La vedova spiritosa/Atto II

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Atto II

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Atto I Atto III
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ATTO SECONDO.

SCENA PRIMA.

Don Anselmo e Clementina.

Anselmo. Ehi, dite, Clementina? (incontrandosi con Clementina)

Clementina.   Comandi.
Anselmo.   La zitella
Dov’è, che non si vede?
Clementina.   Sarà con sua sorella.
Anselmo. Ecco qui, tutto il giorno chiuse, appartate insieme.
Clementina. A voi che cosa importa?
Anselmo.   Sa il ciel perchè mi preme.
Dite a donna Luigia, per parte del padrone,
Che venga dal maestro a prender la lezione.
Clementina. Il padron non l’ha detto. Voi che virtù insegnate,
A dire una bugia, signor, mi consigliate?

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Anselmo. Distinguer non sapete ancor, figliuola mia,

Dai leciti pretesti l’illecita bugia.
È vero, anch’io l’insegno quest’ottima morale:
Per conseguire un bene, non si può fare un male.
Però nel caso nostro dirle che il zio l’impone,
Non è mal, se il comando è onesto, e si suppone.
Fate quel ch’io vi dico.
Clementina.   Signore, in vita mia,
Almen che mi ricordi, non dissi una bugia.
Non voglio principiare ad avvezzarmi adesso.
Non la dirò per certo.
Anselmo.   Ostinazion del sesso!
Che sì, che se vi chiedo qual sia la vostra età,
Saprete senza scrupoli negar la verità?
Clementina. Che sì, se vi domando se siete un uom sincero,
Cento bugie mi dite per sostener ch’è vero?
Anselmo. Posso giurar ch’io sono nemico degli inganni.
Clementina. Come poss’io giurare che son di dodici anni.
Anselmo. (Costei può rovinarmi, e mi può far del bene.
Con doni e benefizi convincerla conviene). (da sè)
Voi mi credete un tristo, lo soffro e vi perdono;
Venite qui, vo’ farvi conoscere chi sono.
Un galantuom mi ha dato cento zecchini nuovi,
Perchè una buona giovane da maritar ritrovi.
Si trovan scarsamente le buone ai giorni nostri:
Se l’occasion trovate, i ruspi sono vostri.
Clementina. Signor, voi condannate cotanto l’impostura,
E poscia mi venite con tal caricatura?
Anselmo. Voi non mi conoscete. Il ver dico e ragiono,
E se all’impegno io manco, un mentitore io sono.
Clementina. Che mi diciate il vero, provisi pria dal fatto,
E poi de’ miei sospetti mi pento e mi ritratto.
Anselmo. Trovatevi lo sposo.
Clementina.   Lo sposo fate il conto
Che l’abbia ritrovato. Non è lontano. È pronto.

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Paoluccio il servitore ha per me dell’affetto.

Anselmo. Paoluccio è un ragazzaccio, ma alfine è giovanetto:
La testa anch’ei col tempo può mettere a partito,
E poi la buona moglie può fare il buon marito.
Se ciò vi torna comodo, sposatevi domani,
E il danar fate conto d’averlo nelle mani.
Clementina. In fatti si conosce, e confessar conviene
Ad onta dei maligni, che siete un uom dabbene.
Anselmo. Non basta che il diciate così fra voi e me;
Ma ditelo a chi ardisce pensar quel che non è.
Sappialo donna Placida, che mal di me si sogna,
Ed abbiane rimorso, ed abbiane vergogna.
Donna Luigia il sappia, che ancor di più mi preme;
E non ci disturbate, se ci vedete insieme.
Anzi a chiamarla andate, che venga alla lezione.
Clementina. Subito vado, e dico che l’ordina il padrone.
Anselmo. Bravissima, e badate di darle da qui innanti
Consigli che non sieno dai miei troppo distanti.
Clementina. Le dirò, per esempio, che agli uomini si crede.
Anselmo. A quei principalmente, qual io, di buona fede.
Clementina. E le dirò, se mai pensasse a maritarsi,
Che un uomo un poco vecchio non è da disprezzarsi.
Anselmo. Un uom che con prudenza conosca i dover suoi.
Clementina. Un uomo, per esempio, che fosse come voi.
Anselmo. Io fui lontano sempre dall’essere legato,
Ma non si può sapere se il ciel l’ha destinato.
Clementina. Quel che destina il cielo, l’uomo fuggir non suole.
Anselmo. Metteteci voi pure quattro buone parole.
Clementina. Lasciate fare a me. Prima averei operato,
Se la vostra intenzione mi aveste confidato.
So che voi sposereste la giovane, non già
Per bassa compiacenza, ma sol per carità.
Ed io non mi esibisco per i cento zecchini,
Ma perchè non si sa quello che il ciel destini.

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SCENA II.

Don Anselmo, poi don Berto.

Anselmo. Costei è donna scaltra, ed io godo più molto

Col furbo aver che fare, anzi che collo stolto.
Lo so che il mio disegno vede patente e chiaro,
Ma in mio favor l’impegna la gola del danaro;
E se coi suoi consigli aiuta i desir miei,
Anch’io la mia parola vo’ mantener con lei.
Se a tutte le passioni resistere non so,
Vogli’esser pontuale in quello che si può.
Berto. Caro il mio don Anselmo, siete già ritornato!
Anselmo. Sì, amico, ed il ritiro l’ho bello e ritrovato.
Berto. Ho piacer; donna Placida sarà contenta anch’ella.
Ma è ben che ci mettiamo ancor l’altra sorella.
Anselmo. Don Berto, vi scordaste sì presto il mio consiglio?
Berto. A una fanciulla in casa più facile è il periglio.
Non può farle la guardia una servente, un zio;
Pericolar potrebbe.
Anselmo.   Come? non ci son io?
Berto. Lasciate che vi parli.... che diavi un arricordo.
(Dirò quel ch’ella disse, se più me ne ricordo).
(da sè)
Se un uom con donna giovane a conversar si metta,
Chi è quel che prosontuoso resister1 si prometta?
Sia virtuoso e forte; abbiam più d’un esempio,
Che il saggio in occasione è divenuto un empio.
Tutti siam d’una pasta... e siamo in conclusione
Tutti ad errar soggetti.
Anselmo.   (So di chi è la lezione), (da sè)
Ah don Berto, pur troppo l’uom di malizia pieno
Di convertir procura il balsamo in veleno.

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Son queste, a me ben note, massime tutte buone,

Ma ponderar conviene il cuor delle persone.
Io sarò quel malvagio? Oh ciel! sarò quell’empio,
Di cui narran le storie il luttuoso esempio?
Non credea meritarmi da voi sì fiero torto,
Per mortificazione lo prendo e lo sopporto.
Merito peggio, è vero, l’accordo e lo protesto;
Reo di più colpe io sono, ma non lo sono in questo.
Pazienza. In questo mondo tutto soffrir conviene.
Don Berto, io vi perdono.
Berto.   (Ah che uomo da bene!)
(da sè)
Basta... sia per non detto; non ne diciam più nulla.
Che vada donna Placida, che resti la fanciulla.
Anselmo. No, non vo’ che si dica....
Berto.   Io il dico ed io lo voglio.
Anselmo. Da voi più non ci vengo.
Berto.   Oh, questo è un altro imbroglio.
Se voi mi abbandonate, chiuder sarò forzato
Anche donna Luigia nel luogo disegnato.
Anselmo. Oh amicizia, oh amicizia! a che son io costretto?
Verrò; che resti in casa.
Berto.   Che siate benedetto!
L’altra anderà ben presto. Di ciò l’ho già avvisata.
Anselmo. Sì facile al ritiro che siasi accomodata?
Berto. Eh, quando parlo, parlo. Quando ho ragion, non cedo.
Ella vi andrà, vi dico.
Anselmo.   (Ancora io non lo credo), (da sè)
Berto. Quant’obbligo vi devo! Voi non faceste poco,
A ritrovar sì presto l’occasione e il loco.
Dov è? si può sapere?
Anselmo.   Sì, lo saprete poi.
Per ora un’altra grazia desidero da voi.
Non per me, che di nulla al mondo io non mi curo,
Ma far, qualora posso, del bene altrui procuro.

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Berto. Per voi, per tutti quelli che voi raccomandate,

In quel ch’io son capace, senz’altro comandate.
Anselmo. Una fanciulla giovane, da tutti abbandonata,
Sta per pericolare dai discoli insidiata;
Vorrebbe collocarsi, e pronta è l’occasione,
Ma senza un po’ di dote non pigliala il garzone.
Chiede cento zecchini: signor, se voi li date,
D’averla assicurata il mento acquistate.
Berto. È in occasion la giovane?
Anselmo.   Sì, certo, e perigliosa.
Berto. È bella?
Anselmo.   Sì, pur troppo; questa è la peggior cosa.
Berto. E vuol cento zecchini? Se bella esser si vanta,
Non può la sua bellezza valerne almen cinquanta?
Anselmo. Eh, quei che la bellezza apprezzano, son rari.
Al giorno d’oggidì vonn’essere danari.
E tante buone figlie, belle siccome è il sole,
Quando non han la dote, persona non le vuole.
Berto. Or sovvenir mi fate, parlando della dote,
Che preparar la deggio anch’io per la nipote;
E troppo liberale s’io son coi doni miei,
Forse il bisogno un giorno mi mancherà per lei.
Anselmo. Questo sospetto avaro nel vostro cuore è novo:
Il solito don Berto in voi più non ritrovo.
Veggo che qualche ingrato vi parla e vi consiglia,
E temo che il nemico non sia nella famiglia.
Per me più non ricerco; mi duole e mi confondo
Vedere affascinato voi pur dal tristo mondo.
Ed io che ho tanto fatto per voi senza interesse,
Potea temer che pari amor mi si rendesse?
A me sì vil danaro negar per carità?
Non vi credea capace di simile viltà.
Berto. Via, non andate in collera.
Anselmo.   In collera? perchè?
Quel che vi chiedo è forse un utile per me?

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Berto. Cento zecchini adunque...

Anselmo.   A un altro i’ cercherò.2
Berto. Non mi mortificate, che io ve li darò.
Anselmo. Quando? perchè la cosa non merta dilazione.
Berto. Tosto andiamo a pigliarli.
Anselmo.   (È pure il buon pastone).
(da sè, e partono)

SCENA 111.

Donna Placida e Paoluccio.

Placida. Vieni qui, Paoluccio. Da che non ti ho veduto,

Tu sei nella persona moltissimo cresciuto.
Paoluccio. Ma! la mal’erba cresce.
Placida.   È ver, non me ne appello.
Qual sei cresciuto in carne, sei cresciuto in cervello?
Dimmi, sei più com’eri da prima, un precipizio?
Paoluccio. Mi par, se non m’inganno, d’aver fatto giudizio.
Placida. Per farti un po’ di merito, il dirlo poco costa.
Paoluccio. Se gli altri non lo dicono, lo dico a bella posta.
Placida. Don Berto ti vuol bene?
Paoluccio.   Di lui non mi lamento.
Di tutto quel ch’io faccio, suol essere contento;
Ma vengono per casa due cari amici sui,
Che a tutta la famiglia comandan più di lui.
Ei suol la cioccolata pigliare ogni mattina,
Ma sia presto o sia tardi, perciò non si tapina.
E quei scrocchi insolenti la voglion di buon'ora,
E se non è ben carica, san lamentarsi ancora;
E tanto all’ingordigia son per costume avvezzi,
Che oltre quella che bevono, ne mangiano dei pezzi.
Caffè loro non manca, qualor mi sia ordinato,
Pur sempre me ne pigliano di quel polverizzato,

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Ed hanno un ripostiglio d’ogni delizia adorno,

Per replicar la dose tre o quattro volte al giorno.
È cosa che fa ridere vederli a pranzo e a cena
Mangiare a crepa corpo, mangiare a bocca piena.
E non contenti ancora, presti allungar le mane,
Porsi le frutta in grembo e nelle tasche il pane.
Vorrebber mangiar tutto. Han la vivanda in mano,
Un occhio al lor vicino, quell’altro al più lontano.
Tosto che viene in tavola un piatto, essi con arte
Lo girano, se il meglio non è dalla lor parte.
Non vogliono che alcuno s’incomodi a trinciare;
Essi vonn’esser primi a scegliere e a pigliare.
E quando si hanno preso una porzione onesta,
Ritornano nel piatto, e mangian quel che resta.
Non von che a dar da bere alcun faccia fatica,
Vonno dappresso il vino, von bevere all’antica.
Bevono molto e spesso, e sempre il vino puro,
E due o tre bottiglie le vogliono sicuro,
E quando non si portano, arditi le domandano,
E colla servitude e gridano, e comandano,
E al cuoco dan dell’asino, se il pranzo a lor non piace,
Ed il padron che spende, tutto sopporta e tace.
Placida. Davver me l’ho goduta la descrizion ben fatta
Di questi due scrocconi. È veramente esatta.
Niente di caricato vi trovo a parer mio,
Poichè degli altri simili ne ho conosciuti anch’io.
Ma dimmi il ver, Paoluccio: hai tu scoperto nulla,
Che aspiri don Anselmo al cuor della fanciulla?
Paoluccio. Mi pare a qualche segno, mi pare aver veduto
Ch’ei l’ami, e che l’amore copra il vecchiaccio astuto.
Ma quel che più mi preme, si è che questa mattina
Lo vidi a testa a testa parlar con Clementina.
Placida. Colla serva di casa?
Paoluccio.   Appunto, e non vorrei,
Ch’egli volesse entrare negl’interessi miei.

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Placida. Quali interessi passano fra te e la cameriera?

Paoluccio. Eh niente!
Placida.   Bricconaccio! ti conosco alla cera.
Che sì, che non del tutto finito ancor di crescere,
Te pure in amoretti non ti vergogni a mescere?
Paoluccio. Signora, anch’io nel mondo vo’ far la mia figura.
Non credo che in amore si guardi alla statura.
E se la Clementina per sposo mi vorrà,
Mi par pel matrimonio di essere in età.
Placida. Sì, ma l’età non basta; vi vuole il fondamento.
Paoluccio. Ambi serviamo; ognuno ha il suo mantenimento.
Tanti e tanti si sposano senza far niente al mondo,
E pur godono tutti un vivere giocondo.
Io servo, e se il padrone con lui non mi vorrà,
Perciò non mi confondo. Sarà quel che sarà.
Placida. Quel che sarà, sarà; sposarsi a precipizio.
E mi dicesti in prima che hai fatto più giudizio?
Si vede che prudenza nel tuo cervel non vi è;
E quella che ti bada, più pazza è ancor di te.
Col semplice salario che in due vi guadagnate,
Se avrete dei figliuoli, come campar sperate?
Se mandavi don Berto fuori di queste soglie,
Cosa farà Paoluccio colla signora moglie?
Ella a far le calzette, ed egli il vagabondo.
Oh la bella figura che voi farete al mondo!
Briccon, ti fideresti nel volto della sposa?
Meriteresti un laccio pensando a sì vil cosa.
Cresci in età, ragazzo, fa il fondamento, e poi
Trova una buona dote, e sposati, se vuoi.
Paoluccio. Mi ha detto Clementina, che avrà cento zecchini.
Placida. Come li potrà avere? li semina i quattrini?
Cosa può guadagnare? dodici scudi all’anno?
O ruba al suo padrone, o medita un inganno.
Lascia ch’io parli un poco ad essa in chiare note;
Vedrò s’ella t’inganna sul punto della dote.

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Sarà quel che sarà? Quando è passato il dì,

Ti pentirai, meschino, e non dirai così.
Gente è nell’anticamera.
Paoluccio.   Vado a veder chi è.
Vedo che il matrimonio per or non fa per me.
(parte)

SCENA IV.

Donna Placida, poi Paoluccio che torna.

Placida. Ecco quel che succede, quando un padron non bada;

Tutto nella famiglia va per la peggior strada.
Deve aprir bene gli occhi chi in guardia ha gioventù;
E chi ha serventi in casa, ha un obbligo di più.
Paoluccio. Certo don Sigismondo brama venir da lei.
Placida. Venga pur, ch’è padrone.
Paoluccio.   Signora, io non vorrei
Parlando a Clementina....
Placida.   Non si disgusterà....

SCENA V.

Don Berto e detti.

Berto. Ma signora nipote, che è questa novità?

Sempre si han da vedere da voi nuove persone?
In casa mia, vi avverto, non vo’ conversazione.
Vi è una fanciulla, e poi.... e poi non istà bene....
E poi son io padrone.
Placida.   (Capisco donde viene), (da sè)
Signor, quel che poc’anzi a visitarmi è stato,
Fu, se non lo sapete, don Fausto il mio avvocato.
Berto. Fu l’avvocato dunque?
Placida.   Certo; e non può venire
Don Fausto alla cliente gli eventi a riferire?

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Berto. Bene. Di lui non parlo, ma parlovi di questo.

Chi è quel che ora è venuto?
Placida.   È un cavaliere onesto.
Era di mio consorte amico sviscerato;
Mi ha sempre, finch’ei visse, in casa praticato.
Or che tornata io sono in casa dello zio,
Trattar non mi è permesso con gente da par mio?
Andrò, non dubitate, fra poco a ritirarmi,
Ma intanto che ho da dire a chi vuol visitarmi?
Lo zio non lo permette? lo zio severo e strano
Vuol vivere in sua casa da stoico, da villano?
Siete pur nato bene; vostro fratel maggiore
Fu pur dei cavalieri lo specchio e lo splendore.
Si ha da dir che lo fate per secondar gli amici?
Cosa diran le lingue di voi mormoratrici?
Per me, poco ci penso; voi comandar dovete.
Licenzio il cavaliere?
Berto.   Fate quel che volete.
(dopo aver pensato un poco, e parte)
Placida. (Ei cede facilmente a tutte le ragioni). (da sè)
Venga don Sigismondo. Ditegli che perdoni.
(a Paoluccio che parte)

SCENA VI.

Donna Placida, poi don Sigismondo.

Placida. Teme per la fanciulla! sarebbe il timor saggio,

Se non lo promovesse un impostor malvaggio.
Ma parla per se stesso l’uom che si finge onesto.
Son tanto più in impegno di collocarla, e presto.
Sigismondo. Signora, compatite se vengo a importunarvi...
Placida. Anzi mi fate onore. Vi prego accomodarvi, (siedono)
Sigismondo. Quei quadri che ho osservato di là, del Tintoretto,
Io non li ho più veduti, mi par, nel vostro tetto.
Placida. Ci siete stato ancora qui in casa di mio zio?
Sigismondo. Ah! sì, avete ragione. Col capo ove son io?

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Credea che foste ancora in casa del marito.

Placida. (Eccol dall’astrazioni al solito assalito). (da s’è)
Sigismondo. Come vi conferisce il nuovo alloggiamento?
Placida. Fra le paterne mura vi ho tutto il mio contento.
Son qui colla germana.
Sigismondo.   Avete una sorella?
Placida. Signor, non lo sapete?
Sigismondo.   Sì, è ver, giovane e bella.
(lira fuori la tabacchiera)
Placida. (Questo per mia germana sarebbe un buon partito.
Vo’ fare ogni possibile che l’abbia per marito), (da sè)
Sigismondo. Non prendete tabacco? (le offre tabacco)
Placida.   Signor, bene obbligata.
Ne prendo qualche volta, ma non son viziata.
(ne prende una presa)
Sigismondo. Che novitadi abbiamo delle guerre presenti?
(prende tabacco)
Oh, starete assai meglio con i vostri parenti.
Placida. Certo che più contenta, come diceva, io sono
Col zio, colla germana...
Sigismondo.   Questo tabacco è buono.
(le offre tabacco)
Placida. L’ho ancora infra le dita.
Sigismondo.   Io mi diletto assai
Di novità del mondo.
Placida.   Io non ne cerco mai.
Sigismondo. Come passate il tempo?
Placida.   Moltissimo occupata
Finor fui nella lite.
Sigismondo.   L’avete guadagnata?
Placida. Sì, signore, don Fausto la guadagnò...
Sigismondo.   Sì, bravo.
Ei me lo disse, è vero; non me ne ricordavo.
Anch’io nelle mie liti da lui non mi distacco.
Placida. È un uom da farne conto.

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Sigismondo.   Volete del tabacco?

(le offre tabacco)
Placida. Obbligata, l’ho preso.
Sigismondo.   Voleva dir, signora,
Farete in vedovanza lunghissima dimora?
Non crederei: voi siete nel fior di vostra età,
Non mancanvi nè beni, nè spirto, nè beltà;
Volano i giorni e gli anni; riflettere conviene,
Che ogni dì che si perde, si perde un dì di bene.
Quello che dice Ippocrate, considerar si deve,
Che lunga è cotal arte, e che la vita è breve.
E lo disse Petrarca, seguendo il greco autore:
Breve è la vita nostra, lunga è l’arte d’amore.
Dunque, se così dissero uomini di virtù...
Di che si discorreva? non mi ricordo più.
Placida. Voi principiaste a dirmi...
Sigismondo.   È vero, or mi sovviene:
Che a prender nuovo sposo pensare a voi conviene.
Placida. Signor, dal mio pensiero tal brama è ancor lontana;
Vorrei, prima di farlo, dar stato a mia germana.
Sigismondo. Tabacco... (vuole offerirle tabacco, poi si trattiene)
  Ah, mi sovviene che poco ne pigliate.
Dunque pria la germana di collocar bramate?
Placida. Parmi conveniente. È nubile di età,
Piena, non fo per dire, di ottime qualità.
Il merto non le manca di grazia e di bellezza;
Ma questo è forse il meno. Quello che in lei si apprezza
È la bontà di cuore, e l’ottimo costume.
Giovane che sa molto, ma tace e non presume.
Ancor non ebbe in seno alcun straniero affetto.
Lo sposo che le tocca, godrà un amor perfetto.
Non è sì poco rara al mondo l’innocenza.
Donna Luigia è tale...
Sigismondo.   Ma con vostra licenza,
Chi è donna Luigia?...

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Placida.   Non vi parlai finora

Della germana mia?
Sigismondo.   È vero, sì, signora.
Perdonate, vi prego; a un mio fattor briccone
Pensava, ed ho patito un pò di distrazione.
Sento quel che mi dite, ammiro i pregi suoi.
Basta, perchè sia bella, che si assomigli a voi;
Che abbia qual voi negli occhi quel certo non so che...
Placida. Se vedeste Luigia! quanto è miglior di me!
Sigismondo. Per dirla, è molto raro sentir che una sorella
Sostenga che sia l’altra più amabile e più bella.
Se fosser centomila, voi le porreste in sacco.
Orsù, parliamo d’altro; prendete del tabacco.
(le offre tabacco)
Placida. Ma, signor, non ne prendo.
Sigismondo.   Eh sì, me ne ricordo.
Diceste qualche volta; lo so, non son balordo.
Una presa, una presa. (seguila ad offerirle tabacco)
Placida.   Lo fo per obbedirvi.
Sigismondo. Volete che giochiamo? volete divertivi?
Placida. Qui sono ancor di fresco. Ancor non mi è permesso
Di far conversazione.
Sigismondo.   Ah, mi pareva adesso (si alza)
Fosser quei giorni istessi, ne’ quali a voi vicino
In casa dell’amico sedeami al tavolino.
È ver ch’era don Claudio fastidiosetto un poco:
Non intendea ragione, quando perdeva al gioco.
Eh! lasciò qualche debito.... io sicurtà gli fui....
(Ancor ducento scudi ho da pagar per lui).
(da s’è, distraendosi)
Placida. Ecco la mia germana. Chiamiamola? che dite?
Sigismondo. L’averò per finezza.
Placida.   Luigia, favorite.

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SCENA VII.

Donna Luigia e detti.

Luigia. Son qui, che comandate?

Placida.   In compagnia vi bramo.
Sigismondo. (La cambiale è scaduta; oggi quanti ne abbiamo?)
(da sè, in distrazione, tirando fuori un taccuino)
Luigia. (Chi è questi?) (piano a donna ’Placida)
Placida.   (Uno dei tre. Come vi sembra grato?)
(a donna Luigia)
Luigia. (Per dir la verità, mi piace l’avvocato), (a donna Placida)
Placida. (Povera innocentina!) (da sè)
Luigia.   (Non guarda, non favella?)
(a donna Placida)
Placida. Signor, non vi degnate favorir mia sorella?
(a don Sigismondo)
Luigia. (Questi sarà l’astratto). (da sè)
Sigismondo.   Domandovi perdono.
M’inchino alla signora, e servitor le sono.
Luigia. Serva sua riverente.
Placida.   Sediamo, se vi piace.
(a don Sigismondo)
Sigismondo. Deggio partir, signora. (Davver non mi dispiace).
(da sè, osservando donna Luigia)
Vuol tabacco, signora? (a donna Luigia, offerendolo)
Luigia.   Mi farà grazia. (prende tabacco)
Sigismondo.   (Affè,
Mi par più compiacente. Sprezzabile non è).
(da sè, ponendosi a sedere)
Placida. Dunque anche noi sediamo, (a donna Luigia, sedendo)
Luigia.   Sediam, come volete, (siede)
Placida. Don Berto e don Anselmo. (a donna Luigia, osservando)
Luigia.   Oimè! (alzandosi un poco)
Placida.   Non vi movete.
(fa sedere donna Luigia)

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SCENA VIII.

Don Berto e detti.

Berto. Signora, una parola.

(a donna Placida con isdegno, alzandosi tutti)
Placida.   Ecco, don Sigismondo,
Ecco il signore zio, ch’è il miglior zio del mondo.
Saputo che a graziarmi venuto è un cavaliere,
Anch’ei brama conoscervi, e fare il suo dovere.
Spero che quel rispetto che aveste a mio consorte,
L’avrete per don Berto, padrone in queste porte.
Senza di lui ricevere a me non si concede.
Ei stima i vostri pari, e volentier vi vede.
Brama di avervi amico, vi vuole in compagnia,
E pregovi gradirlo, per grazia e cortesia.
Sigismondo. Chi è questi? (a donna Placida)
Placida.   È il signor zio. (Or or mi fa dispetto.)
(da sè)
Sigismondo. Signor, vi sono amico. Le grazie vostre accetto.
Sento che mi esibite l’onor di frequentarvi.
Ora restar non posso. Ma verrò a incomodarvi, (parte)

SCENA IX.

Donna Placida, donna Luigia, don Berto.

Placida. Del sacrifizio vostro grazie vi rendo umile;

Siete, non può negarsi, amabile e gentile.
Adorabile zio! avete un gran bel cuore!
Viva la bontà vostra. (E crepi l’impostore.)
(da sè, e parte)
Luigia. Se così caro e buono sempre trovarvi io soglio,
Pensate a collocarmi; ma un vecchio non lo voglio.
(parte)

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SCENA X.

Don Berto, poi don Anselmo.

Berto. Don Anselmo. (chiamandolo)

Anselmo.   Signore. (ironicamente)
Berto.   Sentiste le ragioni?
Anselmo. Siete un uomo di stucco. Che il ciel me lo perdoni.
(parte)
Berto. Chi tira per di qua, chi tira per di là.
Io che cosa ho da fare? oh bella, in verità.
Tutti mi fanno grazia di dir: siete il padrone.
E all’ultimo, che sono? la rima alla canzone. (parte)

Fine dell’Atto Secondo.

Note

  1. Ed. Zatta: Chi è quel prosontuoso che regger ecc.
  2. Ed. Zatta: i’ chiederò?