La mia vita, ricordi autobiografici/XIX

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Capitolo XIX. La mia prima alunna

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XVIII XX
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XIX.

La mia prima alunna.

(1872).

Nel febbraio di quest’anno una grave sventura colpì la mia famiglia con la morte del povero Andrea Salomoni, rapito in dieci giorni da un’acutissima forma di ileo-tifo.

Morì in via San Gallo, nelle stanze della sua retrobottega, dove tanto aveva lavorato e lottato per procurare a sè ed ai suoi un’esistenza se non agiata, almeno comoda. Lasciò l’Egle con due figliuoli; l’Ettore, che aveva ormai compiuti i suoi quattordici anni e l’Ebe che di poco ne aveva finiti sette.

Se la mia povera sorella fosse stata più donna che moglie, moglie sottomessa e devota, avrebbe potuto tirarsi avanti benino, perchè gli affari andavano a vele gonfie: buona vendita e numerosa clientela per la rilegatura dei libri: tutti gli articoli della bottega, dall’ultimo pennino all’edizione più splendida della Divina Commedia pagati: casa ben provvista di biancheria, d’olio e di vino: e un dieci mila lire in contanti.

Ma l’Egle, in tutta la sua vita, non aveva saputo che amare ed obbedire; mai aveva dimostrato il desiderio di disimpegnare anch’essa una parte attiva nel commercio di suo marito; come quasi tutte le donne [p. 117 modifica] del suo tempo, leggeva benino, parlava di tutto, ma sapeva appena fare il suo nome e contava sulle dita. A tutto questo si aggiunga un caratterino timido, chiuso, sprovvisto affatto di ogni sana energia e non recherà meraviglia il sapere com’essa, affidata la sua azienda alle mani inesperte del figliuolo quattordicenne e di un giovane commesso, si trovasse in poco volger di tempo nelle condizioni economiche più ristrette ed angosciose.

Subito dopo la morte di Drea, l'Ebe venne a star con me ed io cominciai a volerle quel profondo bene di mamma che nulla ha potuto — fino ad oggi — modificare o indebolire. Mentre io scrivo questa pagina malinconica, tu pregherai, forse, o pallida suora, per la zia lontana, per la zia che t’ha tenuto sulle ginocchia e che si ostina a vederti ancora come in quei giorni dolenti, vestita a bruno, con l’onda dei biondi capelli sparsa sulle piccole spalle e i pazienti occhi cerulei fissi nei miei in atto di interrogazione. La vita, i dolori, l’esperienza l’hanno data la risposta alle tue domande, ai tuoi dubbi, alle tue infantili incertezze, povera piccina! Oh la pace sia con te, in te, su di te! Che il bel nome di Letizia che la religione ha sostituito al tuo grazioso nome pagano, non sia bugiardo, o pallida suora, o figliuola mia, perduta. per sempre!


Il magro stipendio che mi dava il Comune rimaneva, anche per le nuove spese occasionate dal mantenimento dell’Ebe, un po’ scarso ai miei bisogni. Mi si davano tre lire al giorno, solo quando prestavo [p. 118 modifica] servizio: quindi i giovedì, le domeniche e le altre feste civili o religiose non venivano pagati: e in caso di malattia, nulla. Ed io ero spesso malazzata per la gracilità della mia costituzione a cui, forse, non giovavano le fatiche dell’insegnamento e gli urli a cui mi condannavano i sistemi pedagogici delle maestre titolari, alle quali, volere o no, dovevo star sottoposta. Lo stipendio mi andava quasi tutto in bistecchine, in olio di fegato di merluzzo, in pasticche e in flanelle...

Il povero e buon Dazzi, a cui nulla sfuggiva, mi disse un giorno:

— Ella è abbastanza colta per dare qualche lezione particolare.

— Davvero, professore? — domandai tutta contenta.

— Glie lo assicuro. Del resto, son qua io per aiutarla sempre. Le dico tutto questo perchè ieri il provveditore agli studi, comm. Cammarota, mi chiese una giovane maestra toscana, buona ed intelligente, per dar lezioni di coltura generale ad una signorina, figliuola d’una sua amica. Vuole ch’io la proponga? Non le daranno meno di cinquanta o sessanta lire al mese per tre conversazioni o lezioni la settimana.

Scambiai uno sguardo di felicità con la mamma, e il giorno dopo mi presentavo al comm. Cammarota che mi accolse con paterna amorevolezza e mi dette una lettera per donna Giulia Marliani, la madre della mia futura scolara.

Oh cara donna Giulia, o indimenticabile signora Norina Franchetti! Voi siete state sempre per me così buone, così fraternamente gentili, che in poche più case, dopo le vostre, sono potuta entrare in qualità d’insegnante! Voi siete state, con me, così [p. 119 modifica] squisitamente dame, che m’è mancato sempre il coraggio — anche in momenti dolorosi — di affrontar la boria quattrinaia delle droghiere arricchite che pagano mediocremente la maestra e — quel che è peggio — la trattano come una cameriera o giù di lì.

Maria Collino, figlia di donna Giulia Marliani aveva, in quell’epoca, sedici o diciassett’anni; e sarebbe stato difficile immaginare una figurina di fanciulla più elegante, più spigliata e graziosa.

Ci sentimmo prese subito, l’una per l’altra, da una vivissima simpatia che non tardò a mutarsi in tenerezza fraterna.

Ella mi parlava della sua infanzia, io della mia: e fra una chiacchiera e l’altra studiavamo storia, geografia e leggevamo Dante o qualche bella pagina del Manzoni.

Spesso donna Giulia andava a pranzo in casa Peruzzi o altrove: e siccome Maria non era stata ancora presentata in società, rimaneva in casa, affidata a me. Ricordi, Maria, i pranzetti intimi nel tuo salottino di via del Podere, le nostre risate, le nostre innocenti ghiottonerie? Ricordi, Feo, il minuscolo cagnolino a cui avevamo insegnato mille esercitazioni ginnastiche?

Per due anni io insegnai a quella gentilissima il poco ch’io sapeva: per due anni ella insegnò a me ogni gentilezza del pensiero, ogni delicatezza del sentimento. E non si credano queste le solite incensature che gli umili tributano ai felici della terra per fini più meno interessati. [p. 120 modifica]

Il nome di Maria Collino splende in caratteri d’oro nel libro della carità umana. Sposata, giovanissima, al conte Gamba, allora sindaco di Ravenna, ella compì miracoli di abnegazione, prodigi di eroismo quando il colèra devastò il paese che suo marito saggiamente amministrava. Non organizzò feste di beneficenza, non ballò, non recitò la commedia pei poveretti a cui il morbo aveva tutto rapito: ma corse nelle case derelitte, nelle case ove si agonizzava, nelle case ove si moriva e si assise, angiolo consolatore, al capezzale dei travagliati. Poi, non contenta, aprì loro le sale del suo storico palazzo e le trasformò in corsie, di cui ella volle esser la prima e più infaticabile infermiera.


Io non so dove ora ti trovi né quali meritate dolcezze abbiano confortato la tua vita, o Maria. Ma in qualunque luogo tu sia, possa questo saluto della tua non più giovane maestra giungerti dolce come una materna benedizione.