La colonia italiana in Abissinia/XVI

Da Wikisource.
XVI

../XV ../XVII IncludiIntestazione 7 novembre 2022 75% Da definire

XV XVII
[p. 132 modifica]

XVI.


Voltafaccia del capo Deghlel — Ambasciatori dei Démbelas — Una lettera di Pompeo Zucchi — Stella parte per Keren ad incontrarlo — Lo Skek ed il medico. — Propaganda mussulmana. Voltafaccia del capo Glaudios — Capanna tramutata in moschea. Ritorno del padre Stella.



Un giorno arrivò un messo con una lettera da Zaghà, inviataci da uno dei Deglhel, il quale scriveva al padre Stella, che egli riteneva non aver noi il diritto di soggiornare nel territorio di Sciotel, e che su questo particolare non si erano punto intesi all’epoca di quell’abboccamento, di cui il lettore potrà ricordarsi.

Egli aveva ben bene ponderato le cose, ed aveva trovato che la nostra dimora in quel territorio serviva di baluardo e di difesa agli Hanasen ed agli Amarici, il che non poteva tornargli accetto.

In questo modo la nostra posizione si faceva di giorno in giorno più difficile e compromessa. Anche dal lato economico-amministrativo le faccende non procede[p. 133 modifica]vano bene: si difettava di polvere, di vettovaglie e di denaro.

Gl’indigeni stessi, scoraggiati per la tardanza di Pompeo Zucchi, sul quale fondavano le loro speranze, lavoravano a malincuore e cominciavano a divenire intrattabili.

Fummo, per di più, minacciati d’un attacco per parte dei Marias e dei Démbelas; minaccia che ci diede non poco a pensare.

Finalmente il signor Stella decise di inviare ad essi due ambasciatori, scelti fra quelli che potevano esercitare una qualche influenza, specialmente sui Démbelas, e riferire ai loro Capi che il nostro stabilimento in Sciotel non ledeva minimamente i diritti d’alcuno, in quanto potevamo calcolarci appartenenti alla famiglia dei Bogos, e la massima parte della colonia era composta di indigeni.

Fece conoscere eziandio che noi desideravamo di mantenerci con essi nelle migliori relazioni possibili, e che da queste essi non avevano nè potevano sperare che vantaggi; ma i messaggieri ritornarono a noi colle risultanze di un semi-insuccesso.

È ben vero che della inimicizia dei Marias facevamo ben poco conto; ma temevamo dei Démbelas. E fatta pure astrazione della paura, non potevamo essere soddisfatti di trovarci in rapporti cotanto tesi verso tribù vicine e potenti, se non per mezzi, certamente pel numero e pei molti vantaggi che potevano avere sopra di noi. Passando di angustia in angustia e d’incertezza in incertezza, venne finalmente il giorno tanto sospirato in cui ricevemmo notizie dell’arrivo di Pompeo Zucchi a Massaua. [p. 134 modifica]

Olda-Gabriel in persona era giunto a Sciotel, e ci stava dinanzi porgendo la prova di quanto asseriva: una lunga lettera di Zucchi.

Il padre Stella, quando cessarono le chiassose dimostrazioni di giubilo e di contentezza, alle quali noi e gl’indigeni tutti ci eravamo lasciati andare, lesse ad alta voce quel documento per noi interessante.

Alcune cose mi restarono vivamente impresse, così da poterle benissimo ricordare e riportare.

„Sono arrivato ai 4 di Giugno a Massaua — scriveva Zucchi — insieme alla mia famiglia e ad alcuni compagni, sopra un Sambuk1 arabo sul quale mi ero imbarcato a Suez.

«Dopo una breve sosta a Gedda, traversai il Mar Rosso e toccai Suakin, nei cui banchi investimmo e fummo costretti di rimanere alcuni giorni a rischio di spezzarsi contro le roccie in causa di un forte vento che soffiava da N.O. verso la Nubia. [p. 135 modifica]

Il nachuda (capitano) era, per nostra sventura, poco abile del suo mestiere, freddo, insensibile più per ignoranza che per pratica delle cose di mare; egli perdeva più tempo ad invocare Maometto che non si curasse della grave responsabilità che pesava sulla sua coscienza e sulla sua persona.

Convenne adoperare seco lui la violenza, e minacciarlo che lo si avrebbe gettato in mare qualora non si fosse data la briga di condurci sani e salvi prima a Suakin poscia a Massaua.

Infatti, le minaccie produssero un certo quale buon effetto, e alla fin fine, benchè a stento, potemmo sbarazzarci dell’investimento ed approdare a Suakin.

Appena giunto, feci chiedere di Miani e saputo il suo domicilio, lo pregai a voler recarsi al mio alloggio oppure a ricevermi a casa sua.

Ma non ottenni nè una cosa nè l’altra. Egli mi fece rispondere che non poteva abboccarsi meco per certe differenze che avevamo avuto al Cairo, e che d’altronde era occupatissimo, dovendo partire all’indomani con una carovana verso il fiume Bianco per alcune esplorazioni. Seppi dappoi che andava per cercarvi una miniera d’oro!

Null’altro essendovi che potesse trattenerti colà, tolsi meco un Arabo per disimpegnare le funzioni di dragomanno, e m’imbarcai per Massaua ove arrivai il giorno quattro.

Non ho meco che cento talleri, ed è ben poca cosa.

Spero in breve di abbracciarvi; frattanto mandatemi incontro il vostro Glaudios con camelli, cavalli e somieri, più in numero che potete, pel trasporto di bagagli, che contengono provviste copiose di generi di prima necessità. [p. 136 modifica]«Gradite i miei saluti, e arrivederci presto.»

Ecco, presso a poco, il contenuto di quella lettera, buono, se vogliamo, all’infuori della confessata scarsezza di denaro. Il signor Stella cercò di tranquillarci, facendoci sperare che la confessione di tanta miseria poteva essere atto di semplice politica da parte del sig. Zucchi; ma che del denaro ne doveva avere.

Appena si trovò all’ordine, lo Spagnuolo partì.

Il giorno appresso, una visita importuna venne a turbare la nostra quiete.

Era giunto nelle nostre vicinanze uno Skek, accompagnato da un medico, con seguito d’armati, con alcune giovani donne e con molti bagagli. Era desso quel siffatto taumaturgo che guariva le malattie d’occhi, e che avevamo conosciuto a Cassala, in casa del defunto sig. Panajoti.

Lo Skek entrò solo nel nostro piazzale, salutando alla mussulmanna e dandoci il ben trovati. Restò con noi tutto il giorno e tutta la notte; poscia al mattino susseguente si accommiatò, dichiarandoci che sarebbe ritornato ancora qualche altra volta a farci visita ed a tenerci compagnia.

Appena uscito quell’impostore, ci radunammo col padre Stella sotto l’albero del Consiglio. Ivi studiammo d’indovinare la causa di quella visita strana ed inaspettata, e cosa significasse l’esser egli venuto con seguito d’armati e di donne ed in compagnia di quel medico.

Dopo lungo almanaccare, il padre Stella espresse il suo pensiero; che cioè quei due mussulmani fossero arrivati per farvi propaganda religiosa e indurre all’islamismo i Cristiani che stavano raccolti intorno a noi; ně come vedremo, il nostro condottiero era andato lungi dal vero. [p. 137 modifica]

Due giorni appresso, il padre Stella ci lasciò per recarsi a Keren ad incontrarvi Pompeo Zucchi; nè mai, come allora, sarebbe stata necessaria per lo contrario la sua presenza sul luogo.

Infatti, durante la sua assenza, avvennero dei fatti rilevantissimi e spiacevoli per noi. Quei due furbi — lo Skek ed il medico — ebbero l’abilità di farci alienare gli uomini della tribù comandata dall’indigeno Glaudios alla quale avevamo accordato ospitalità nelle nostre adiacenze, e colla quale ci eravamo legati con reciproci patti di amicizia e di soccorso.

La capanna in pietra che Colombo aveva costruito per essi allo scopo di ricoverarvi le loro gregge, fu immediatamente convertita in Moschea. Di più avrebbero avuto la pretesa che il loro bestiame fosse stato accolto da noi, entro al nostro recinto, mettendo a disposizione del medesimo qualche altra delle nostre capanne.

Una mattina, ecco lo stesso Glaudios (l’indigeno) presentarsi in mezzo a noi e raccontarci che, durante la scorsa notte, aveva scorto dei fuochi all’ovest di Zadamba, e che, in seguito ad una ricognizione fatta fare dai propri indigeni, aveva rilevato essersi colà raccolti molti Démbelas, allo scopo di calare a tempo su noi e depredarci.

Chiedeva all’uopo il nostro soccorso; anzi invitava me a seguirlo per prendere in comune quelle disposizioni che fossero le più opportune ad iscongiurare il pericolo.

Io, a dire il vero, non volli credere alla parola di un individuo che aveva tradito i patti stipulati; perciò mi schermii meglio che mi fu possibile ed egli dovette andarsene senza nulla ottenere.

Scrissi però tosto al padre Stella, informandolo del [p. 138 modifica]fatto e delle indegne manovre poste in opera dallo Skek e dal suo medico per convertire all’Islamismo la gente che era nostra alleata, e chiedendogli se fosse del parere che usassimo la forza per iscacciare quei due imbroglioni e rimettere l’ordine nella colonia.

La lettera, ch’io gli spedii a mezzo d’un indigeno, ebbe pronta risposta, colla quale il signor Stella mi raccomandava di non fare alcun passo compromittente verso i due Mussulmani, e ciò per non esacerbare gli animi dei loro correligionari, i quali avrebbero potuto seriamente molestarci. Mi ordinava di aspettare il suo ritorno, chè allora avrebbe preso egli una qualche determinazione in proposito.

Alcuni giorni dopo, durante i quali lo Skek, il medico, Glaudios e le sue genti non si videro più comparire in mezzo a noi, giunse d’improvviso il padre Stella di ritorno da Keren ov’erasi abboccato con Zucchi.

Note

  1. Lo Sambuk arabo è un legno di discreta portata, di forma corta, panciuto e munito, come le antiche galere, d’un castello di poppa alquanto alto, entro il quale trovasi una stanzuccia, aperta all’innanzi. È senza coperta, all’infuori del casseretto di poppa. La prora è assai bassa, assottigliata, prominente, col tagliamare molto inclinato per facilitare l’approdo sui bassifondi. I due alberi non paralleli e disuguali — quello di prora assai più lungo dell’altro — sostengono per ciascuno un’antenna, cui si attacca una vela latina. Siffatti Sambuk, forniti di membratura solida e massiccia, sono fasciati di piccole tavole, assicurate con perni di legno e chiodi di ferro ribaditi. Lo scafo è spalmato, non già a catrame, come si usa da noi, ma con calce mista a sego. La navigazione colle barche arabe si esercita ancora oggidì nel modo stesso che praticavasi ai tempi di Annone cartaginese, senza carte, senza sestante e spesso anche senza la scorta dell’ago calamitato.