La colonia italiana in Abissinia/VII

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Camello divorato — Giustizia sul luogo — Una cinta di capanne — Allarme — Leoni e montoni — Miracoli del mio fucile — Riconoscenza degl’indigeni — Deglel il triumviro — Seguito del viaggio — Un bastone che risolve questioni.



Al mattino seguente ricaricammo i somieri, non senza deplorare la mancanza d’un camello, rilevata dagl’indigeni. Alcuni minuti appresso, uno di costoro, che s’era staccato dalla comitiva per ritrovarlo, ritornò a noi di tutta corsa ed afferrò un fucile che trovavasi sopra i bagagli ed apparteneva a Colombo.

Chiestogliene il motivo, ci rispose, che correva ad uccidere una iena la quale divertivasi a sventrare il nostro camello in compagnia d’alcuni avoltoî.

Gli osservai che quel fucile non poteva prestarsi all’uоpo essendo carico a pallini; quindi presi il mio e mi feci guidare sul luogo.

Eravamo armati tutti e due, e procedevamo di buon passo, cosicchè in breve eravamo già addentro nella foresta. Colà mi apparve uno spettacolo desolante. [p. 59 modifica]

La povera bestia era stesa al suolo, morta da qualche ora, e intorno ad essa uno sciame d’aquile, grifoni e avoltoî se ne disputavano le spoglie. In disparte poi una grossissima iena gavazzava nel sangue, e divorava alcuni brani di carne strappati dalla massa principale. Vedendo che l’indigeno puntava il fucile contro la iena, gl’intimai di non sparare, avvegnacchè non fosse prudenza tirare un colpo di fucile a pallini. Io mi riserbava a colpire la fiera con una buona palla di piombo, tanto più, che, assorta com’era nell’avidità del pasto, non avea fatto il più piccolo movimento al nostro avvicinarsi.

Ma la molla scatto e partì il colpo a pallini, il quale non valse che a metter in fuga i soli volatili. Era stato però ben diretto, inquantochè la iena fu vista poco dopo, abbandonar la preda di soprassalto e ritirarsi. zoppicando e ruggendo.

Rimproverai all’indigeno la sua disobbedienza; dopodichè mi diedi con esso ad inseguir, benchè inutilmente, la fiera, la quale, internatasi nella foresta, in breve disparve.

Ritornammo sui nostri passi e trovammo i compagni già pronti alla partenza. Noi li seguimmo dopo aver preso due buone sorsate di cognak.

A sera inoltrata del 12 Aprile... arrivammo ad un recinto, formato e difeso da doppie fila di siepi a spine, entro il quale innalzavansi parecchie capanne costrutte a rami d’alberi e foderate di paglia; ricettacoli di nomadi pastori.

Avvicinatici alla cinta, fummo obbligati a dichiarare chi fossimo ed ove andassimo. Dopo alcune spiegazioni, ci lasciarono penetrare e ci permisero di passar ivi la notte. [p. 60 modifica]

L’ora essendo tarda, scaricammo i camelli ed aprimmo le brande. Preparammo un po’ di cibo, mentre gli Indigeni ci stavano d’intorno ad appagare la loro curiosità, ammirando con cupidigia le nostre armi.

La maggior parte degli abitatori di quelle capanne era ancora al di fuori a pascolare camelli e vacche, il cui latte costituisce la base dei loro cibi. Mentre bolliva la pentola, i nostri si occupavano di qualche altro affare: chi attizzava il fuoco, chi rappezzava le vesti, chi puliva le armi, chi famava tranquillamente la sua pipa, chi infine leggeva un trattato di economia politica.

Sopraggiunsero gl’Indigeni, ed allora il recinto brulicò d’uomini e di bestie. N’ebbimo latte in gran copia, e ne bevemmo a sazietà; e poiché il pranzo fu servito ed asciolvemmo, nostra cura fu quella di metterci a dormire, stendendoci sulle nostre brande. Invano il sonno tentava scendere a ristorarmi; ero in una continua diffidenza, e non facevo che girarmi ora sur un fianco ora sull’altro. Finalmente mi decisi ad alzarmi; mi avvicinai al braciere, accesi la pipa e mi sedetti sulla sella del mio boriko, dandomi a pulire il fucile, di cui caricai ambo le canne a palla.

I miei compagni russavano ch’era una meraviglia; mentre io d’altra parte mi lasciavo andare alle più strane conghietture. Quand’ecco un insolito frastuono viene a rompere la quiete che regnava. M’alzo da sedere e mi metto in osservazione.

In un istante quasi tutta la borgata era in piedi. Gli indigeni impugnando lancie e scimitarre ed aggiustandosi i loro manti, correvano in frotte verso un punto del recinto che reclamava la loro difesa. Da tutti i lati le donne spaventate, tenendo in braccio i loro bambini, [p. 61 modifica]e collo sguardo rivolto alle capanne, si aggiravano quà e là come forsennate, invocando aiuto a lamentevoli strida.

Presi tosto il mio fucile e due pistole, senza molestare i miei compagni, che in mezzo a tutto quel fracasso non s’erano svegliati, seguii alcuni indigeni che mi spiegarono il motivo di quella confusione; vale a dire, che due leoni erano penetrati colle zampe a carpire due montoni e continuavano a devastare lo steccato per farvi nuova preda.

Appena fatti due passi, intesi dietro a me la voce del sig. Stella, allora svegliatosi, il quale mi richiamò, facendomi osservare non essere prudenza ch’io mi esponessi a quella impresa troppo arrischiata, e nella quale richiedevasi più la pratica dei luoghi che il coraggio e la forza.

Non ostante, cedendo alle istanze degl’indigeni, e pensando di contraccambiare così al beneficio dell’ospitalità, vi andai. Compresi tosto che costoro si fidavano più nel mio solo fucile che in tutte le loro lancie e scimitarre, e pel momento mi precedettero in numero di dodici, guidandomi fuori dello steccato.

Mi guardavano essi con istupore e compiacenza, non altrimenti ch’io fossi un eroe del Barka, e mi facevano intendere che si tenevano sicuri nella mia compagnia. Dopo alcuni passi, si fermarono e mi lasciarono passare avanti, mostrandomi, attraverso il buio, le due fiere che, alla vista degl’indigeni si rilevavano indistintamente; alla mia poi erano affatto irreconoscibili. Puntai, nondimeno il mio fucile nella direzione indicatami a mi avanzai tacitamente con essi.

Udiva, sovra il frastuono sollevato dagli abitanti, il ruggito dei due leoni abbastanza distinto, come del [p. 62 modifica]pari lo strepito che facevano contro il poco solido riparo, e vedeva eziandio di tratto in tratto il fiammeggiare delle loro minacciose pupille; ma tuttociò non m’era bastante per dirigere un colpo con probabilità di successo. Tuttavia la molla scatto; ma con mia sorpresa il fuoco non s’apprese. Mi avanzai quindi d’un passo e scaricai, a quanto pare, felicemente, dappoichè un urlo disperato sollevatosi immantinente, mi fece credere di aver colpito per bene.

Nel medesimo istante partirono dagl’indigeni due lancie, gettate a mano guisa di giavellotto, e subito dopo i due leoni precipitosamente fuggirono.

Ricaricai il fucile, ed attorniato dai compagni, mi avanzai, con la massima circospezione; ma ogni ricerca, stante la profonda oscurità della foresta, riuscendo a vuoto, decidemmo di ritornare.

Scaricai all’aria le due canne e le pistole allo scopo di spaventare le fiere, e rimaner tranquilli per quella notte entro al recinto.

Al nostro ritorno, gl’indigeni ch’erano rimasti, ci mossero incontro festosi e acclamanti; ogni più lieta dimostrazione era a me rivolta, siccome a quello che più di tutti li aveva giovati. Uomini e donne mi circondavano, quest’ultime salterellando a festa, i primi facendo con rara prestezza rotolare le lancie intorno alle armi, e luccicare le lame delle scimitarre al chiarore dei fuochi ch’erano stati sollecitamente ravvivati per necessità di difesa.

In mezzo a tanta accoglienza, e accompagnato dai canti, quasi uguali alle cantilene che sciolgono le Arabe nelle loro fantastiche feste, mi pareva d’essere mutato in uno di coloro che, come vorrebbero far credere le tradizioni, ritornano dalla Mecca santificati, per essersi [p. 63 modifica]lasciati accecare dallo splendore della tomba del Profeta. Nè poteva trattenermi dal ridere di cuore, pel modo con cui si accomiatarono dopo avermi ricondotto al riposo.

Il recinto in cui eravamo ricoverati, apparteneva al capoluogo della tribù dei Beniahmer-Zaghà, distante circa quattr’ore da noi, retto e comandato da un triumvirato di fratelli. Il primo di costoro, nominato Deghlel, tiene trecento dei suoi più valorosi, armati di lancia e scimitarra, difesi da scudi e da vesti di ferro.

Sotto il comando d’uno dei fratelli, conoscente del sig. Stella, codesti indigeni conducono vita nomade, e girano con le proprie famiglie, tenendo seco le mandre, soggiornando ora in un pascolo ora in un altro, e mutando cielo a tenor del bisogno o dell’opportunità.

Venne il mattino, e con tutto nostro comodo ci apparecchiammo alla partenza. Non saprei descrivere l’entusiasmo degl’indigeni, e le dimostrazioni di amicizia e di gratitudine che ci diedero, pel fatto della notte.

Quando fummo pronti alla marcia, venimmo circondati da parecchi che suonavano delle trombe di legno, da altri che ci prendevano le mani recandosele alla fronte, e facendo mille strani gesti in segno di saluto. Noi, a rincontro, sparammo alcuni colpi di fucile in loro onore, del che rimasero soddisfattissimi. Li ebbimo per seguito durante un buon tratto di cammino, sempre colle medesime dimostrazioni, ed in mezzo a grida, canti ed inni guerreschi.

Finalmente ci lasciarono, due ore prima del mezzogiorno, augurandoci buona fortuna, quindi ritornando tutti alla propria dimora.

Alle tre pomeridiane del 13 eravamo presso Zaghà. Poche ore dopo, continuando la marcia senza eventua[p. 64 modifica]lità di rilievo, scoprimmo un piccolo paese dei Beniahmer, dal quale, usciti alcuni indigeni, ci mossero incontro. Innanzi a tutti procedeva con lestezza pari ad esaltazione un giovane d’alta statura, ben complesso ed elegante nelle forme. Aveva capelli neri e ricciuti, occhi rossicci scintillanti, lo sguardo severo ed una bella bocca, entro a cui spiccavano due fila di denti più bianchi dell’avorio.

Costui si avanzava con passo franco e sollecito, palleggiando, quasi in tuono di braveria, un nodoso bastone curvo, di qualità si dura che solo il ferro avrebbe potuto competergli. Questo arnese trovasi di continuo in mano a quegl’indigeni e se ne fanno istrumento indispensabile in tutte le loro azioni.

Ne fanno uso speciale quando seggono a consiglio e stanno deliberando sui propri affari e sciogliendo liti e questioni. Mentre discorrono colla calma più perfetta, non istanno un istante tranquilli con quel bastone, ma vanno solcando il terreno a parecchie guise. Dissi quando discorrono, perchè soltanto agli oratori, ognuno alla sua volta, è permesso far ciò; mentre gli altri che ascoltano paiono statue di cioccolatte.

Nei casi di diverbî o per qualche punto di diritto, il bastone serve a battere il suolo con veemenza, ritornando poscia alla calma primitiva testochè l’oratore abbia esposto la sua opinione.

Talvolta avviene, che, nel calore d’una disputa, quel bastone si riversi più spesso sulla testa che sulle spalle d’un antagonista, il più delle volte procacciandogli contusioni e ferite e non troppo di rado facendogliene uscir le cervella. Quel bastone insomma è il vade mecum o il vero redde rationem di quegl’indigeni.