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La spedizione inglese in Abissinia (1887)/VI

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V Appendice

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VI.

Condotta politica e militare della spedizione.

Quando il governo inglese s’accinse ad intraprendere la spedizione, le condizioni politiche dell’Abissinia erano già ben diverse da quelle dei primi tempi del regno di Teodoro: la ribellione aveva intieramente trionfato, ed il potere del Negus non oltrepassava i limiti del territorio occupato dai suoi soldati.

Delle tre grandi provincie in cui si divide l’Abissinia (il Tigré al nord, l’Amhara al centro, e lo Scioa al sud), la prima obbediva ad un principe Kassa, la terza ad un principe Menelik, rappresentanti ambedue di famiglie succedute già agli antichi re e scacciate poi da Teodoro. La seconda, ossia l’Amhara, occupata ancora in parte dalle truppe del Negus, era corsa in tutti i sensi dalle bande armate di parecchi principotti, i quali, concordi solo nel combattere Teodoro, cercavano ognuno di allargarsi a spese del vicino.

Siffatta condizione di cose doveva facilitare di molto l’opera degli inglesi; e sir Robert Napier diede subito a divedere che avrebbe saputo metterla a profitto. I suoi proclami agli abissini, i suoi ordini alle truppe, le sue conferenze coi capi villaggi o coi principi ribelli, crearono ben presto la certezza che gli inglesi non avevano altro scopo fuorchè vendicarsi di re Teodoro, che sarebbero rimasti totalmente estranei alle lotte intestine del paese, che avrebbero rispettato religione, proprietà, persone, e, finalmente, che, appena ottenuta la liberazione dei prigionieri, si sarebbero immediatamente ritirati lasciando agli Abissini stessi la cura di aggiustare le faccende loro.

Questo programma, fedelmente seguito in tutte le circostanze, doveva necessariamente attirare al corpo di spedizione le simpatie del paese: i principotti, i capi distretto, i capi villaggi correvano a gara a rendere onore a Sir Robert Napier e ad accettare i doni che ad ognuno d’essi egli presentava: e tutti indistintamente, non [p. 32 modifica]solo non s’opponevano al passaggio, ma eccitavano gli indigeni a portare i loro prodotti al campo inglese, assicurandoli, come di fatto succedeva, che sarebbero stati lautamente pagati.

Dapprincipio non mancarono oppositori alla condotta politica di sir Robert: ma si capì ben presto ch’essa era l’unica buona o meglio l’unica veramente possibile. Del resto erano facili ad immaginarsi le disastrose conseguenze che avrebbero potuto derivare anche da piccole bande di partigiani, sparse su una linea di 600 chilometri, e intese a turbare la marcia delle truppe, ad impedire la raccolta dei viveri, ad assalire i convogli. Oltre a ciò le difficoltà dei trasporti e lo stesso bisogno di portarsi celeremente avanti obbligarono ben presto, come già s’è visto, a fare assegnamento sui prodotti del paese. E se, allora, giovò non poco l’amore del guadagno nelle popolazioni, non è men vero che giovò pure moltissimo l’amicizia dei capi guadagnata con presenti e con dimostrazioni di rispetto e di benevolenza.


La condotta politica della spedizione ebbe naturalmente grande influenza sulla condotta militare.

Le operazioni di sbarco, le ricognizioni del terreno, le raccolte dei viveri poterono aver luogo colla massima calma e senza preoccupazione di sorta.

Le marcie nell’interno si ridussero a questione, direi quasi, amministrativa: quando il Quarter-Master-General aveva riconosciuto la direzione da seguirsi, quando i pionieri o le truppe di fanteria avevano preparata la strada, e quando le provviste erano assicurate, le truppe che si trovavano più alla mano ricevevano ordine di portarsi avanti le prime, ed erano poi seguite dalle altre a tempo opportuno.

Solo ad Antalo si cominciò a discorrere di unità di guerra, e le truppe destinate a portarsi sino a Magdalà furono formate in una divisione di due brigate ed un’avanguardia. Più tardi, crescendo il bisogno di far presto, la divisione ebbe a subire qualche trasformazione, e risultò composta di tre brigate (5000 uomini circa) due delle quali dovevano procedere lestamente, mentre la terza avrebbe seguito a qualche distanza, attendendo in pari tempo ad ultimare i lavori della strada, e ad assicurare, alle spalle delle prime due, la raccolta dei viveri e delle munizioni.

Avanguardie, retroguardie, fiancheggiatori od avamposti non se n’ebbero che a brevissima distanza da Magdalà. [p. 33 modifica]

I combattimenti furono due soli: il 10 aprile presso il torrente Arroghi, il 13 a Madgalà.


Le alture di Magdalà possono paragonarsi, per la forma che presentano, ad un’opera a corona, col saliente all’altura di Salassie, e le due ali a Magdalà stessa e alla roccia di Falla.

Le due alture di Salassie, e di Falla, unite fra loro da una parete rocciosa di circa mezzo chilometro di lunghezza, rappresentano il fronte di sinistra: e questo fronte, rivolto a settentrione, costituisce la testa di valle di un piccolo torrente, l’Arroghi, che va a sboccare ad angolo retto nel Bascilo.

Il fronte di destra guarda ad oriente: e la cortina di questo fronte è formata da una stretta lingua di terra, detta piano d’Islamghi, che dalle falde meridionali di Salassie si protende fino ai piedi di Magdalà.

Le roccie che limitano verso l’interno l’insieme dell’opera intiera sovrastano ad un’estesa pianura situata assai basso, che potrebbe paragonarsi, per la posizione che occupa, al terrapieno dell’opera.

Verso l’esterno le due alture di Magdalà e Salassie dominano un vasto imbroglio di burroni e di roccie quasi inaccessibili; quella di Falla, per contrario, si inalza a poca altezza sopra le colline a larghe ondulazioni che costituiscono il versante sinistro della valle dell’Arroghi.

Delle tre alture la più elevata è quella di Salassie, viene in seguito Magdalà, ed in ultimo Falla.

Magdalà è, propriamente, un masso roccioso la cui faccia superiore costituisce un quadrilatero di 2000 metri di lunghezza per 800 di larghezza: le faccie laterali scendono tutte a picco; ma quella che sovrasta al piano di Islamghi è divisa quasi per metà da una specie di scalino naturale: e intorno al ciglio di questo, come intorno al ciglio superiore, correva un muro sormontato da siepe. Una scala, scavata nella roccia, conduceva dalla pianura allo scalino e da questo ai ciglio superiore, attraversando i due muri in apposite aperture.

Quei due muri formavano, per dir così, due distinte linee di difesa ed erano le sole opere di fortificazione aggiunte alla forza naturale del luogo, poichè nè a Falla nè a Salassie non esisteva neppure traccia di parapetto. [p. 34 modifica]

La strada costruita da re Teodoro procedeva, oltre il Bascilo, nel letto del torrente Arroghi sino a raggiungere il piede dell’altura di Falla; ivi essa torceva a sinistra, e, dopo aver lambite le sorgenti dell’Arroghi, valicava finalmente la parete che unisce Falla a Salassie. Appena giunta sul versante opposto la strada si divideva in tre: quella di destra conduceva a Falla, quella di sinistra a Salassie, e la terza andava a perdersi nel piano di Islamghi in numerosi sentieri che conducevano tutti ai piedi di Magdalà .

Un breve sguardo al terreno basta a convincere che non si può giungere a Magdalà se non seguendo quella strada; e che qualsiasi operazione contro Magdalà dev’essere preceduta dall’occupazione di Falla e Salassie.

Il campo di re Teodoro era stabilito nei primi giorni d’aprile sotto la roccia di Salassie su d’una vasta sporgenza della falda settentrionale; ma dal giorno 8 in poi si potè osservare, dall’altipiano di Talanta, che il re aveva occupato anche l’altura di Falla.

Circa la forza del suo esercito correvano le voci più disparate: si seppe poi che i veri combattenti si riducevano a tre o quattro mila e che tutti gli altri, venti mila circa, erano donne, vecchi e fanciulli, le famiglie insomma dei soldati.


Il giorno 10 aprile, al tocco circa dopo mezzogiorno, tutte le truppe della prima brigata passavano il Bascilo e s’incamminavano per la strada descritta poc’anzi: avanzatesi però di qualche chilometro nel letto del torrente, torcevano a destra per portarsi ad occupare, non viste, le prime alture ad occidente di Falla. Era stato ordinato che il movimento fosse condotto colla massima prudenza, e in modo da non attirare l’attenzione del nemico: si voleva occupare, per quella sera, una buona posizione, ed attendere ivi l’arrivo della 2ª brigata, per procedere insieme all’attacco la mattina del giorno dopo.

Ma una generosa imprudenza mandò a vuoto quel progetto; ed il nemico accortosi del movimento, mosse subito dal suo campo sotto Salassie, ed in masse confuse venne a precipitarsi sulla prima brigata.

La brigata, sorpresa quasi, dovette riparare alla meglio, mandando a respingere il nemico le prime frazioni di truppa che si tro[p. 35 modifica]varono alla mano; e così entrarono quasi contemporaneamente in azione parte del 23° (Punjab Pioneers), parte del 4º fanteria inglese, e parte del 27° (Beloochee).

Il fuoco micidiale del fucile Snider ebbe ben presto ragione dell’eroismo selvaggio degli abissini, ed agli urli feroci che avevano accompagnato il loro avanzare succedettero allora le grida di centinaia di feriti, ed il triste spettacolo di una fuga scompigliata. In quel frattempo eran giunte sul luogo una batteria di montagna e la batteria di racchette, ed avevano aperto il fuoco, dapprima contro i fuggiaschi, poi contro il campo nemico. Re Teodoro non volle rimanere al disotto, e dall’altura di Falla apri anch’esso il fuoco di sette pezzi: fuoco però affatto innocuo, per la poca portata di quelle armi, e per la cattiva direzione del tiro.

La cosa durò due ore, vale a dire dalle quattro alle sei: dopo di che le poche truppe di re Teodoro, che non s’eran disperse, si ritirarono ai loro campi, e le truppe inglesi presero posizione ai piedi di Falla, circondandosi di avamposti e coprendosi come meglio fu possibile.

Quest’azione fu chiamata Arroghi action dal nome della località.

Gli abissini erano armati in gran parte di lancie e scudi, ed in piccolo numero di moschetti; le perdite da parte inglese sommarono a 19 feriti (un ufficiale e 18 soldati), nessun morto, nessun prigioniero. Le perdite dalla parte degli abissini, verificate il giorno dopo, e confermate dalle relazioni dei prigionieri europei, raggiunsero l’enorme cifra di 370 morti e circa 150 feriti: due soli furono fatti prigionieri durante l’azione.

Ebbero parte principalissima, nei danni arrecati agli abissini, il fucile Snider e le granate dei piccoli pezzi da montagna: le racchette ebbero un effetto morale immenso e poco più.

Si calcola che in quelle due ore siano stati sparati, da parte degli inglesi, 19000 colpi di fucile e 400 di cannone e racchette.

Durante la notte venne a raggiungere il campo la 2ª brigata tutta intiera; e alle cinque del mattino le truppe si disponevano già in ordine di attacco: le brigate in due linee, e l’artiglieria in buone posizioni per proteggere ed assecondare il movimento. Ben presto però si spargeva nel campo la voce che due dei prigionieri europei si trovavano all’attendamento del generale in capo. [p. 36 modifica]

Erano giunti infatti il tenente Prideaux ed il signor Flad mandati dal re per conoscere a quali condizioni sir Robert Napier avrebbe fatto la pace.

L’effetto morale della sconfitta del giorno avanti era stato immenso: la maggior parte dei soldati abissini usciti per combattere non erano più rientrati, ed i pochi rimasti si mostravano assolutamente avversi a continuare la lotta: il re, mezzo ubbriaco di tegg, specie di birra del paese, aveva fatto ogni sforzo, dopo il combattimento, per ricondurre un po’ d’ordine e di coraggio nelle sue file; ma non v’era riuscito, e s’era ridotto a passare la notte sull’altura di Falla piangendo e gridando di dolore e di rabbia. Verso la mattina i fumi del tegg s’erano dissipati, ed egli aveva potuto giudicare a sangue freddo la sua disperata situazione: chiamati a sè i signori Flad e Prideaux, e presa in mano una racchetta aveva esclamato, in un tuono tra il tragico ed il burlesco: «Cosa volete che faccia con un nemico che dispone di simili armi? Avevo creduto finora di essere un gran re, ma mi accorgo oggi di avere a fare con un re ben più potente di me; andate a chiedere a quali condizioni mi si vuol dare la pace».

Le condizioni di sir Robert Napier si limitarono alla seguente: Resa a discrezione; — e l’unica promessa fu che la vita del re sarebbe stata salva.

Verso mezzogiorno i due ambasciatori lasciarono il nostro campo, non troppo soddisfatti in verità, giacchè temevano che la risposta di cui erano latori attirasse una decisione terribile da parte del re. Quest’ultimo infatti proruppe in un accesso di furore, ed i prigionieri europei credettero, per un momento, che l’ultima ora fosse suonata per loro. Ma quale non fu la sorpresa di quegli sventurati nel sentirsi dire, poche ore dopo, che erano liberi tutti! Naturalmente non se lo fecero ripetere, e scesero la sera stessa al campo inglese.

La giornata del 12 giunsero a sir Robert Napier 4500 capi di bestiame mandati dal re in segno di amicizia: ma anche questo tentativo fu respinto con sdegno.

Ridotto a tal punto, Teodoro dichiarava ai pochi soldati rimastigli che chi non era pronto a morire con lui era libero d’andarsene. Poco più di cento vollero dividere la sorte del re: tutti gli altri scesero la mattina del giorno dopo al campo inglese, ove, deposte le armi, furono lasciati in libertà. [p. 37 modifica]

A mezzogiorno del 13 scadeva il tempo concesso al re per decidersi: e sir Robert Napier, non vedendo giungere a quell’ora alcun messaggero, ordinò alle truppe di avanzarsi. Poche compagnie di fanteria inglese (45°), stese in cacciatori, e seguite, a distanza, da altre truppe formate in colonna, si avanzarono sino alla cresta tra le alture di Salassie e di Falla: — di là esse poterono scorgere pochi uomini del re occupati a trascinare verso Magdalà i sette pezzi che il giorno 10 avevano fatto fuoco da Falla. Sorpresi ed assaliti, gli abissini abbandonarono immediatamente quei cannoni, e si posero in fuga lasciando lungo la strada qualche morto e qualche ferito.

Il generale Staveley, comandante in 2º della spedizione, fece allora avanzare tutta l’artiglieria (due batterie da montagna, una di racchette, quattro pezzi Armstrong da 12, e due mortai da 8 pollici), le fece prendere posizione sulla cresta stessa o poco sotto, ed ordinò che cominciasse il fuoco contro Magdalà. Mentre si stavano prendendo le disposizioni necessarie per l’esecuzione di tale ordine, alcuni pochi impazienti si spinsero avanti e, voltati contro Magdalà i cannoni di re Teodoro, li caricarono colle loro stesse munizioni e fecero fuoco.

Il primo colpo era stato sparato verso le 2 dopo mezzogiorno, ed alle 4, vale a dire dopo 2 ore di fuoco, fu deciso di mandare la fanteria all’attacco.

Re Teodoro, il quale sino allora era rimasto coi suoi fedeli al piede della salita di Magdalà, vedendo avanzare la fanteria, andò a porsi a riparo dietro al primo muro, chiudendo con pietre la porta d’entrata.

Giunti a quel muro, sotto il fuoco debolissimo ed incerto dei difensori, e trovato ingombro il passaggio, gli attaccanti si gettarono un poco a destra e in pochi minuti riuscirono ad aprire una breccia. Teodoro, vista invasa la prima linea, senza quasi opporre resistenza, corse a ripararsi dietro la seconda, ma non abbastanza in tempo da poterne impedire l’ingresso alla colonna irrompente degli assalitori. Costoro, giunti entro Magdalà, non vi trovarono più che pochi fuggiaschi. Un ufficiale si diresse immediatamente alla capanna che gli era stata indicata come residenza del re; ma in quel frattempo una donna abissina chiamava l’attenzione dei soldati inglesi su un cadavere giacente non lungi dal muro, accennandolo colla mano e gridando: Negus, Negus! [p. 38 modifica]

Era infatti il re, il quale, quantunque ferito ad una gamba, aveva voluto assistere fino all’ultimo allo svolgimento del dramma, e s’era poi dato la morte scaricandosi una pistola in bocca.

Verso le 7 di sera tutto era finito, e le tende inglesi si rizzavano sull’altura di Magdalà.

Al piede della salita e dentro la prima linea furono trovati parecchi morti e feriti abissini: alle truppe inglesi la vittoria non era costata che 10 feriti.

Il giorno seguente, 14, fu impiegato a riconoscere i risultati ottenuti: novanta e più capi abissini, già prigionieri di re Teodoro in Magdalà, furono liberati: le donne del re, e tutte le famiglie dei soldati ebbero ordine di ritornare ai loro paesi: venne stabilita entro Magdalà una commissione incaricata di raccogliere tutto il buono che vi si trovava, per venderlo all’incanto e costituire un fondo di premio alla truppa. Il cadavere del re, lasciato alle cure della regina e dei suoi servi, fu sepolto, verso la sera di quel giorno, entro la chiesa di Magdalà.


I cannoni del re erano stati trovati, parte a Falla, parte sulla strada, e parte sulla pianura d’Islamghi; gli affusti, pesanti e tagliati un po’ rozzamente, erano tuttavia di ottimo modello; le bocche a fuoco erano 37 e precisamente:

24 cannoni di bronzo, dei quali:

3 del calibro di 6 a 7 pollici (lancianti proiettili di 50 libbre di antimonio e zinco )
3 » di 4 a 5 »
9 » di 3 a 7 »
9 » di 2 a 3 »
4 piccoli cannoni di ghisa di due pollici di calibro;
9 mortai di bronzo, dei quali:
1 del calibro di 20 pollici (spessore del metallo 8 pollici)
1 » di 13 »
2 » di 10 »
1 » di 6 »
3 » di 3 1/8 » (due di questi con iscrizioni furono conservati)
1 » di 2 1/4 »
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Tutti i mortai erano stati fabbricati nel paese, ed alcuni di essi portavano iscrizioni amariche nitidissime: il meglio fuso era il mortaio di 43 pollici.

Quattro dei cannoni erano pezzi dell’artiglieria turca di campagna: due erano inglesi fusi a Cassipore presso Calcutta e regalati già al re di Scioa da Harris: due erano francesi di vecchia data.

Tutti erano in buono stato di servizio, eccetto uno dei tre più grossi che era scoppiato a Falla nell’azione del 10 aprile.

Le scatole di mitraglia contenevano palle e segatura di ferro cementata con sterco bovino.

Furono trovate fucine inglesi di diverse sorta.


Il giorno 15 i pezzi erano ancora dove erano stati trovati; ma un ufficiale d’artiglieria con alcuni pochi soldati procedeva già a far scoppiare le canne ed abbruciare gli affusti.

La strada dal campo inglese a Magdalà era ancora coperta, letteralmente coperta, da cadaveri di muli e cavalli; e quel giorno, ancora, alcuni soldati erano occupati nel primo campo di re Teodoro sotto l’altura di Salassie ad abbruciare i cadaveri delle vittime del 10.

Un orribile spettacolo si offriva allo sguardo di chi, dalla pianura di Islamghi, s’affacciasse a contemplare le roccie sottoposte: erano mucchi di cadaveri ignudi, con mani e piedi legati insieme da catene. Quegli sgraziati (un 300 circa tra uomini e donne, e per la maggior parte Gallas prigionieri di guerra) avevano fornito l’ultimo tema al feroce genio inventivo di re Teodoro; il quale, appunto una settimana prima, li aveva fatti condurre presso il precipizio, e legatili in quel modo, s’era divertito a scannarli di propria mano, poi a farli ruzzolare per quelle roccie.

A Magdalà era dovunque un grande affaccendarsi a frugare e rovistare in quelle capanne per raccogliere e classificare tutto quanto vi si trovava: il quartiere dei prigionieri (e per quartiere s’intende un gruppo di capanne circondato da siepe) era stato vuotato in tempo dagli interessati: il quartiere dove aveva abitato il re colle sue donne era stato sin dal primo giorno il punto di mira dei vincitori, e non offriva più nulla fuorchè le pareti; ma in compenso rimaneva ancora intatto l’arsenale o tesoro del re. Cinto anch’esso da siepe, si componeva di una ventina circa di capanne tutte piene zeppe di provviste d’ogni genere gettate là alla rinfusa; tappeti di Persia [p. 40 modifica]usati, — armi a fuoco portatili, d’ogni modello, da quelle a focaia sino a quelle caricantisi per la culatta, non esclusa una carabina-revolver, — lancie e scudi a profusione, — ornamenti ed arredi sacri in argento e rame, malconci e sformati, — croci di ottone d’ogni dimensione, a centinaia, — libri amarici a mucchi, — gingilli di metallo da appendersi alle testiere dei cavalli, — due mitrie dell’abuna, — polveri e munizioni d’ogni sorta, — bicchieri in osso, di corno, fiaschi e bicchieri in vetro d’ogni forma e d’ogni colore..... insomma una raccolta da degradarne il ghetto meglio fornito.

Anche la chiesa di Magdalà, come tutte le altre da Antalo in poi, era a base circolare e tetto conico, con un tamburo interno in muratura, ed un corridoio, le cui pareti erano affatto nude di dipinti. Presso la porta della chiesa, era sospesa, ad una trave sostenuta da due pali, una campana in bronzo.

Il cadavere del re era stato sepolto il giorno 14 in una fossa scavata nel corridoio.


Il giorno 16 la valle del Bascilo e la salita all’altipiano di Talanta offrivano uno spettacolo ben curioso, e in pari tempo ben triste: ventimila indigeni, per la maggior parte donne, vecchi e bambini, si accalcavano su quella strada laceri, piangenti, affamati, offrendo allo sguardo tutta la immensa varietà delle miserie umane. Erano gli avanzi dell’esercito di re Teodoro, erano le famiglie dei soldati che avevano seguito fino all’ultimo la fortuna del re; camminavano carichi delle loro poche masserizie, spingendosi innanzi, a grande stento, un numero sterminato di muli e di somari pure carichi. Le fatiche della marcia e il calore eccessivo della giornata avevano posto il colmo a privazioni e dolori, sopportati da Dio sa quanto tempo; e si vedevano, ad ogni tratto, piccoli gruppi di famiglie intere staccarsi dalla strada per trascinarsi fin sotto un albero ed implorare di là, con grida e con pianti, la pietà dei compagni e il refrigerio di un po’ d’acqua: qua e là era qualcuno che moriva, e i parenti gli si accalcavano intorno coprendo coi loro urli i suoi ultimi gemiti, strappandosi i capelli, battendosi il petto con pietre; dovunque era un gridare, un chiamarsi, un piangere continuo.

E frattanto, le montagne vicine si coprivano, di tratto in tratto, di Gallas venuti per vendicare su questi sgraziati il sangue dei loro fratelli rimasti vittime della crudeltà di re Teodoro; e i distac[p. 41 modifica]camenti di truppa, erano costretti a far fuoco per tener lontano i selvaggi aggressori.

Riposatasi un giorno sull’altipiano di Talanta, quella turba infelice si pose di nuovo in moto per attraversare il Gidda e raggiungere l’altipiano di Uadela: erano per la maggior parte nativi di DebraTabor e Gondar, e si avviavano verso le rovine di quelle due città.


Il giorno 17, dal campo di Talanta si potè assistere allo spettacolo di Magdalà in fiamme. Il generale in capo aveva ordinato che si abbattessero le due barriere in muratura, che si desse fuoco alle capanne, che si distruggesse ogni vestigio di quella sentina d’iniquità. Egli aveva solo raccomandato che si risparmiasse la chiesa; ma fu impossibile deviarne le fiamme: e così, forse, nessuno sa ormai più indicare dove riposino le ceneri di quell’uomo che per tanti anni agitò e sconvolse l’Abissinia intiera e attirò a sè, per qualche tempo, anche gli sguardi d’Europa.


Il giorno 18 la regina dei Gallas, invitata da sir Robert Napier, prendeva possesso di Magdalà: ed il giorno seguente le truppe inglesi ripassavano il Bascilo, conducendo seco la vedova ed il figlio di re Teodoro ed i prigionieri europei liberati. Questi ultimi sommavano in tutto a 61; ma, esclusi Cameron, Prideaux e Rassam, la cui liberazione era stata lo scopo principale della guerra, tutti gli altri erano missionari tedeschi od inglesi, ed artigiani o domestici venuti al loro seguito.

La vedova del re, sopraffatta forse dal dolore, morì pochi giorni dopo nel campo inglese: il figlio, accompagnato più tardi in Inghilterra, fu educato a spese della regina Vittoria1.

Il 21 aprile, dopo una rivista passata alle truppe dal comandante in capo, cominciavano le marcie del ritorno, ed ai primi di giugno del 1868 la bandiera inglese non sventolava già più in Abissinia.

Note

  1. Mori il 14 novembre 1879, dell’età di 18 anni, e fu sepolto nel castello di Windsor. Nella cappella del castello si legge la seguente iscrizione: «Non lungi di qui riposa Alamayn, figlio di Teodoro, re d’Abissinia, nato il 23 aprile 1861, morto il 14 novembre 1879. Questa lapide è stata collocata qui, in memoria di lui, dalla Regina Vittoria». — «Io ero senza tetto e voi m’avete ricoverato».
    Sopra l’iscrizione è inciso un leone colla testa sormontata da una torre e da una croce e sotto si vede S. Giorgio col drago.