La frusta teatrale/XI. Eresie

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XI. Eresie

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XI


Eresie


Il problema del teatro è il problema della scuola: sfollare, sfollare! Ossia è un problema senza soluzione perchè tutti hanno interesse ad affollare, affollare! Si capisce che non è possibile inventare un teatro con 300 posti da mettersi a concorso tra i più degni. Ma ci sono altre selezioni argute e istintive. Bisogna convincersi che il rinnovamento del teatro verrà dal cinematografo e dallo spettacolo di varietà. Non dispiaccia agli impresari; io sono persuaso che la sola via della salute è una campagna iconoclastica che riesca a far disertare il teatro di prosa. V’immaginate la gioia di respirare quando Berrini e Benelli si saranno risolti a scrivere films o a inventare balletti o a cantar canzoncine lascive? Il teatro artistico può vivere solo come una nuova specie di massoneria o di congregazione per gli iniziati.


Dei diritti d’autore. Le compagnie drammatiche pensano di ridurli. E’ dovere d’equità constatare la loro moderazione. Dopo tutto solo la generosità dei [p. 126 modifica] capocomici è la ragione per cui Berrini, Forzano, Adami invece di pagare per essere rappresentati riscuotono laute percentuali. Anche in questa occasione i capocomici si sono rivelati cervelli fini. Essi sono disposti a pagare per le prime: ma vogliono ridurre le percentuali per le rappresentazioni seguenti. Proteste degli autori che vivono di un patrimonio antico: — ma non sono proprio le commedie che si reggono per molti anni le più degne? — Sembra che i capocomici siano di diverso avviso e attribuiscano a scenari, costumi e altre contraffazioni questo onore.

Del resto la proposta delle Compagnie drammatiche recherebbe non una rivoluzione, ma il riconoscimentq giuridico di uno stato di fatto. Tenuti presenti certi squallori di arte e di stile, i comici tendono a pagare nella commedia non l’opera spirituale che non esiste, ma il lavoro materiale, il numero delle pagine scritte. La condizione sociale dell’autore è quella del salariato. -Diventa inutile il cottimo quando l’ingegno è rigido e freddo. Si tratta di operai manuali? paghiamoli alla consegna della merce, un tanto all’ora.


Il concetto di una compagnia di complesso con grandi nomi, come una volta si usava è definitivamente tramontato e non rimane che prenderne atto. Si potrebbe ottenere il «complesso» solo con umili e mediocri attori, scelti con intelligenza. Il teatro diventando popolare sopporta le conseguenze della sua diffusione; i grandi artisti non nascono come mosche e invece di [p. 127 modifica] raccogliersi insieme devono servire per inquadrare gli innumerevoli mediocri. Il pubblico che predica il complesso va a teatro a sentire il grande attore, non la compagnia.


Si è giustificato il teatro all’aperto con risapute osservazioni di psicologia della folla, si è voluto fissare il grado di emotività a cui una accolta di popolo, in diretta comunicazione con la natura, possa elevarsi, quali miracoli di comprensione artistica ne possano nascere. Ma l’arte non dipende in alcun modo da questi fattori fisici o fisiologici e s’alimenta soltanto della libera comunicazione degli spiriti, diversa e indipendente dalla materiale vicinanza. Il consenso di una moltitudine in un’opera teatrale non è mai la vittoria dello scrittore, non è mai l’elevazione di tutti a una pura serenità estetica, non è mai il trionfo di una coscienza espressiva integrale. Prevalgono invece inesorabilmente elementi pratici, deformazioni di superficialità, grossolani stati psicologici di impenetrabilità e di sicumera perchè soltanto nella solitudine interiore, cui la solitudine fisica può essere pratica preparazione e condizione, il giudizio si ferma con assoluta libertà e con profondo pudore a quelle posizioni di dubbio e di sospensione, che sono la sostanza stessa della serietà e dell’originalità spirituale.

È profondamente immorale e diseducativo l’atteggiamento pseudo-democratico con cui le cosiddette classi intellettuali considerano la spiritualità popolare. Questa, per i romantici faciloni, consisterebbe tutta nella sua immediatezza e spontaneità: il popolo non dovrebbe a[p. 128 modifica]ver bisogno di sforzo e di studio, consistendo fa sua originalità nella sua verginità stessa.

Questo modo da esteti di considerare le cose è indice del peggiore oscurantismo, in quanto pensa di interdire agli individui la via che sola li può condurre nel mondo della coscienza. La forza di un popolo non sta solo nella sua cultura, ma sta certo nel valore dei suoi sforzi e della sua costanza. Insomma l’elevazione alla coscienza artistica è una difficoltà di psicologia che non vien certo aiutata da frettolose rappresentazioni all’aperto che possono avere il loro senso e il giusto successo solo in una novità di intenti decorativi e in una vera ampiezza di mezzi meccanici. Di profondo sotto questo desiderio di stupore e di divertimento c’è un vero ritorno al senso etimologico di teatro (non già al suo significato religioso). Torna l’amore per lo spettacolo come tale, indipendentemente da ogni pensiero d’arte, e per questa via il teatro sembra avviarsi ad assorbire nuovamente in sè lo spettacolo di varietà e il cinematografo, perchè solo servendosi di questa collaborazione può raggiungere il suo scopo generico di svago.


Chi vorrà narrare ai Re d’oggi la favola dell’attore e della sua nascita misteriosa?

Prometeo non vi rimase estraneo, se dalla sua benevola sopportazione si deve far derivare la responsabilità di tutti i tentativi storici per una magica e disperata ascesi. Ma l’imitazione del modello del creatore nel fingere nuovi mondi, al di là della fantasia, nella realtà dei [p. 129 modifica] corpi, non fu senza l’astuzia di Lucifero. I greci intesero questa partecipazione dell’attore a una doppiezza di natura quando venerarono in Bacco, ultimo anello delle sue stirpi, il dio del teatro. Solo che l’ibrida conformazione spirituale dell'artista non sarebbe quella dell’angelo decaduto, ma dell’uomo stroncato mentre aspira ad elevarsi: Capaneo condannato alla pena di Issione.

Dopo che il nostro dionisiaco Prometeo ebbe sorpresa la buona fede degli uomini e degli dei si trovò più solo che l’Ebreo errante e scorgeva intorno sepolcri profanati e vestigia pietose di creature tese invano nello sforzo di esistere. La paura fu più forte che il desiderio di una moderata penitenza; il coraggio peccaminoso delle finte espansioni doveva e non poteva scontarsi.

L’eroe sentì la colpa irreparabile di essersi rivelato agli occhi attoniti dei curiosi: sentì che aveva rinunciato a confidare in sè e a confessarsi col dolce ritegno di tutti gli umani, e pianse, una volta per tutte, il pudore squallidamente perduto, la verginità profanata da una solenne illusione di magia.

Poi il viaggio instancabile del nomade fu la difesa claustrale della sua torbida anima violata.