La porta della gioia/Lettere d'amore

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Lettere d’amore

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La porta della gioia La porta della gioia

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LETTERE D’AMORE

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La signora Fernanda Marzi giunse ansante allo studio dell’avvocato Ademari e chiese subito d’essere ricevuta. Fu introdotta in un salottino elegante, riservato agli intimi, e mentre sollevava sulla sua magra faccia sconvolta il lungo velo di stretto lutto, Ademari entrò e le domandò la cagione di tanta premura.

Ella gli afferrò una mano con un gesto nervoso e gli parlò sottovoce fissandolo in fondo agli occhi:

— Mio marito ha trovato le tue lettere che mi scrivesti a Villalta, un anno e mezzo fa, ai primi tempi della nostra relazione. Sono perduta, capisci? Sono perduta. Violento e geloso com’è mi scaccerà di casa.

— Ma quando le ha trovate? Dove?

— Nello stipo dove tengo i gioielli, ieri sera mentre ero in casa di mia madre. L’ho dimenticato aperto prima di uscire e Arturo, rincasando durante la mia assenza, vi ha frugato dentro e s’è impadronito di quel pacco di lettere. Me ne accorsi subito rientrando e lo compresi dalla sua faccia fosca, dall’ostinato mutismo [p. 8 modifica]in cui si è chiuso e che mi spaventa. Che cosa avverrà ora, Dio mio!

Fernanda Marzi si torceva le mani inguantate di antilope nera, lasciando scendere sul suo volto contratto, senza asciugarle, due lagrime di irosa disperazione, mentre Ademari, in piedi dinanzi a lei, con le mani sprofondate nelle tasche, la fissava senza batter ciglio.

— Ma perchè, innanzi tutto, hai conservate quelle lettere? Sei stata più ingenua e più imprudente di una collegiale.

— Erano così belle, così appassionate, che non ho mai potuto distruggerle.

— Ed ecco a che risultato sei giunta con questi sentimentalismi! A comprometterci entrambi, e nel modo più ridicolo. Per conto mio la cosa ha poca importanza: due lame che s’incrociano sopra un terreno ben scelto alla prima alba e niente più. Ma per te e per tua figlia si tratta di ben altro. Una casa distrutta, una bimba senza famiglia, parecchie esistenze che vanno a rotoli.

Egli parlava con forza ma con calma, camminando a lenti passi su e giù per il piccolo salotto, e fissando a fronte corrugata il disegno geometrico del tappeto sul quale poneva il piede; e la donna in lutto rannicchiata nell’angolo del divano lo seguiva con lo sguardo annebbiato di pianto, gemendo ad ogni pausa: [p. 9 modifica]

— Ah Dio mio! Dio mio! Che ho fatto! Che ho mai fatto!

— Senti — egli la interruppe d’improvviso dopo un momento di riflessione, in mezzo ai suoi lamenti, — assieme alle lettere hai conservato pure le buste con l’indirizzo?

— No, soltanto le lettere riunite per ordine di data. Ma tu parlavi continuamente di Villalta in quelle pagine, descrivevi la casa, il giardino, il padiglione dei nostri convegni, tutto, e mi chiamavi con tanti nomi teneri e strani che inventavi ad ogni nostro nuovo incontro. Oh, quelle lettere non lasciano alcun dubbio sul genere dei nostri rapporti di quel tempo, e immagino il furore d’Arturo nel leggere certe tue frasi, certe tue descrizioni...

Fernanda si celò il volto nelle mani, tremando tutta come se già vedesse lo sguardo torvo del marito che l’accusava senza pietà. Ma Ademari le sedette accanto, le cinse le spalle, la costrinse a volgersi verso di lui, la interrogò con gravità preoccupata:

— Quell’anno tua sorella Marta non era in villeggiatura con te a Villalta?

— Certo. Ella vi passò sei mesi di seguito perchè già incominciava a sentirsi un poco sofferente di quella malattia che poi dopo un anno l’uccise. Povera Marta! Ella ignorava tutto e senza volerlo ci secondava così bene. Fu grazie [p. 10 modifica]a lei che Arturo non sospettò mai nulla di quanto avveniva fra noi.

Ademari s’alzò di nuovo, si passò due volte la destra nei ruvidi capelli già un po’ grigi che incorniciavano duramente la sua faccia quadrata e piantandosi dinanzi a Fernanda disse:

— Un mezzo per salvare la situazione vi sarebbe, ma ha due difetti. È incerto ed è ripugnante.

— Che cosa vuoi dire?

— Voglio dire che si tratterebbe di accusare una persona che non può difendersi, di attribuire ad essa la proprietà e la responsabilità di quelle lettere che non portano indirizzo nè nome.

— E chi sarebbe questa persona?

— Tua sorella.

— Marta? Marta che mi ha voluto così bene, di cui porto ancora il lutto? Accusarla a mio marito? E come? E perchè?

— Marta ti ha voluto così bene che se fosse viva oggi si offrirebbe volontariamente per salvare te e tua figlia da un così grave pericolo. Questo è certo. D’altra parte, essa era una giovane vedova perfettamente libera e padrona di sè, e nessuna meraviglia e nessun male ch’ella ricevesse in casa sua un intimo amico.

— E dovrei dire ad Arturo che quelle lettere appartenevano a lei?

— Non c’è altro mezzo se vuoi tentare una [p. 11 modifica]via d’uscita. Devi affermare d’aver trovato quel pacco di lettere fra le carte di Marta dopo la sua morte e di averle, chi sa perchè, conservate con l’intenzione di distruggerle un giorno.

— E Arturo crederà?

— Non c’è ragione perchè non creda, dal momento che non sospettò mai nulla. È un consiglio che ti dò da amico e da complice. Fanne ciò che vuoi, ma avresti torto a rifiutarlo.

Tutti e due in piedi in mezzo al piccolo salotto ben chiuso dalle tappezzerie oscure, dai cortinaggi pesanti che lasciavano appena filtrare una pallida luce di tardo inverno subalpino, essi si scambiarono a voce sommessa sebbene vibrante le parole sottilmente scaltre o affannosamente perplesse di quel loro tristo ma necessario intrigo, il quale era destinato a bendare gli occhi di un vivo, fidando sul silenzio di una morta, allo scopo di conservare quasi intatta nel mondo una famiglia legalmente costituita e di impedire la rovina di alcune esistenze e di molte illusioni.

Quando Fernanda Marzi pose piede nella carrozza chiusa che l’aspettava all’uscita, non piangeva più, ma la sua faccia immobile e fredda come una maschera pareva suggellare nell’anima buia una deliberazione amara ma fermamente stabilita.

Trovò rincasando suo marito seduto alla scrivania con le tempia strette fra le mani e di[p. 12 modifica]nanzi agli occhi una lettera aperta che egli rileggeva da mezz’ora.

Ella gli fu alle spalle, si chinò d’improvviso su di lui e gli chiese modulando una voce carezzevole:

— Che cosa leggi, Arturo?

Di scatto egli si volse con una faccia oscura, con gli occhi torbidi di tante ore vegliate e si mise a ridere d’un riso sordo e bieco che gli torceva la bocca.

— Ecco che cosa leggo, — disse battendo il pugno sul foglio che sobbalzò, — leggo le prove della mia cieca imbecillità, e quella della tua svergognata impudenza.

— Arturo, che dici? — ella domandò spaventata, premendogli una spalla con la destra tremante, così bene investita della sua parte di donna accusata a torto, che le pareva di sentirne nel cuore tutto lo sdegno e tutta la ribellione.

— Sono le lettere di un tuo amante, capisci? Eccole qui tutte quante. Sono le lettere che tu conservavi gelosamente insieme coi tuoi gioielli, chiuse in fondo allo scrigno delle cose più preziose. Ah sì! Sono veramente preziosi questi fogli. C’è tutta una rivelazione qui dentro. C’è una donna che io non conoscevo ancora in sette anni di vita comune, e che valeva la pena di conoscere per prenderla saldamente alle spalle e [p. 13 modifica]buttarla fuori dell’uscio di casa mia. Ecco che cosa leggo!

Egli era balzato in piedi e parlava con raccolta veemenza, col viso incontro al viso di sua moglie, la quale ad ogni frase indietreggiava di un passo spalancando sempre più due grandi occhi pieni di terrore e d’innocenza.

— Tu puoi parlare così, Arturo, tu puoi credere questo?

— Non si tratta di credere o di non credere. La cosa è più semplice. Si tratta di leggere e di comprendere parole ben chiare, documenti sui quali non è possibile alcun dubbio. Ecco di che cosa si tratta. Tu, nella casa di Villalta, un anno e mezzo fa, durante la villeggiatura ricevevi di nascosto un uomo, e quest’uomo ti scriveva quasi ogni giorno quattro pagine fitte, compiacendosi d’evocare nel modo più sfacciatamente verista le piacevoli ore d’intimità che gli concedevi. La cosa è semplice, naturale, chiarissima, ed è semplice, naturale e logicissimo che io, marito classicamente inconsapevole, apra finalmente, sebbene un po’ tardi, gli occhi e ti mandi a finire i tuoi giorni fra le braccia del mio fortunato e ignoto rivale. Non c’è altro!

Egli s’era appoggiato col dorso incontro alla scrivania e con le braccia conserte sul petto, la fronte alta, gli occhi ben fissi innanzi a sè, [p. 14 modifica]ragionava fermamente in una ostentazione di pacata risolutezza che sconcertava sua moglie.

Ella seguiva nondimeno il suo piano di difesa e accasciata sopra una sedia, con le mani congiunte in grembo, in un atteggiamento di vittima rassegnata, lo ascoltava in silenzio, a fronte china, senza guardarlo. E quando finalmente egli tacque, sollevò gli occhi, lo osservò di sotto in su, crollando lentamente il capo in un atto di mesta commiserazione per sè stessa e per lui.

— Tu mi hai detto delle cose orribili, Arturo, ed io che potrei così facilmente difendermi dalle tue accuse, sono invece costretta a lasciarmi credere colpevole ed a tacere.

La sua voce era bassa e flebile come se ella la traesse a fatica dall’anima oppressa, ma suo marito non se ne commosse e ricominciò a ridere sordamente, torcendo la bocca amara.

— Che cosa puoi dire in tua difesa, povera donna? Che costui era un pazzo o un esaltato il quale s’immaginava di ricevere i tuoi favori e si dilettava di grafomania amorosa? Non sarei idiota al punto di crederti, e le lettere sono qui in tutta la loro bene equilibrata e bene sfrondata realtà per smentirti.

— Ma dimmi, — mormorò Fernanda alzandosi e venendogli incontro con un passo silenzioso di felino, — sei tu ben certo che queste [p. 15 modifica]lettere sieno dirette a me? Hai tu letto il mio nome sopra il loro indirizzo, l’hai tu letto in una sola di queste pagine?

Arturo corrugò la fronte frugando nella sua memoria, poi afferrò violentemente i fogli sparsi sulla scrivania e li scorse con uno sguardo torbido, combattuto fra l’ira di questa smentita e il sospetto di un inganno più sottile.

— Che cosa significa un nome? — mormorò fra i denti gualcendo la carta sottile con le dita inquiete; — vi sono mille modi di rivolgersi ad una persona senza chiamarla con l’appellativo del suo stato civile. Trovo qui dentro cento nomignoli sciocchi da cane, da gatto o da scimmia che possono benissimo servire al tuo caso. Quanto alle buste esse furono prudentemente distrutte.

— Tu vuoi credermi colpevole a qualunque costo, tu vuoi perdermi senza ascoltare ragioni, — gemette Fernanda col volto fra le mani; — ed io non posso parlare; io non posso dire la verità che mi salverebbe.

— Ma parla in nome di Dio! — proruppe suo marito protendendo verso di lei le braccia impetuose. — Quale altro vergognoso mistero può nascondersi qui sotto?

— Per carità, Arturo non dire così; — ella implorò con una piccola voce atterrita, — mi ripugna tanto ciò ch’io debbo rivelarti e tu mi togli ogni coraggio. [p. 16 modifica]

Ebbe una pausa, trasse un sospiro e continuò:

— Quell’anno a Villalta, ti ricordi? era con me mia sorella Marta.

— Ebbene? — egli incitò con voce dura.

— Ebbene, quelle lettere furono dirette a lei. Io le trovai fra le sue carte dopo la sua morte e non so perchè le ho conservate per leggerle, pensando di distruggerle un giorno. Ecco ciò che ti ha tratto in errore. Non osavo confessarti questo per non accusare mia sorella. D’altra parte, essa era una vedova, perfettamente libera e padrona di sè e della sua vita. Nulla di male se ricevesse in casa sua un intimo amico e se questi le scrivesse lettere appassionate.

Fernanda aveva ripetuto quasi esattamente le parole di Ademari a voce bassa, con una perplessità fra reale e fittizia, con lo sguardo chino sul suo piccolo fazzoletto orlato di nero ch’ella tormentava con le mani nervose. Aspettò che suo marito le rispondesse forse con un’altra imprecazione, forse con una risata di disprezzo. Ma Arturo taceva.

Allora ella sollevò le ciglia e lo guardò trasalendo di paurosa meraviglia. Il volto di lui non più sarcastico od iracondo s’era cosparso d’un pallor di cenere, le sue labbra si schiudevano ad un respiro ansante, i suoi occhi fissavano il vuoto, la sua persona non s’ergeva più [p. 17 modifica]in una ostentata fierezza, ma si curvava in avanti come subitamente invecchiata. Ella lo interrogò con angoscia:

— Perchè non rispondi? Che hai? Non credi a ciò che ti ho detto?

Egli si scosse, sbattè le palpebre quasi per disperdere una visione tormentosa, quindi torse la bocca al suo sogghigno amaro, e rispose piano:

— Ma sì, ti credo. Ti credo. Soltanto, preferirei non credere.

— Che cosa vuoi dire?

— Nulla. Vi sono cose che si preferirebbe ignorare.

— Avevi dunque tanta stima di mia sorella?

Egli sedette alla scrivania e non rispose più.

Arturo non poteva rispondere d’aver amato con profonda passione quella creatura morta e d’esserne stato ricambiato con pari fervore. Ora doveva scegliere fra la colpa della moglie e quella dell’amante, doveva accusare l’una o l’altra di tradimento, di dissimulazione e d’inganno, e ignorava quale delle due colpe dovesse riuscirgli più dolorosa. Aveva nella sua destra un’arma a due tagli e non sapeva come maneggiarla. [p. 18 modifica]

Fernanda lo guardava smarrita, chiedendosi che cosa nascondesse quel suo cupo silenzio, aspettando ch’egli le buttasse in faccia, d’un tratto, un insulto o una smentita.

Ma Arturo continuava a tacere. Seduto alla scrivania, con la testa reclinata sul terribile segreto di quei fogli, egli nascondeva un volto martoriato, una chiusa disperazione e un sospetto più atroce d’ogni certezza perchè rivolto a un’accusata che non poteva difendersi più.