La tempesta (Shakespeare-Rusconi)/Atto secondo

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Atto secondo

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William Shakespeare - La tempesta (1612)
Traduzione dall'inglese di Carlo Rusconi (1858)
Atto secondo
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ATTO SECONDO



SCENA I.

Un’altra parte dell’isola.

Entrano Alonso, Sebastiano, Antonio, Gonzalo, Adriano, Francisco, ed altri.

Gonz. Signore, ve ne supplico, riassumete un aspetto sereno: voi ne avete ben donde; chè la nostra disgrazia è lieve, paragonata al pericolo da cui ci siamo salvati.

Al. Lasciatemi in pace, ve ne prego.

Gonz. Mi tacio, signore. Ma non vi piglia stupore al veder questo mio mantello così terso come il primo dì che lo indossai per le nozze di vostra figlia?1 Miracolo non vi sembra il veder ciò dopo una tale tempesta?

Al. Voi mi suscitate internamente idee dolorose, che mi straziano il cuore. Piacesse a Dio che non avessi mai unita mia figlia al re di Tunisi, chè ora in questo infausto ritorno non avrei da piangere il figliuolo mio! Così l’una è legata tanto lungi dall’Italia, che non la rivedrò mai, l’altro... oh erede! oh figlio mio! di qual mostro divenisti tu preda?

Franc. Signore, potrebb’essere che vostro figlio vivesse ancora. Io lo vidi quando domava le onde, e le frangeva valorosamente col petto; intantochè la sua nobile testa, elevandosi fra la bianchezza dei flutti, pareva dominarli, e delle nervose braccia facea remi a un rapido corso. Sì, certo ei vive; certo giunse a terra.

Al. No; ei più non è!

Seb. Sire, voi solo vi siete meritato il rimorso di questa gran perdita. Voi non voleste che la nostra Europa s’abbellisse di vostra figlia, e meglio vi piacque di metterla fra le braccia d’un Africano, dove la più lieve sventura che le può incogliere è di essere bandita lungi dagli occhi vostri. A lavar tal colpa dovrete sparger molte lagrime. [p. 247 modifica]

Al. Oh! non mi infestate.

Seb. Voi foste assalito di preghiere da ciascuno di noi, onde distogliervi da quell’infausto proposito. Quell’anima candida e timida di vostra figlia stessa vacillò a lungo fra la sua avversione e l’obbedienza che vi doveva. Ah! pur troppo ben temo che non abbiam perduto il figlio vostro per sempre, e che Milano e Napoli non debbano vestire a lungo il bruno per colpa vostra.

Al. Ma niuno più di me...

Gonz. Signore (a Sebastiano), voi dite cose vere; ma troppo aspre, io temo, e intempestive. È crudele cosa lo stuzzicare la piaga allorchè occorrerebbe un balsamo per addolcirla.

Seb. Ben detto.

Ant. Egregiamente.

Gonz. (al Re) Signore, il più bel giorno si fa tenebroso per noi, dacchè la vostra fronte si cuopre di nubi.

Seb. Si fa tenebroso!

Ant. Assai tenebroso!

Gonz. E s’io venissi a coltivar quest’isola, signore...

Ant. E’ vi seminerebbe l’ortica.

Seb. Con dumi e malva.

Gonz. E se re ne fossi... sapete che ne farei?

Seb. Non un ricettacolo d’ubbriachi per difetto di vigne.

Gonz. Se re ne fossi, vorrei governarla con principii del tutto opposti a quelli che reggono altrove. Anzi tutto, non vi ammetterei alcuna specie di traffico; poi i nomi di magistrato, i processi e le scritture non vi allignerebbero; nè ricchezza o povertà, nè famigli o signori vi sarebbero conosciuti. I contratti, le eredità, i limiti, le divisioni dei campi sarebbero cose sbandite di qui; nè vorrei vi si avesse nozione d’oro, d’olio, di vino, di biade; talchè senza fatica gli uomini e le donne, amabilmente oziosi, si passerebbero la vita in una castità intemerata.

Seb. Ciò che sarebbe assai arduo da compiere, quando pure fosse monarca.

Gonz. Tutti i beni amministrati in comune, come la natura li dispensa all’uomo senza pene o travagli, farebbero sì che qui non si vedrebbero strumenti da guerra, o tradimenti, o fellonie; ma solo una pace beata, ed ozii pieni di soavità.

Seb. E forse proscriverebbe ancora il matrimonio.

Ant. Non vuolsi dubitarne: (con voce sommessa) oziosi tutti; un popolo di vili e di meretrici.

Gonz. E regger lo vorrei con bilancia così equa da offuscar tutto il lustro dell’età dell’oro. [p. 248 modifica]

Seb. Dio conservi sua Maestà.

Ant. Lungamente regni Gonzalo!

Gonz. Ascoltami, signore.

Al. In mercè, taci: favelli inutilmente per me.

Gonz. Vi credo, Altezza; ma ciò ch’io dissi, lo dissi solo onde aguzzar gl’ingegni di questi due nobili cavalieri, che così sovente ci allietano con motti spiritosi.

Ant. Ma voi eravate ora il bersaglio.

Gonz. Io stesso? Oh! in fè, signori, che siete valenti. Ben m’è avviso che sareste da tanto da imprender l’assalto della Luna, se si mostrasse trenta dì senza mutare aspetto. (entra Ariele invisibile suonando una musica grave)

Seb. Sì, ciò ancora ardiremmo; e guai allora (guardando Gonzalo) agli uccelli notturni.

Ant. Via, messere, non vi adirate.

Gonz. Nol farò; ed anzi vi prego a continuar le vostre facezie, onde vieppiù cresca quel sopore che già mi s’è infuso per tutte le membra.

Ant. Su dunque, dormite, e porgetene orecchio. (tutti s’addormentano, tranne Alonso, Sebastiano e Antonio)

Al. Oh in qual letargo caddero! Piacesse al Cielo che il sonno, chiudendo le mie palpebre, addormisse ancora i miei pensieri. Ben sento che i miei occhi stentano a restare aperti.

Seb. Signore, non combattete il pacifico sonno che vi si offre. Di rado esso si stende sulla sventura; e quando lo fa, è onnipossente consolatore.

Ant. Noi entrambi, Sire, custodiremo la vostra persona; e mentre dormite, veglieremo alla vostra sicurezza.

Al. Accetto l’offerta... il sonno interamente mi vince. (Alonso dorme; Ariele scompare)

Seb. Da che procede tanto sopore?

Ant. Forse dalla natura del clima.

Seb. L’aria parmi però abbastanza dolce.

Ant. Sì, essa ne aleggia intorno come se fosse esalata da due polmoni corrotti, od assorbito avesse, passando, i profumi che s’innalzano da una palude.

Seb. Se ciò è vero, perchè non ne sentiamo noi ancora l’influenza? Io non provo alcun bisogno di riposo.

Ant. Nè io pure. Ma costoro caddero tutti addormentati, e giacciono a’ nostri piedi come se un colpo di fulmine gli avesse abbattuti. Amica fortuna!... Ma non dirò che una parola; e nondimeno... parmi leggere sul vostro viso tutto quello che [p. 249 modifica]potreste essere... l’opportunità è eloquente; i miei spiriti esaltati veggono discendere sul vostro capo una corona.

Seb. Oh! siete voi desto?

Ant. Non m’udiste parlare?

Seb. Udii; ma i vostri discorsi erano d’uomo che dorme: fra il sonno parlavate; e quali erano le vostre parole! Strana cosa è l’assistere a tale un sonnambulismo.

Ant. Nobile signore, tu lasci dormir la tua fortuna; fa ch’ella muoia piuttosto: e tu, che vegli, chiudi gli occhi, e rifiuta di vederla.

Seb. Tu parli fra il sonno; ma nel tuo sonno è un alto senso.

Ant. Parlo con miglior senno che aver non ne soglia; e, se ben m’ascolti, intender devi a grandi cose. Odimi, e tu sali all’apice della grandezza.

Seb. Sia pure; sarò per poco acqua stagnante.

Ant. Ma io t’aprirò la via, per cui tu possa fluire.

Seb. Sia; dacchè la pigrizia nativa mi rende sempre inerte.

Ant. Oh se voleste confessar di quanto sorriso v’è largo questo disegno di cui vi fate beffe, e come schernendolo ei vi s’addentri nell’anima! Sovente infatti i caratteri deboli e ondeggianti sprofondano vieppiù in un’impresa per l’effetto stesso del loro timore, e per il peso della loro indolenza.

Seb. In mercè, spiegati. Il tuo occhio fiso e il tuo volto animato annunziano un divisamento che l’anima tua arde di palesare.

Ant. Ascoltalo. Sebbene costui, la cui memoria è sì breve, e che ugualmente breve lascierà di sè ricordanza posto che sia sotterra, ottenuto abbia quasi il suo intento nell’indurre il re a credere che suo figlio vive ancora, è pure tanto impossibile che quel figlio respiri, quanto lo è che costui nuoti ora in alto mare.

Seb. Io non nutro la più lieve speranza intorno alla vita di Ferdinando.

Ant. Ma questo difetto di speranza di quanto bell’avvenire non viene fecondo per voi? Disperar da questo lato è nutrir d’altra parte sì liete lusinghe che l’occhio stesso dell’ambizione resta abbagliato da quella lucida meta, e dubita della realità di ciò che discerne. Piacevi convenir meco nella sentenza che Ferdinando annegò?

Seb. Piacemi.

Ant. Ora chiaritemi qual sia l’erede di Napoli?

Seb. Claribel.

Ant. La regina di Tunisi? Donna che abita in lidi sì remoti da [p. 250 modifica]non ricever mai novelle di Napoli, se il Sole stesso non assume il messaggio, ripudiando la tarda via che segue il carro della Luna? Sì, se un fanciullo nascesse colà nel giorno di qualche avvenimento italiano, prima che a lui ne giungesse notizia, l’età ombrerebbe di peli il suo viso. Lungi dunque i nostri pensieri da quella donna che abbiamo condotta così lontano, e per cui fummo quasi inghiottiti dalle onde.

Seb. Ove vanno a parare queste parole? a che intendete? Sì, è vero, la regina di Tunisi è figlia di mio fratello; e per questo titolo le spetta il trono di Napoli.

Ant. Ma ella è a tale distanza da Napoli, che ogni cubito che ne la separa, che ogni onda che fra quelle due terre si frappone, sembra mugghiando dire: «Oh! come quella Claribel mi valicherebbe per ritornare a Napoli?». Obbliatela in Tunisi, e svegliatevi, che n’è tempo. Ditemi, se la morte fosse che avesse qui prostrati costoro, in che differirebbero le condizioni loro dalle presenti? E pure tal uomo v’è, che potrebbe reggere Napoli al par di questo re che dorme; cortigiani vi sono, che saprebbero perorar meglio di questo noioso Gonzalo; amici esistono per appoggiare un valente in un’impresa ardimentosa. Ah! perchè non avete l’anima mia? qual sonno sarìa questo per la vostra elevazione! M’intendete adesso?

Seb. Credo di sì.

Ant. E con qual cuore accogliete tanta fortuna?

Seb. Ricordandomi che voi discacciaste un dì vostro fratello Prospero.

Ant. Sì; e mirate come ben mi si addice questo mantello! quanta grazia acquistò sul mio dorso! I sudditi di mio fratello furono un tempo miei eguali; ora io sto sopra di loro.

Seb. Ma la vostra coscienza?...

Ant. Ah! in verità sarebbe da ridere: di che mi parlate? Se un tumore m’enfiasse un piede, allenterei la calzatura; ma porto mondo il seno di tal divinità. Dieci coscienze che s’elevassero fra me e il mio trono di Milano, potrebbero subire e geli e caldi, e sollioni e rovai, senza ch’io ne fossi per nulla scosso. Ecco vostro fratello, che giace ai vostri piedi: ei non sarebbe superiore a questa terra su cui si adagia, se fosse ciò ch’esser rassembra... estinto. Io stesso potrei, valendomi di questo ferro... con tre pollici soltanto di esso, addormentarlo per sempre. Imitando l’opera mia, voi potete immerger nell’eterno sonno quel vecchio loquace, quel vano cianciatore, che ci fa mai sempre scopo a’ suoi dardi. Allora il resto de’ cortigiani abbraccierà la nostra causa [p. 251 modifica]con quell’ardore con cui il lattante s’attacca al seno che gli è liberale di nutrimento, e muoverà per ogni intrapresa che gli accenneremo di compiere.

Seb. La tua condotta, amico, mi sarà d’esempio. Come tu ottenesti il trono milanese, io otterrò il napolitano. Snuda la spada, e ferisci: un colpo solo ti redima dal tributo che paghi; e fa di me un re a cui tu sarai sempre accetto.

Ant. Sia; e quando alzerò il braccio, alza a tua posta il tuo per trafigger Gonzalo.

Seb. Una parola ancora. (favellano sommesso; musica; rientra Ariele invisibile)

Ar. Il mio signore coll’arte sua vede il pericolo a cui questi amici suoi vanno incontro. Ei m’invia per salvarli, o vano riuscirebbe ogni suo divisamento.

(canta all’orecchio di Gonzalo)

«Mentre dormite assorto in placida quiete, la cospirazione dall’occhio arguto sceglie il suo momento. Oh! se vi cale di questo lume di cielo, scuotete il sonno, e vegliate su di voi. Sorgete, sorgete; dolcissimo è il giorno».

Ant. Uccidiamoli tosto.

Gonz. Pietosi angeli del cielo, salvate il re!

(tutti si svegliano)

Al. Che avvenne? a che quelle spade? perchè quegli sguardi feroci?

Gonz. Che fu?

Seb. Mentre qui vegliavamo per difesa vostra, udimmo orrendi uggiti di tori o di lioni. Questo vi riscosse... questo ne colpì di spavento.

Al. Io non intesi nulla.

Ant. Oh! fu fragor tale da atterrire una fiera, da far tremare la terra: certo era un gruppo di lioni che per fame ruggivano.

Al. Gl’intendeste, Gonzalo?

Gonz. No, Sire; ma udii un concento che mi risvegliò. Mandai lui grido spalancando gli occhi, e vidi costoro coi ferri branditi. Un romor s’intese, è pur vero; ma fu romore che ne avvertiva di star cauti, o meglio ancora di abbandonar questi luoghi sguainando le daghe.

Al. Allontaniamoci adunque, e continuiam le indagini pel mio infelice figlio.

Gonz. Lo salvi il cielo dalla ferocia di queste fiere dell’isola; chè qui certo egli respira.

Al. Ite; vi seguo. [p. 252 modifica]

Ar. Prospero saprà ciò che ho fatto: tu intanto va, o principe; io credo ti sarà dato di proseguire senza pericoli le ricerche per tuo figlio.               (escono)


SCENA II.

Altra parte dell’isola.

Entra Caliban con un carico di legna.

S’ode un fragor di tuono.

Cal. Tutti i veleni che il sole assorbe dalle acque stagnanti, dai paduli e dai pantani, si distillino entro il petto di Prospero, e non lascino meato del suo corpo senza dolori! So che i suoi spiriti m’intendono; ma non posso astenermi dal maledirlo. Oh! essi non verranno, senza averne da lui comando, a morsecchiarmi, ad atterrirmi colle spaventose lor faccie, ad immergermi entro flutti corrotti; o, splendenti durante la notte come tizzi di fuoco, a farmi deviare dalla strada, schernendomi poscia o con ismorfie di scimmia, o con crude punture di riccio. Nè di rado anche accade che, fattami di tutto il corpo una piaga, prendessero le forme di lubrici serpenti; e avvintomi intorno intorno per tutte le membra, mi vibrassero negli orecchi le loro lingue forcute, intronandomi con sibili tali, da rendermi pazzo. (entra Trìnculo) Oh! oh! Ecco uno de’ suoi spiriti che viene a flagellarmi per la mia lentezza. Gettiamoci boccone per terra; forse non mi vedrà.

Trìnc. Qui non sono nè arbusti nè cespugli che offrir possano riparo alle ingiurie del tempo; ed ecco un nuovo uragáno che dal cielo minaccia. Quella negra nube, che va ingrossando sovra il mio capo, sembra un’immensa botte in procinto di spalancarsi, e di vomitar sulla terra fin l’ultima stilla di liquore che vi sta dentro. Se il tuono ripete la canzone che eseguì dianzi, non so dove il mio capo troverà sicurezza. Ah! la maledetta nube, non può dubitarsene, fra poco verserà le sue secchie. (vede Caliban) Oh! chi è costui? Un uomo o un pesce, un vivo o un estinto? È un pesce... (lo fiuta) un bietolone di pesce già ammuffito. Strana bestia però! E se fossi ora in Inghilterra, come fui un tempo, e avessi meco quest’animale anche solo dipinto, credo non vi sarebbe babbaccio che non ispendesse il suo obolo per vederlo. Là, là, tal mostro farebbe la celebrità d’un uomo, là dove ogni bestia rara arricchisce chi n’è possessore. Mentre si rifiuterà in quel paese un quattrinello allo storpio mendicante, se ne prodigheranno dieci per contemplare un indiano morto... Ma pel Cielo! costui ha le gambe da uomo, e invece di pinne gli si [p. 253 modifica]allungano dalle spalle due sterminate braccia! Foss’uomo?.... In fede, in fede, ch’è caldo ancora. Bando alla prima idea. Costui non è pesce; è uomo, è un isolano, che il fulmine atterrì. (s’ode il tuono) Oimè! la tempesta comincia! Ove m’asconderò? Il miglior riparo, che qui mi s’offra, è la casacca di costui. Rannicchierommivi sotto; e avvenga che può. La sventura accoppia l’uomo con istrani compagni di letto... Ma alla buon’ora! giacerò qui finchè il temporale sia passato. (s’avviluppa sotto la pelliccia di Caliban; entra Stefano cantando, con una bottiglia in mano).

Stef.

«Non più mare, non più mare;
Morirò su questa sponda...»

È una brutta antifona quella che s’innalza pei proprii funerali; ma ecco onde trarrò conforto,     (beve)

«Mozzo e Boatswain, Capitano e brigata,
In tutti era amor per la bella Ghitina;
Da tutti blandita, da tutti bramata,
Finì per morir nella sozza sentina;
Onde la Meg2, di tal guaio infuriata,
Imprecò il mare, imprecò la meschina.
Sia maledetta la strega dannata!
Venga la peste alla turpe sgualdrina!
La peste, la peste, oh la peste! oh! oh! oh!
L’incubo, l’incubo a chi amor le portò!»

È una brutta antifona; ma questo è il mio refrigerio.      (beve)

Cal. Non mi date noia, oh!

Stef. Di che si tratta? Diavoli! (vedendo Caliban) Il paese abitato dai diavoli è questo? Oh! vestite alla foggia de’ selvaggi, alla foggia degl’Indi, per farne goffi?3 Ah! ma non mi sarò salvato dalle onde per aver timore delle vostre quattro zampe; chè già fu detto di me: l’uomo più proprio che mai camminasse su quattro piedi, nol farebbe rinculare; e ciò dirassi finchè Stefano sorbirà l’alito colle narici.

Cal. Lo spirito mi da noia. Oh!....

Stef. Quest’è qualche mostro dell’isola con quattro gambe, che sarà stato colto, immagino, da una subitanea febbre. Dove, diavolo, apprese egli il nostro idioma? Non fosse che per ciò, [p. 254 modifica]voglio soccorrerlo. Se lo posso sanare, e renderlo mansueto, lo porterò meco a Napoli, e sarà un dono degno del più grande imperatore che mai s’allacciasse i piedi con sandali di cuoio forbito.

Cal. Non tormentarmi, te ne prego; recherò la legna immantinente.

Stef. È matto! è un mostro matto! Gli darò a bere colla mia bottiglia; e se mai non assaggiò vino, questo gli toglierà ogni male. Se giungo a guarirlo e a domarlo, ne otterrò quel prezzo più alto che mi piacerà di chiederne.

Cal. Tu non mi fai molto male sinora; ma fra poco farai: sento a’ tuoi fremiti che già Prospero t’incalza.

Stef. Su, su, apri la bocca; non muover la faccia; ecco un liquore che ti farà dire mirabilie. Alto, orso, alto; e la febbre se n’andrà. (Caliban beve) Ebbene! non conosci la bontà dell’amico che t’assiste? Animo, apri la bocca di nuovo.

Trìnc. Dovrei conoscere questa voce..... dovrebbe essere..... ma egli è annegato, e cotesti son diavoli. Oh Dio! difendetemi.....

Stef. Quattro gambe e due voci: mirabile mostro! La sua voce di prora e’ l’usa nel dir bene dell’amico; quella di poppa per dirne male, e proferir pazze parole. Se tutto il vino del mio otre vale a risanarlo, voglio vincerne la febbre. Così sia: amen. Lasciami mescere nell’altra tua bocca....

Trìnc. Stefano.....

Stef. L’altra tua bocca mi chiama? Misericordia! È il diavolo, non è un mostro!.... Lasciamolo, lasciamolo; che non ho il cucchiaio lungo...4

Trìnc. Stefano!.... Se tu sei Stefano, avvicinati, toccami, parlami, perch’io son Trìnculo..... non temere..... Trìnculo, il tuo buon amico.

Stef. Se Trìnculo sei, vien fuori. Io ti trascinerò per queste gambe, che son le più corte: e se qui son gambe che a Trìnculo appartengono, saranno senza dubbio quest’esse. (tira Trìnculo) Affè! che sei quello! Or come ti facesti stramazzo d’un orso marino?5 non saresti tu che un Trìnculo esalato dal suo soffio?

Trìnc. Io l’aveva creduto ucciso di fulmine; e ciò fu... ma tu non annegasti dunque, Stefano? Ora ho speranza che non sii [p. 255 modifica]annegato. La tempesta alfine si dileguò? Per timore di essa, io mi nascosi sotto la casacca del mostro... E tu pur vivi, Stefano? O Stefano, ecco due Napoletani che si sono salvati!

Stef. Te ne prego, non commuovermi tanto; il mio stomaco è fin qui poco affrancato.

Cal. Queste son due belle creature, se spiriti anche non sono. Quegli poi è un valente Dio, e possiede un liquore celeste! Vuo’ inginocchiarmegli.

Stef. Come ti salvasti? come venisti qui? Giurami su questa bottiglia in qual modo qui venisti. Io scampai sopra una botte di vino che i marinai rotolarono in acqua; e ne attesto quest’otre, che feci io stesso colla corteccia d’un albero appena approdai qui.

Cal. Giuro su questa bottiglia d’esserti suddito fedele, perocchè il tuo liquore non è cosa di questa terra.

Stef. Su, su; giura come ti salvasti.

Trìnc. Nuotando fino a terra come un’anitra; e io valgo bene un’anitra al nuoto.

Stef. Qui; bacia il libro per prova (offrendogli la bottiglia), che, sebbene sii anitra nel nuoto, rimani oca pur sempre in ogni altra cosa.

Trìnc. O Stefano, ti resta ancora molto di questo vino?

Stef. Tutta la botte, marinaio; e la mia caverna è alla sponda del mare sopra una roccia, dove il mio liquore è nascosto. (a Caliban) Ebbene, orso, come va la tua febbre?

Cal. Non sei tu caduto dal cielo?

Stef. Sì, dalla Luna, te ne assicuro. Io era abitatore della Luna da immemorabile tempo.

Cal. T’ho veduto qualche volta in essa, e ti ho adorato. La mia signora ti additava a me insieme col tuo cane, e col tuo fascio di spine.

Stef. Vieni; giura tu ancora, e bacia il libro; fra poco lo fornirò di nuovo liquore: giura.     (Caliban beve)

Trìnc. Per questo buon lume di giorno, è davvero un vago mostro!... E avrei dovuto temerne? temer tal pecorone? l’uomo nella Luna? Ah! l’imbelle! Ma tracanni bene, mostro mio; bene, in verità.

Cal. Ti mostrerò ogni più fertile gleba di quest’isola, e ti bacierò i piedi; ma ti prego sii il mio Dio.

Trìnc. Per la luce; un mostro ben perfido ed ebbro: allorchè il suo Dio s’addormentasse, ei gli ruberebbe la bottiglia.

Cal. Bacierò i tuoi piedi, e giurerò d’esserti soggetto. [p. 256 modifica]

Stef. Avvicinati, inginocchiati, e giura.

Trìnc. Riderei fino a morirne di questo mostro insensato. Bestia perversa! mi sentirei cuore d’acconciarla come se ’l meriterebbe.....

Stef. Inchinati, e bacia.

Trìnc. Se non provassi pietà della sua ebbrezza. Abbominevole mostro!

Cal. Vieni: ti mostrerò le più fresche sorgenti; côrrò more per te; per te pescherò, e farò legna alla selva. Maledizione sul tiranno che finora servii! Non più gli arrecherò gli asciutti combustibili; ma seguirò te solo, te, uomo prodigioso.

Trìnc. Bestia faceta, che fa d’un ubbriaco l’ottava meraviglia!

Cal. Te ne prego, lascia ch’io ti conduca al selvaggio pometo, e che colle mie lunghissime unghie ti scavi la terra per estrarne frutti. Ti mostrerò i nidi della paurosa ghiandaia, e ti insegnerò come si prendano i suoi figli. Voglio guidarti dove fioriscono le due avellane, e farò traboccare a’ tuoi piedi le camozze. Verrai tu con me?

Stef. Verrò: segna la via, senz’altro. — Trìnculo, il re e tutta la brigata essendo andati sommersi, noi sarem qui i loro eredi. — Schiavo, (a Caliban) porta la mia bottiglia. Amico Trìnculo, mille volte ancora avrem di che riempirla.

Cal. (cantando da ubbriaco)

«Addio, signore; addio, addio».

Trìnc. Come ulula il mostro! come è già ebbro!

Cal.

«Non più fia che Caliban
Sudi la vita,
Onde gradita
Trovi la mensa
Sempre imbandita...
Ban, Ban... Ca... Caliban...
Un nuovo duce mi guida... Ban! Ban!»

Libertà! lieto giorno! Libertà! libertà! Giorno di gioia! libertà! libertà!

Stef. O nobil mostro, insegnaci la via.               (escono)




Note

  1. Qui traduciamo seguendo la lezione di Warburton, che differisce in questa scena dalla maggior parte dei codici di Shakspeare.
  2. Abbreviativo di Margherita.
  3. Frizzo, pretende il Warburton, lanciato contro Mandeville, che nei suoi viaggi alle Indie narrò aver traversato valli popolate di demoni, e aver veduto mostri più strani di quelli che Plinio attestò esistere.
  4. Allusione a un vecchio proverbio scozzese:
    «A chi mangia col Diavolo occorre un lungo cucchiaio». Grey.
  5. Il testo ha: moon calf; termine di rimprovero, che equivale a frutto di Luna; essendo volgare opinione che l’influenza lunare valesse a render ebete un fanciullo.