La donna sola/Atto III
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ATTO TERZO.
SCENA PRIMA.
Alcuni Servitori portano la tavola preparata per sette, e accomodano la credenza infondo della scena. Poi Filippino e Gamba.
Gamba. Son venuto a vedere, se hai bisogno d’aiuto.
Filippino. Il pranzo veramente non è di soggezione;
Potrai servire a tavola dietro del tuo padrone.
Poscia meco t’invito. Desineremo insieme.
Gamba. Sì, caro Filippino, quest’è quel che mi preme.
Per dirtela... nessuno ci ascolta in questo loco:
In casa di don Lucio si mangia molto poco.
Dopo ch’è fatto nobile, o almen che tal si stima,
È diventato in casa più economo di prima.
Quel che ha speso per essere il signor feudatario.
Gamba. Per comprar questo rango di fresca nobiltà,
Ha fatto, il so di certo, debiti in quantità.
SCENA II.
Don Claudio e detti.
Filippino. Non signor; se le aggrada,
Favorisca di darmi il cappello e la spada.
Claudio. No, no, so il mio dovere. Esige la mia stima,
Che alla padrona vostra io mi presenti in prima.
Dov’è?
Filippino. Non lo so certo.
Claudio. Fategli l’imbasciata.
Filippino. So che con due signori è nel giardino andata.
Claudio. Si può saper chi sono?
Filippino. Uno di loro è certo
Il famoso don Pippo, l’altro don Filiberto.
Claudio. (Sola, se sono in tre, col mio rival non parla), (da sè)
Filippino. (Gamba, vien se vuoi ridere). Anderò ad avvisarla.
(a don Claudio, e parte con Gamba)
SCENA III.
Don Claudio solo, poi donna Berenice.
Chi aspira ad obbligarla, andar dee colle buone.
Senza mostrarmi ardito, senza mostrar gran fuoco,
Di farla innamorare io spero a poco a poco.
Berenice. (Non vorrei disgustarlo quest’altro cavaliero). (da sè)
Claudio. (Eccola immantinente; ecco s’io dico il vero), (da sè)
Berenice. Perchè restar qui solo, e non venire innanti?
Claudio. Il mio dover m’insegna farlo sapere avanti.
Claudio. Verrò, se mei concede, a servir la signora.
Berenice. Anzi mi fate onore... ma no, vi manca poco
A far che diano in tavola. Restiamo in questo loco.
Claudio. Sono ai vostri comandi.
Berenice. Ho cento affari intorno.
Permettete ch’io vada; or or faccio ritorno.
Claudio. Tutto quel che vi aggrada.
Berenice. (Vi è quell’altro che aspetta).
Con licenza.
Claudio. Servitevi; ma una parola.
Berenice. Ho fretta, (parte)
SCENA IV.
Don Claudio, poi Filippino, poi don Lucio.
Filippino. Signor, sono con lei, per non lasciarlo solo.
Claudio. Obbligato.
Filippino. Vuol darmi la spada ed il cappello?
Claudio. Ella ancor non l’ha detto; ve la darò bel bello.
Filippino. Per farsi voler bene, questa è la vera strada.
Lucio. Paggio.
Filippino. Signore.
Lucio. Prendi il cappello e la spada.
Filippino. (Altro che cirimonie!) (da sè)
Lucio. La padrona dov’è?
Filippino. È di là. Se comanda...
Lucio. No, no, vi andrò da me.
A questa faccia tosta io molto non inclino.
(osservando don Claudio)
A tavola stamane non lo voglio vicino.
Schiavo, amico. (saluta don Claudio, e parte)
SCENA V.
Don Claudio e Filippino, poi don Agapito.
Filippino. Eppur questi son quelli che hanno maggior fortuna.
Claudio. A lungo andar si vedono delusi e discacciati.
Filippino. Ma intanto si approfittano.
Agapito. Ci sono i convitati?
Filippino. Sì signor, quasi tutti. Manca don Isidoro.
Agapito. Per uno non si aspetta. Bisogno ho di ristoro.
Filippino. La spada ed il cappello vuol favorir?
Agapito. Prendete.
(gli dà la spada ed il cappello)
Schiavo, amico, sediamo. (a don Claudio)
Claudio. Sto ben.
Agapito. Come volete. (siede)
Claudio. Voi pur degli invitati?
Agapito. Ma questa è una gran cosa.
Pare la mia venuta a ognun maravigliosa.
Io chi sono?
Claudio. Siet’uno, che pare che non sia
Portato estremamente al spasso e all’allegria.
Agapito. Io non son qui venuto per cantar, per ballare;
Sia in compagnia, o sia solo, egli è tutto un mangiare.
SCENA VI.
Don Isidoro colla spada in una mano ed il cappello nell’altra; e detti.
E intanto, per far presto, mi ho cavato la spada.
Prendi, ragazzo caro. Dov’è quest’altra gente?
Batteria di bottiglie? Staremo allegramente.
(osservando la credenza)
Si vuol levar la spada? (a don Claudio)
Claudio. No, non è tempo ancora.
Filippino. Si accomodi. (Gli estremi ci sono in questo loco.
Altri modesto è troppo, altri civile è poco), (da sè, e parte)
Isidoro. Animo, don Agapito, vi voglio a me vicino.
A bevere vi sfido.
Agapito. io non bevo mai vino.
Isidoro. Bevete, se volete esser robusto e forte.
So anch’io che avete in viso il color della morte.
Che dite voi, don Claudio? È ver che il vino è buono?
Fa rallegrar gli spiriti? È ver da quel ch’io sono.
(ridendo)
Claudio. Tutte le cose prese colla moderazione,
Fanno del bene agli uomini, tutte son cose buone.
Isidoro. Certo che non intendo volermi ubbriacare.
Ma un bicchierin di più, che mal ci potrà fare?
Ogni cibo col vino divien più saporito.
Agapito. E s’io bevessi vino, perderei l’appetito.
Isidoro. Bevendo sol dell’acqua, come mangiar potete?
Agapito. Come mangiar io posso? aspettate, e il vedrete.
SCENA VII.
I Servitori mettono in tavola e dispongono le sedie, e poi di quando in quando mettono e levano qualche piatto.
Donna Berenice, don Filiberto, don Lucio,
don Pippo ed i suddetti.
La spada ed il cappello? (a don Claudio)
Claudio. Ecco, se il comandate.
(si leva la spada ed il cappello, e dà ogni cosa a Filippino)
Berenice. A tavola d’amici distinzion non si fa:
Ciascun prende il suo posto con tutta libertà.
Berenice. Eccomi, sì signori.
(siede nel mezzo)
Agapito. Io starò qui in un canto, lontano dai rumori.
(siede nell’ultimo posto a dritta della tavola)
Lucio. Io vicino di voi. (a. d. Beren.) Chi vien presso di me?
Berenice. Verrà don Isidoro.
Lucio. Starem male.
Isidoro. Perchè?
Lucio. Siam stati ancora insieme a qualcun altro invito,
E mi ricordo ancora che mi avete stordito.
Isidoro. Oh, voglio rider certo, e chi non vuole, addio.
Berenice. Via, da quest’altra parte venir potete. (a don Lucio)
Filiberto. Ed io?
Compatisca don Lucio, lo prego a capo chino,
Ma qui ci vuò star io. (siede alla dritta di d. Berenice)
Berenice. Sedete a lui vicino, (a don Lucio)
Lucio. No, no, stia dove vuole, non gli vuò dare impaccio.
Egli è un uom troppo caldo, ed io non son di ghiaccio.
Berenice. Orsù, signori miei, le differenze in bando.
Venite qui, don Claudio.
Claudio. Sono al vostro comando.
(siede vicino a donna Berenice, alla sinistra)
Berenice. Sieda ognun dove vuole.
Isidoro. Io di star qui destino.
(siede presso don Claudio)
Filiberto. (Ma intanto il mio rivale se lo ha posto vicino).
Lucio. Sederò in questo canto.
(si pone in capo della tavola rimpetto a don Agapito, alla sinistra)
Pippo. Io sto da tutti i lati.
(va a sedere presso don Filiberto e don Agapito)
Berenice. Grazie al cielo, alla fine siam tutti accomodati.
Chi vuol zuppa di voi? (a tutti)
Lucio. Date a me il cucchiaione.
Voglio presentar io.
(fa passare il cucchiaione a don Lucio)
Lucio. Oh, in questo non la cedo.
Isidoro. Se il sa l’imperadore,
Vi fa della famiglia mariscalco maggiore.
Lucio. La prima impertinenza. (dispensando la zuppa)
Isidoro. Si fa per allegria.
Agapito. Don Lucio, della zuppa vorrei la parte mia.
Lucio. Di qua nessun ne vuole; portatela di là.
(dà il piatto a Filippino)
Filiberto. (Porta la zuppa dalla parte di don Agapito, levando il piatto che trovasi da quella parte, e lo porta dove era la zuppa.)
Agapito. Sia ringraziato il cielo. (se la tira sul tondo)
Pippo. Noi faremo a metà. (a don Agapito)
Adagio, camerata; tutta per voi?
Isidoro. Da bevere.
Claudio. Sì, presto.
Isidoro. Nella zuppa vi han cacciato del pevere.
(portano da bevere a don Isidoro)
Lucio. (Dispensa un altro piatto.)
Pippo. Da bevere. (forte)
Filiberto. Un po’ presto si sveglia l’allegria.
Berenice. Fate valer, don Pippo, la vostra poesia.
(portano da bevere a don Pippo)
Pippo. Subito, all’improvviso. E perchè son poeta,
Beverò alla salute del signor Bocca fresca.
(accennando don Agapito)
Agapito. A me? io non vi bado (seguitando sempre a mangiare)
Isidoro. Viva quel che si stima
Un poeta famoso, e non sa far la rima.
Berenice. Basta, basta per ora; se si va troppo innanti,
Le rime, miei signori, saran troppo piccanti.
Sentite quel ragù, che mi par eccellente.
Lucio. Oh che bestialità! cattivo, e non val niente.
Filiberto. Don Lucio, compatitemi, questa è un’impertinenza.
Filiberto. Questa è una confidenza che i limiti sorpassa.
Lucio. Fra lei e me nessuno può saper quel che passa.
Filiberto. Signora, che interessi seco avete in segreto?
Berenice. Eh via, don Filiberto, vi prego di star cheto.
Filiberto. Favorite di dirlo, che lo vogliam sapere.
Claudio. Si tace, se una dama comanda di tacere.
Filiberto. Quando una donna tace, vi è sempre il suo mistero.
Berenice. Voi vi piccate a torto.
Lucio. Io saprò dire il vero.
Lo dico in faccia a tutti.
Berenice. Direte una pazzia?
Lucio. Dirò che Berenice dev’esser moglie mia.
Filiberto. S’ella è così, signora, la mia pretesa è insana, (s’alza)
Claudio. S’ella è così, signora, la tolleranza è vana. (s’alza)
Berenice. Voi mentite, don Lucio.
Lucio. Un mentitor son io? (s’alza)
Si fa cotale insulto, cospetto! ad un par mio?
È una donna che il dice, ma se un uom fosse quello...
Filiberto. Io per lei lo confermo.
Lucio. La spada ed il cappello.
(placidamente a Filippino)
Berenice. Servite il cavaliere. (a Filippino)
Filippino. Subito, immantinente.
Lucio. Mi farò render conto del tratto impertinente.
Filippino. La spada ed il cappello. (dà tutto a don Lucio)
Lucio. Andiam. (a Gamba, e parte)
Berenice. Che bel trattare!
Gamba. Ed io, povero gramo, perduto ho il desinare. (parte)
Isidoro. Son finite le risse?
Berenice. Or resteremo in pace.
Isidoro. Adunque alla salute di quel che più vi piace.
Pippo. Bravo, don Isidoro, questo brindisi è mio.
Son io quel che le piace: alla salute di io.
È rima, o non è rima?
Agapito. Ehi, donna Berenice, che torta benedetta!
Berenice. Voi almeno mangiate senza sentir rumori.
Agapito. Badino ai fatti loro, che gridino, signori. (mangiando)
Berenice. Se altro mangiar non vogliono, levate i piatti tutti.
Agapito. Questa torta no certo. E non vi sono i frutti?
Berenice. Che mettano il desèr.
Isidoro. E le bottiglie ancora.
Agapito. (Io di qua non mi levo nemmeno per un’ora).
(i servitori levano i piatti, e mettono il desèr)
Filippino. Signor, vuol favorir questa torta? (a don Agapito)
Agapito. Perchè?
Filippino. Vorrei che ne restasse un poca anche per me.
Agapito. Tieni; metà per uno.
Filippino. Grazie de’ suoi favori.
Isidoro. Bravo quel don Agapito.
Agapito. Che parlino, signori.
Isidoro. V’invito quanti siete, signori, in questo loco,
A bere alla salute di quel che mangia poco.
Pippo. Io rispondo per tutti. La notte canta il cuco.
Evviva quel signore, che mangia come un lupo.
È rima, o non è rima, cosa mi dite?
Isidoro. È un cavolo.
Pippo. Cosa parlate voi? non ne sapete un diavolo.
Filiberto. Ma con qual fondamento colui ch’è andato via,
Ha potuto vantarsi di simile pazzia?
Voglio che sia uno stolto senz’ombra d’intelletto,
Ma con qualche principio certo l’avrà già detto.
Claudio. Ho dei sospetti anch’io, ma in grazia della dama
Taccio, m’accheto e credo.
Filiberto. Viltà questa si chiama.
Claudio. Non m’insultate, amico.
Berenice. Tacete in grazia mia.
Claudio. Per ubbidir, non parlo.
Filiberto. Tacere è codardia. (s’alza)
A discoprir l’inganno per parte mia vi sfido.
(a don Claudio)
Berenice. Voi andate agli eccessi.
Isidoro. Eh via, che son freddure.
Pippo. Che dicono di sfida?
Agapito. Che si battano pure.
Berenice. E avete cuore, ingrato, di perdermi il rispetto?
(a don Filiberto)
Filiberto. Con don Claudio io favello.
Claudio. Io la disfida accetto, (s’alza)
Sostengo che la dama è una dama d’onore,
E chi pensa al contrario, dico ch’è un mentitore, (parte)
Filiberto. Chi ha la ragione o il torto, vedrassi al paragone, (parte)
Berenice. Ah, che va in precipizio la mia conversazione.
Isidoro. Scherzano, o fan davvero? è una disfida, o un gioco?
Non vuò guai, voglio ridere; andrò in un altro loco. (parte)
Pippo. Andrò da un’altra parte, l’aria non fa per me.
Lo vedrò un’altra volta il Libro del perchè. (parte)
Agapito. La tavola è finita. Sono partiti tutti.
Vado anch’io, vuò pigliarmi quattro di questi frutti.
(prende dei frutti, e parte)
Filippino. Portate via la tavola, che or ora il cavalier
Porta via le salviette, i piatti ed il deser1. (parte)
(i servitori levano tutto)
SCENA VIII.
Don Filiberto, don Claudio e donna Berenice.
Berenice. Restate in grazia mia.
(a don Filiberto)
Filiberto. Voglio partir, vi dico. (come sopra)
Berenice. Nemmeno in cortesia?
(a don Filiberto)
Berenice. Egli è persona onesta.
Che sì, che se gli dico di non partire, ei resta?
Claudio. Ad onta d’ogni impegno, e del spiacer che or provo,
Se comanda la dama, io resto, e non mi movo.
Berenice. Sentite? (a don Filiberto)
Filiberto. E lo consente l’onor d’un cavaliere?
Claudio. A rispondervi ho tempo. Or faccio il mio dovere.
Filiberto. (Vuol soverchiarmi, il vedo). (da sè)
Berenice. (Perch’ei moderi il foco,
Altro non v’è rimedio che ingelosirlo un poco). (da sè)
Filiberto. Foste il primo a sfidarmi.
Claudio. E di provarvi ho brama.
Filiberto. Andiam.
Claudio. Vi sarà tempo; voglio obbedir la dama.
Berenice. Tanta docilità merita affetto e stima.
Filiberto. Via, per lui dichiaratevi; sposatelo alla prima.
Berenice. Siete qui colla solita proposizione ardita.
I vostri matrimoni li fate in sulle dita.
Nessun sa quel ch’io pensi, nessun mi vede il core;
Ma affè, voi mi fareste venire il pizzicore.
Filiberto. Io?
Berenice. Che indiscreti! a forza voler che mi palesi!
Claudio. Signora, io son disposto a tollerar dei mesi.
Filiberto. (Che ti venga la rabbia! eccolo l’indurito). (da sè)
Berenice. Via, perchè non si parte, signor inviperito? (a don Filiberto)
Filiberto. Vorreste ch’io partissi per consolarvi seco?
Berenice. Ecco qui, per la bile voi diveniste un cieco.
Filiberto. Non è ver quel ch’io vedo?
Berenice. Don Claudio, in cortesia,
Qual pretensione avete?
Claudio. Niuna, signora mia.
Berenice. E voi? (a don Filiberto)
Filiberto. Io ne ho di molte, e con ragion fondate.
Berenice. Non so che dir, signore, mi par che delirate.
Quel che pretende tutto, m’insulta e se ne va.
Se fosse il nostro caso in un teatro pieno,
Dirian: quel che più vuole, è quel che merta meno.
Claudio. (Dello stil che ho fissato, ancora io non mi pento).
Filiberto. (La flemma di don Claudio mi fa dello spavento).
Berenice. (Se amici mi riuscisse farli ancor ritornare!)
Claudio. (Se ne anderà il furioso).
Filiberto. (Non la vuò abbandonare).
Berenice. Questo è quel che si acquista per usar distinzione.
Filiberto. Per or non vi rispondo.
Claudio. Ma la dama ha ragione.
Filiberto. Sì, ha ragione. (affettando placarsi)
Berenice. Lo dite davvero, o per ischerno?
Via, placatevi un poco.
Filiberto. Ma che tormento eterno!
Berenice. Sapete voi, signori, ch’è l’onor mio in pericolo,
E che per cagion vostra sarò posta in ridicolo?
Ecco la gran mercede che alfine ho conseguita,
I miei due cavalieri m’hanno ben favorita.
Domani per Milano a dir si sentirà:
Ehi, donna Berenice più un cavalier non ha.
Eccoli disgustati, eccoli in un impegno;
E per chi? son io forse la causa dello sdegno?
Don Lucio è conosciuto, si sa ch’è uno stordito.
Vedeste in faccia vostra, se franca io l’ho smentito.
La gelosia che nasce fra voi per mio tormento,
Si appoggia, si sostiene su qualche fondamento?
E se parlar potessi libera ad uno ad uno,
Puot’esser ch’io facessi vergognar qualcheduno.
Se ora di più non dico, se mi trattengo un poco,
È perchè non vuò accrescere legna novelle al foco.
Via, se animati siete da spiriti onorati,
Lasciate ch’io vi possa veder pacificati.
Vedrete a sangue freddo, se il ver considerate,
Puntigliarvi in mio danno? Di voi mi maraviglio.
Di rendermi obbligata ponetevi in puntiglio.
Vadan gli sdegni in bando. Ceda all’amor l’orgoglio.
Pace domando a entrambi, questa sol grazia io voglio.
Se il mio voler si sprezza, se il domandar non giova,
Venga l’amore almeno a far l’ultima prova.
E se saper vi cale a chi d’amor favello,
Dirò che chi m’insulta, sa di non esser quello.
Dirò che si lusinghi chi più non mi contrasta:
Che il mio dover conosco, che son chi sono, e basta.
Filiberto. Degli equivoci detti la spiegazione aspetto.
Berenice. Ma con l’armi alla mano.
Filiberto. A voi tutto rimetto.
Berenice. Dunque sperar io posso i miei desir felici.
Non mi lusingo invano di rivedervi amici.
Di voi chi sarà il primo a darmi un certo segno,
Che in grazia mia dal petto discaccisi lo sdegno?
Filiberto Che s’ha da far? chiedete.
Claudio. Invan ciò si domanda.
Tutto obbliar si deve, se la dama il comanda.
Porgetemi la mano. A lei rendo giustizia,
Nel ridonarvi intero l’amore e l’amicizia, (a don Filiberto)
Filiberto. Sì, della dama in grazia, d’ogni livor si taccia.
Col titolo d’amico venite alle mie braccia. (a don Claudio)
(Spero di guadagnarla, se non ha l’alma ingrata). (da sè)
Claudio. (Spero col sagrifizio d’avermela obbligata). (da sè)
Berenice. Oh cavalieri amabili, oh cavalier ben degni,
D’aver della mia stima sincerissimi segni!
Torni il sereno al viso, torni il piacer qual fu.
Di quel ch’oggi è passato, non s’ha a parlar mai più.
Fatemi voi il piacere, don Filiberto mio,
Andate da mia madre, non ci posso andar io.
Ditele che desidero saper com’ella sta,
E che da voi son certa saper la verità.
(piano a donna Berenice)
Berenice. Don Claudio, la memoria quest’oggi mi tradì.
Mia cognata Lugrezia mandò per avvisarmi,
Che sposa il primogenito. Con lei vuò consolarmi;
Ma a me tanto stucchevoli sono i discorsi suoi,
Che seco le mie parti vi supplico far voi.
Claudio. Subito, mia signora.
Filiberto. Servirvi anch’io mi affretto.
Berenice. Andate, e poi tornate, che tutti due vi aspetto.
Claudio. (L’arte seguir mi giova per conservarla amica).
(da sè, indi parte)
Filiberto. (Il moderar la bile costami gran fatica), (da sè, e parte)
Berenice. Spero colla mia testa riunir gli amici miei.
Li voglio tutti uniti, li voglio tutti sei.
A vivere mi piace in buona società i
Per un se mi dichiaro, perduta è libertà.
Tener incatenati gli amici non pavento,
Se fossero sessanta, se fossero anche cento. (parte)
Fine dell’Atto Terzo.
Note
- ↑ Nell’ed. Zatta e in altre si legge: Che or ora il cavaliere ecc. i piatti ed il desserre.