalli bardati infino a terra,
     448Ch’avea mandate Brescia a quella guerra.

LVI.


Seguiva il battaglion dopo costoro,
     De’ petronici fanti e l’apparecchio.
     Eran vintiseimila; e ’l duca loro,
     452Il buon conte Romeo Pepoli vecchio,
     Avea l’armi d’argento a scacchi d’oro
     Fregiate; e Braccalon da Casalecchio
     Col braccio manco e con la spalla destra
     456Gli portava lo scudo e la balestra.

LVII.


Finita di passar la fanteria,
     Passarono i cavalli in tre squadroni
     Guidati da Bigon di Geremia,
     460Ch’era in Bologna, in quell’età, de’ buoni;
     E da due figli del Malvezzo Elia.
     Perinto e Periteo, che fra i campioni
     Del petronico stuol più illustri e chiari
     464Risplendean gloriosi e senza pari.

LVIII.


Usciti in armi alla campagna quanti
     Petroni e Romagnuoli avea la terra,
     Marciar le schiere; e sette miglia avanti
     468Presero alloggio, al solito di guerra.
     Indi tosto ch’al re de’ lumi erranti
     Le finestre del ciel l’alba disserra,
     Al suon di mille trombe al mattutino,
     472Fresco tornò l’esercito in cammino.

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LIX.


Nè molto andò che da diversi intese
     La nuova che temea, di Castelfranco.
     Tosto le squadre in ordinanza stese
     476Per giugner sopra l’inimico stanco.
     Il destro corno Salinguerra prese;
     Ritennero i Petroni il lato manco,
     Presaghi ch’il valor tedesco e sardo
     480Dovea quivi pugnar col re gagliardo.

LX.


Con Salinguerra a destra i Fiorentini
     Giunsero l’ordinanze e i Milanesi,
     E la squadra con lor de’ Perugini,
     484E la cavalleria de’ Riminesi:
     Il signor di Ravenna e i Faentini,
     Fano, Imola, Cesena e i Forlivesi,
     Pesaro, Fossumbruno e Sinigaglia,
     488Il mezzo ritenean della battaglia.

LXI.


Il carroccio restò, com’era usanza
     Tra i Bolognesi, appo il sinistro corno,
     Con molti cavalier di gran possanza,
     492E gente a piedi e macchine d’intorno.
     Indi si mosse il campo in ordinanza;
     E giunse che drizzava al mezzogiorno
     Febo i cavalli, all’inimico a fronte,
     496Rintronando di gridi il piano e ’l monte.

LXII.


Dall’altra parte i Gemignani usciti
     Di Castelfranco alla battaglia in fretta,
     Col magnanimo re de’ Sardi uniti
     500Fermar l’insegne a tiro di saetta:
     E posti in fronte i più feroci e arditi,
     Slargaro i fianchi all’ordinanza stretta,
     Per non esser rinchiusi e circondati
     504Dal numero maggior di tanti armati.

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LXIII.


A manca man, dove un torrente stagna,
     Con quattromila suoi mangiafagioli
     Stava Bosio Duara alla campagna;
     508Nè seco aveva i Cremonesi soli,
     Ma quanti scesi giù dalla montagna
     Eran mazzamarroni in vari stuoli.
     E la cavalleria del buon Manfredi
     512Copriva i fianchi della gente a piedi.

LXIV.


Ma incontro all’austro era nel destro corno
     La bandiera real d’Enzio spiegata,
     E Garfagnana seco, e quivi intorno
     516La milizia del pian tutta schierata.
     Regiamente pomposo era, quel giorno,
     Di sopravvesta bianca e ricamata
     D’aquile d’oro il re, con un cimiero
     520Di piume bianche, e sopra un gran corsiero.

LXV.


Diciannov’anni il giovane reale
     Non compie ancora, ed è mezzo gigante.
     Bionda ha la chioma: e ’n tutto il campo eguale
     524Non trova di valor nè di sembiante.
     Se maneggia destrier, s’avventa strale,
     Se move al corso le veloci piante,
     Se colla spada o colla lancia fiede,
     528Sia in giostra o sia in battaglia, ogni altro eccede.

LXVI.


Giva intorno esortando in ogni lato
     A ben morir que’ poveri villani.
     Ma il Potta in mezzo alla battaglia armato,
     532D’ira e di rabbia si mordea le mani
     Di non trovarsi allor Gherardo allato:
     E consignando a Tommasin Gorzani
     I Gemignani a piè con cambio secco
     536In luogo del coltel mettea uno stecco.

Note

  1. [p. 271 modifica]Il Bosio Duara signor di Cremona fu veramente allora in aiuto de’ Modenesi, e vi rimase prigione. V. Sigon. de R. Ital. l. 19.
  2. [p. 271 modifica]Verro vien detto il porco non castrato.
  3. [p. 271 modifica]Belletta è il fango formato dalla posatura delle acque.
  4. [p. 271 modifica]Il Barotti è d’avviso, che il Poeta abbia qui voluto nel castigo di Nasidio rappresentare la pena e l’insulto, che Niccolò signore della Mirandola fece provare a Francesco di Passerino Bonacossi nemicissimo suo l’Agosto del 1328, secondo che [p. 272 modifica]ne fu scritto dal Panciroli nel quarto libro delle sue storie reggiane.
  5. [p. 272 modifica]Si riferisce alla Musa d’Omero, che oltre l’Iliade e l’Odissea cantò un giocoso Poema intitolato Batrocomiomachia, o sia la guerra delle Rane e de’ Topi.
  6. [p. 272 modifica]A Modena i Pizzicagnoli si pregiano vanamente di far salsiccia fina.
  7. [p. 272 modifica]Questa è vera istoria. L’accidente occorse a quel buon prelato vicino a Scarperia, mentre da Roma andava a Parma; e però l’istoria pecca solo in anacronismo. Salviani.
  8. [p. 272 modifica]Il ritratto, che il Poeta qui fece del capitan Paolucci è cavato dall’originale, e solo pecca al solito di anacronismo.
  9. [p. 272 modifica]E fu vero, che ritornando portò guanti agli amici. Non bisogna burlarsene, perchè il Poeta n’ebbe ancor egli un paio. Salviani.
  10. [p. 272 modifica]Ocagna è città della Castiglia nuova famosa (come scrisse nelle sue relazioni universali P. I. l. I. il Botero) per li guanti, che vi si fanno.
  11. [p. 272 modifica]Pacchiarotti, cioè gente grassa ed atta solo a mangiare.
  12. [p. 272 modifica]Questa è Ferrara, presso alla quale scorre il Po.
  13. [p. 272 modifica]Cotognola e Barbian, ec. si dice per gli Sforzeschi, e per quelli di Barbiano, che furono come eroi, che uscirono da quelle due terre. Salviani.
  14. [p. 272 modifica]Paolo secondogenito di Malatesta signor di Rimini fu, come è noto, innamorato di Francesca sua cognata, e ucciso insieme con lei da Lanciotto suo fratello, perchè il trovò colla moglie. V. Dante Inf. C. v. Salviani.
  15. [p. 272 modifica]Sinistrare è lo stesso che imperversare; in latino furere, debacchari: quivi però intender si debbe per interpretrare sinistramente.
  16. [p. 272 modifica]Accenna quello che si dice de’ Faentini, che l’imperatore Carlo V. essendo stato molto onorato da quei cittadini nel giugnere alla piazza creasse cavalieri tutti quelli che vi si trovarono, dicendo: Omnes estote equites. Onde perciò i Faentini quasi tutti si chiamano cavalieri. Salviani.
  17. [p. 272 modifica]I Faentini furono i primi che nell’Italia introdussero la maiolica, così detta dall’isola di Maiorica, che dal Villani viene appunto chiamata Maiolica (lib. 4. cap. 30). Il Cavina nell’Indice dell’Istorie faentine di Giulio Cesare Tonduzzi scrive, che intorno alla metà del secolo XV. fu la maiolica condotta a perfezione in Faenza.
  18. [p. 272 modifica]Mainardo da Susinana fu veramente tiranno di Cesena, come anco Pietro Pagano d’Imola, e gli Ordelafi di [p. 273 modifica]Forlì o Forlimpopoli. Leggi il Villani, che ne favella. Salviani.
  19. [p. 273 modifica]Banderesi, soldati a cavallo con banda. Saccomanni, o Saccardi diconsi quelli, che conducono dietro agli eserciti le vettovaglie. Stradiotti, soldati di Grecia facinorosi.
  20. [p. 273 modifica]I primi che usassero del Carroccio furono i Milanesi nel 1039, per invenzione e consiglio dell’arcivescovo Ariberto contra il partito dell’imperadore Corrado, come si legge appresso d’Arnolfo nelle istorie de’ suoi tempi. Era il Carroccio un gran carro tirato da molte paia di buoi, sul quale si mettevano tutte le insegne quando si combatteva, ed all’intorno di cui si ricoveravano i feriti sotto la guardia di una grossa banda di soldati i più valorosi. V. Rer. Ital. Script. t. viii., e Verri Stor. di Milano t. i.
  21. [p. 273 modifica]Bernardino Corio nelle sue Istorie di Milano P. 3, spiega le Barbute ora per uomini d’arme con due cavalli per ciascuno, ed ora per lance di due cavalli, cioè un grosso e un piccolo per ciascuna.