La villeggiatura/Atto III
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ATTO TERZO.
SCENA PRIMA.
Don Eustachio e don Riminaldo.
Riminaldo. V’assicuro che ho riso la parte mia.
Eustachio. Don Ciccio è il condimento migliore di questa villeggiatura.
Riminaldo. La scena poi con don Paoluccio ha finito graziosamente.
Eustachio. Ora ha una paura grandissima; non si lascia vedere nemmeno.
Riminaldo. Don Gasparo per altro m’ha detto che la vuole accomodare con don Ciccio; che non vuol perdere una sì bella occasione di ridere e di divertirsi.
Eustachio. Poveri noi se restiamo senza don Ciccio. È terminato lo spasso. In casa, fuori di un po’ di gioco, non si fa altro.
Riminaldo. E da qui innanzi non vogliono che si giochi più al faraone. I piccioli giochi non mi divertono, onde faccio conto d’andarmene.
Eustachio. E venuto ora don Paoluccio a stordirci il capo col suo Parigi, colla sua Londra.
Riminaldo. E credo sia anche venuto a disseminare un poco di discordia fra queste nostre signore.
Eustachio. Per me ci penso poco di questo. Non bado io alle signore, mi diverto più volentieri colle contadine.
Riminaldo. Anch’io, per un poco, ma mi stufo presto; quando non si gioca, non so che fare.
SCENA II.
Zerbino e detti.
Zerbino. Servitore umilissimo di lor signori.
Eustachio. Che c’è, buona lana?
Zerbino. Male assai. Se non mi aiutano, son per terra.
Riminaldo. Che vuol dire? Che cosa è stato?
Zerbino. La padrona mi ha licenziato.
Riminaldo. Perchè vi ha licenziato?
Zerbino. Per niente.
Eustachio. Già, per niente. E il più buon ragazzo di questo mondo. L’averà licenziato per niente. (con ironia)
Zerbino. Per un poco di roba dolce mi ha licenziato.
Riminaldo. Sarà quella che si aspettava sul fin della tavola.
Eustachio. Quella che ha domandato don Ciccio.
Riminaldo. Ve l’averete mangiata, eh?
Zerbino. Un poco mangiata, un poco donata.
Eustachio. A chi donata?
Zerbino. A due belle ragazze.
Eustachio. Ah barone!
Zerbino. Sono baroni quelli che danno alle ragazze? (a don Eustachio)
Eustachio. Sicuro.
Zerbino. Quei che danno la roba dolce, sono baroni? (a don Riminaldo)
Riminaldo. Sicurissimo.
Zerbino. E quei che danno i fazzoletti e l’argento, che cosa sono?
Riminaldo. Ehi! sentite? (a don Eustachio)
Eustachio. Che galeotto!
Riminaldo. Che cosa sapete voi di fazzoletto, d’argento?
Zerbino. So tutto io. So anche del padrone, che va a tirar alle beccaccie e poi le dona alle contadine.
Eustachio. E per questo? voi non ci avete da entrare. Un ragazzo non si ha da mettere cogli uomini; un servitore non si ha da mettere con i padroni.
Zerbino. Dice bene vossignoria. Ma ho un natural così fatto: quando le donne mi pregano, non posso dire di no.
Riminaldo. Vi hanno pregato dunque?
Zerbino. Ehi! zitto. Mi hanno fatto carezze.
Eustachio. Ah briccone!
Zerbino. Sono un briccone, perchè mi hanno fatto carezze? (a don Eustachio)
Eustachio. Sicuro.
Zerbino. Perchè mi hanno fatto carezze, sono un briccone? (a don Riminaldo)
Riminaldo. Certo.
Zerbino. Zitto, che nessuno ci senta. Ne hanno fatto anche a lor signori.
Eustachio. E chi sono costoro?
Zerbino. La Menichina e la Libera.
Eustachio. Noi le abbiamo regalate, perchè ci han donato dei fiori.
Zerbino. Ed io perchè mi han promesso dei frutti.
Riminaldo. Che ne dite eh, di costui? (a don Eustachio)
Eustachio. Vuol essere un bel fior di virtù.
Zerbino. Mi facciano la carità. Parlino per me alla padrona: che la mi tenga almeno fino che sono in istato di maritarmi. Perchè poi, quando sarò maritato, non avrò più necessità di servire.
Riminaldo. Che mestiere farete quando avrete moglie?
Zerbino. Il mestier di mio padre.
Riminaldo. Che vuol dire?
Zerbino. Niente affatto.
Eustachio. E chi manteneva la casa?
Zerbino. Mia madre.
Eustachio. Che mestiere faceva?
Zerbino. Niente affatto.
Eustachio. Figliuolo mio, siete la bella birba.
Zerbino. Obbligatissimo alle grazie sue.
Riminaldo. Crescete così, che sarete un bel capo d’opera.
Zerbino. Mi fanno questa grazia di parlare per me? Anch’io, se occorrerà, parlerò per loro.
Eustachio. A chi?
Zerbino. Alla Libera e alla Menichina.
Eustachio. Mi fa ridere costui. Don Riminaldo, vediamo di fargli questo servizio.
Riminaldo. Fate voi, che farò ancor io quel che posso.
Eustachio. Via dunque, parleremo a donna Lavinia. Spero che vi tenà a riguardo nostro; ma siate buono, se volete che la vi tenga.
Zerbino. Che sia buono! se sono la stessa bontà. Fatemi questa grazia, signori, e se ora non potrò far niente per loro, può essere che un giorno sposi la Menichina, e farò ch’ella faccia le parti mie. Servitor umilissimo di lor signori. (parte)
SCENA III.
Don Riminaldo e don Eustachio.
Eustachio. Crediamo noi che parli con malizia, o con innocenza?
Riminaldo. Io credo che colui abbia più malizia di noi.
Eustachio. Per altro è un ragazzo che serve i forestieri con attenzione. Per solito la servitù suol fare delle male grazie agli ospiti, quando non regalano bene. Zerbino si contenta di poco: onde vo’ parlare per lui; e siccome il mancamento è leggiero, voglio credere che donna Lavinia mi farà il piacere di tenerlo.
Riminaldo. Fate pure come vi aggrada. Già io me ne vado domani.
Eustachio. Che dite eh, delle nostre ninfe? S’attaccano a tutto: padroni, servitori, grandi e piccoli. Pur che buschino qualche cosa, tutto loro comoda.
Riminaldo. Benchè siano donne di villa, non invidiano quelle della città nell’arte del saper fare.
Eustachio. L’interesse domina da per tutto. Non vi è altra differenza, se non che in città vi vogliono dei zecchini, e qui con pochi paoli si fa figura. (parte)
SCENA IV.
Don Riminaldo, poi Libera.
Riminaldo. Don Eustachio va con economia nelle cose sue. È uno di quelli che vanno in villa cogli amici, per risparmiar la tavola a casa loro.
Libera. Ebbene, signor don Riminaldo, come è andata la cosa di don Ciccio?
Riminaldo. Benissimo. Avete dato motivo a tutti di ridere coll’averlo legato su quella seggiola.
Libera. Ora mi dispiace, che si vorrà vendicare. Mi raccomando a lei che ci difenda.
Riminaldo. Io vi posso difender per poco.
Libera. Perchè?
Riminaldo. Perchè domani me ne voglio andare.
Libera. Bravo! vuol andar via? Così, senza dirmi niente?
Riminaldo. Che? vi ho da domandare licenza per andar via?
Libera. Quando si vuol bene, non si fa così.
Riminaldo. Io voglio bene a voi, come voi ne volete a me.
Libera. Me ne vorrà assai, dunque.
Riminaldo. Appunto tanto, quanto voi ne volete a Zerbino.
Libera. Io a Zerbino?
Riminaldo. Poverina! a Zerbino! oh figuratevi.
Libera. Non so niente io di Zerbino.’
SCENA V.
Don Paoluccio e detti.
Paoluccio. Bravo don Riminaldo. Chi è questa bella ragazza?
Libera. (Sì pavoneggia.)
Riminaldo. È una giovine qui del paese; villereccia, ma benestante.
Paoluccio. Sì sì, anche a Versaglies si trovano di queste bellezze del basso rango, piacevolissime quanto mai dir si possa. Che nome ha questa bella ragazza?
Riminaldo. Ha nome Libera.
Paoluccio. La signora Libera! oh bellissimo nome ch’è la signora Libera!
Libera. Io non sono signora; son chi sono 1, e non mi burlate, che vi saprò rispondere come va risposto.
Paoluccio. Garbata! Avete alcuna giurisdizione sopra di lei? (a don Riminaldo)
Riminaldo. È maritata.
Paoluccio. Non parlo io della giurisdizion di marito, ma quella di buon amico, di quella che vien dal cuore.
Riminaldo. Veramente ho qualche stima per questa giovane.
Libera. Per sua bontà del signor don Riminaldo.
Paoluccio. Avete alcuna difficoltà, ch’io mi trattenga a ragionar seco?
Riminaldo. Servitevi pure liberamente.
Paoluccio. Ci ho tutto il mio piacere a stare una mezz’ora in buona compagnia, fuori di soggezione.
Libera. Non crediate già di prendervi confidenza con me.
Paoluccio. Mi par di vedere una pastorella di Francia, polita, linda, graziosa.
Riminaldo. Amico, se mi permettete, vi lascio in buona compagnia.
Paoluccio. Mi fate piacere.
Riminaldo. Vado per un affare.
Paoluccio. Accomodatevi con libertà.
Riminaldo. A buon rivederci. (alla Libera)
Libera. Discorreremo poi sul proposito di Zerbino.
Riminaldo. Sì sì, accomodatevi con chi volete, che non me n’importa un fico. (parte)
SCENA VI.
Libera e don Paoluccio.
Libera. (Sentite che bel modo di dire? Se dicesse davvero il signor don Paoluccio, scambierei in meglio). (da sè)
Paoluccio. Cara signora Libera! quanti adoratori averà la signora Libera?
Libera. Io non sono signora, vi torno a dire; e non occorre diciate d’adoratori, ch’io non ho nessuno che mi guardi.
Paoluccio. Nessuno che vi guardi? Una bellezza come la vostra nessuno la guarda? nessun la coltiva?
Libera. Chi volete che si degni di me?
Paoluccio. Mi degnerei ben io, se voi ne foste contenta.
Libera. E che cosa vorrebbe da me?
Paoluccio. Niente altro che la grazia vostra.
Libera. Vossignoria è un cavaliere, ed io sono una contadina...
Paoluccio. Ora non so niente di cavalleria. Con le persone del volgo, vado alla buona.
Libera. Che caro signor don Paoluccio!
Paoluccio. Sapete anche il mio nome?
Libera. L’ho veduto qui delle altre volte negli anni passati: me ne ricordo, e ho sempre detto... Basta; non dico altro.
Paoluccio. Ed io non mi ricordo di avere veduta voi. Sfortunatissimo che sono stato! se prima vi conosceva, non andavo a Parigi, non andavo a Londra, non andavo in Fiandra; non mi partivo da questa villa.
Libera. Oh, oh! adesso capisco che mi burlate.
Paoluccio. Dico davvero, siete la più bella giovine di questo mondo...
SCENA VII.
Menichina e detti.
Menichina. L’ho trovata alla fine.
Paoluccio. Chi è quest’altra ragazza? (alla Libera)
Libera. Una mia amica.
Menichina. La riverisco. (a don Paolucdo)
Paoluccio. Bella, bella essa pure. 2.
Libera. È ancora ragazza la Menichina.
Paoluccio. La Menichina! oh bella la Menichina! graziosa la Menichina!
Menichina. Non sono una signora io; non sono per piacere a lei.
Paoluccio. Mi piacete assaissimo, vi stimo più di una principessa.
Libera. Ed io, signore, non vi piaccio più dunque?
Paoluccio. Sì, tutte due mi piacete. Non faccio torto a nessuna io.
Libera. La Menichina ha il suo merito, non dico, ma io sono una donna alla fine.
Paoluccio. È maschio forse la Menichina?
Menichina. Signor no, sono femmina.
Paoluccio. È tutt’uno dunque.
Libera. Ma ella sa poco di questo mondo. Che cosa volete fare di lei?
Paoluccio. Quello che voglio fare di voi. Tutte due servirvi, se posso; amarvi, se vi contentate.
SCENA VIII.
Donna Lavinia e dette.
Lavinia. (Chi direbbe che fosse quello?) (da sè)
Paoluccio. Oh, donna Lavinia, compatitemi, per oggi non sono colla nobiltà: sono colla campagna. Ho trovato qui due ninfe di questi boschi, che mi fanno ricordare le pastorelle di Siena3.
Lavinia. Ma voi altre siete qui a tutte l’ore.
Libera. Sentite? dice a voi. (alla Menichina)
Lavinia. Dico a tutte due io; ma sarà finita.
Libera. (Ha invidia, si conosce).
Menichina. (Ha paura che le si levi).
Paoluccio. Donna Lavinia, la vostra gentilezza non ha da permettere che siate rigorosa a tal segno.
Lavinia. E la loro petulanza non dovrebbe a tanto avanzarsi.
Paoluccio. Zitto, per carità.
Libera. Gli leveremo l’incomodo. Signore4, sto qui poco lontana. (a don Paoluccio, e parte)
Menichina. Non verremo più a disturbarla. (Venga da mia madre, che lo vedrà volentieri). (a don Paoluccio, e parte)
Paoluccio. Non credeste già ch’io facessi caso di loro. Mi diverto: così si fa in Inghilterra. (a donna Lavinia)
Lavinia. In Inghilterra, in Francia, e per tutto il mondo, si deve usare la civiltà.
Paoluccio. Ed io da per tutto l’ho usata, siccome intendo d’usarla qui.
Lavinia. Non mi pare che voi l’usiate moltissimo.
Paoluccio. Che a voi non paia, spiacemi infinitamente; ma non so come possa chiamarsi atto incivile il dire due barzellette a delle villane, che si trovano accidentalmente in campagna.
Lavinia. Se usar sapete la civiltà, mostratelo almeno in questo. Lasciatemi sfogare almeno la mia passione, e non vi sottraete colla vostra disinvoltura da un rimprovero che vi è giustamente dovuto.
Paoluccio. Giusto o non giusto che sia il rimprovero, lo riceverò senza scuotermi, e vi prometto di non difendermi, per timore che la difesa mia vi possa essere di dispiacenza.
Lavinia. Lasciatemi dire, e quando ho detto, difendetevi se potete. Bello spirito, bella disinvoltura che acquistata avete ne’ vostri viaggi! Poteva dare io maggior prova di stima ad un cavaliere, oltre questa di vivere lontana da ogni impegno civile, per aspettare il vostro ritorno? E voi potevate meco più ingratamente, più villanamente procedere?
Paoluccio. Ma signora mia...
Lavinia. Mantenetemi la parola.
Paoluccio. Non parlo.
Lavinia. Vantate in faccia mia l’incostanza; ponete in ridicolo i miei giusti risentimenti. Il primo giorno del ritorno vostro mi lasciate sola in un canto; preferite a me un’altra dama non solo, ma donne ancora di bassissimo rango; e dovrò io dissimulare cotali insulti e donarvi tutto, in grazia del bel profitto che fatto avete ne’ viaggi vostri?
Paoluccio. Finalmente, madama...
Lavinia. Mantenetemi la parola.
Paoluccio. Non parlo.
Lavinia. No, non mi conviene soffrirlo, senza meritarmi i dispregi vostri. Tutto quello ch’io posso fare per voi, si è il rendervi la libertà intera, senza che vi resti alcun rimorso di dispiacermi. Vi resterà quello di esser meco un ingrato; ma tal sia il premio di chi è la colpa. Finita sia l’amicizia nostra.
Paoluccio. Avete terminato, madama?
Lavinia. Sì, ho terminato.
Paoluccio. Posso difendermi?
Lavinia. No, arditissimo, non vi potete difendere.
Paoluccio. Se non mi posso difendere, altro non mi resta adunque che usare della mia costanza di animo, inchinarvi e partire. (parte)
SCENA IX.
Donna Lavinia sola.
S’egli cammina di questo passo, non arriva domani, che mi rende ridicola a tutta la conversazione; ma prima che giunga domani, vi rimedierò, e forse pria che giunga la sera. Non mi comprometto di tanta virtù che vaglia a frenarmi nell’occasione di risentirmi. È meglio sciogliere la compagnia, troncar le scene per tempo, finir la villeggiatura, e con un pretesto ragionevole e sano tornare innanzi sera in città. Quattro miglia si fanno presto. Le carrozze son leste; chi vuol restar, resti; io vado certo, e spero che mio marito non mi lascierà partir sola. La compagnia di don Mauro non mi sarebbe discara; ma non voglio che di me si dica quello che in altri da me si condanna. Quantunque donna Florida lo disprezzi, lo tiene ancora soggetto, nè per me vo’ che risolvasi di abbandonarla. S’ei fosse in libertà... potrebbe darsi... Basta... ecco mio marito.
SCENA X.
Don Gasparo e detta.
Gasparo. Siete qui? Appunto di voi cercava.
Lavinia. Sono qui a prendere un poco d’aria. Ho un dolor di capo grandissimo.
Gasparo. Gran che! voi altre donne avete sempre qualche cosa che vi duole.
Lavinia. E credo d’aver la febbre ancora.
Gasparo. Eh, malinconie! divertitevi, e non sarà niente. Tutti vi cercano. Abbiamo da godere una bella scena. Don Ciccio è imbestialito contro di tutti, per la burla fattagli delle legature e delle spade, e perchè gli altri lo sbeffano. Ora abbiamo pensato di dargli soddisfazione, domandandogli scusa tutti e perdono dell’offesa fattagli; ma questo domandargli perdono, ha da essere un nuovo motivo di ridere, perchè studierà ciascheduno di farlo in modo particolare.
Lavinia. Voi badate a discorrere, ed a me cresce il dolor di capo a segno che non mi posso reggere in piedi.
Gasparo. Me ne dispiace assaissimo. Andate a letto, cara consorte, che vi passerà.
Lavinia. Marito mio, ho del mal grande intorno, mi sento una pulsazione interna, un’agitazione negli spiriti, una lassitudine universale con giramenti di capo, che mi minaccia qualche disgrazia.
Gasparo. Niente, saranno convulsioni.
Lavinia. Assolutamente conosco e sento, che se non mi cavano sangue, vado a pencolo di morire.
Gasparo. Andate a letto; e domani si farà venire il chirurgo, e vi caverà sangue.
Lavinia. Da qui a domani posso essere precipitata.
Gasparo. In questa villa non c’è chirurgo. Bisogna mandare in città.
Lavinia. Fatemi un piacere, don Gasparo; ve lo domando per grazia, per quanto amor mi portate, per quanto vi preme la mia vita e la mia salute: andiamo noi in città.
Gasparo. Quando?
Lavinia. Innanzi sera.
Gasparo. E piantare la compagnia?
Lavinia. Vi preme dunque la compagnia più della vita di vostra moglie?
Gasparo. Non dico questo io. Ma non vi sarà poi tal pericolo.
Lavinia. Tornerete fuori, quando io starò meglio. Tornerete solo: vi divertirete meglio di quel che ora fate.
Gasparo. Benissimo. Lo desidero per verità star un poco solo, senza questa folla di seccatori. Ma come ho da fare ora a dirlo alla compagnia?
Lavinia. Vi vuol tanto? Lo dirò io, se non lo volete dir voi.
Gasparo. Facciamo le cose con buona grazia.
Lavinia. Sì, anderà tutto bene; lasciate fare a me, che ora fo che lo sappiano. I nostri due legni servono per tutti. Vado io ad allestirmi; date voi gli ordini opportuni alla servitù; tutto si fa in un’ora; tre ne mancano a sera; siamo in città prima del tramontar del sole. (parte correndo)
SCENA XI.
Don Gasparo solo.
Dice che ha le palpitazioni, le lassitudini, i giramenti; mi pare che parli bene e cammini meglio. Non la so intendere. Queste donne si fanno venir male quando vogliono. Dubito che sia un pretesto questa sua lassitudine. Don Paoluccio le avrà fatto venire le pulsazioni. È venuto il diavolo quest’anno, a farmi perdere il gusto della villeggiatura. (parte)
SCENA XII.
Donna Florida e don Mauro.
Florida. Che cavaliere sgarbato! vi domando se sapete dove si trovi don Paoluccio, e mi rispondete con sì bella grazia.
Mauro. Signora, con voi ho poca fortuna. Il dirvi che non lo so e non mi curo saperlo, non è risposta che vi possa offendere.
Florida. E una delle solite risposte vostre, ruvide ed incivili.
Mauro. L’inciviltà posso assicurarmi di non averla nè con voi, nè con chi che sia. La ruvidezza poi è un difetto mio naturale, che se vi dispiace, potete disfarvene facilmente.
Florida. Fate conto che me ne sia disfatta.
Mauro. Accetto per grazia la libertà che vi compiacete restituirmi.
Florida. Se vi premeva la libertà, chi vi ha tenuto in catene?...
Mauro. Il mio rispetto, signora.
Florida. Potevate ben conoscere dalla maniera mia di condurmi, che poco mi premeva della vostra amicizia.
Mauro. È vero, l’ho conosciuto benissimo. Ciò non ostante, una volta che impegnato mi era a servirvi, mi vedeva in debito di soffrire, per non comparire incivile.
Florida. Che pensar ridicolo! Oh sì, se vi sentisse don Paoluccio, riderebbe davvero!
Mauro. Vi ringrazio della mercede con cui ricompensate la mia sofferenza.
Florida. Compatite la mia schiettezza. Vedo che avete dell’amore per me; ma io...
Mauro. No, signora, v’ingannate; non ho un’immaginabile passione per voi. L’ho avuta a principio, quando meno vi conosceva; ma è qualche tempo che mi sono disingannato.
Florida. Ma perchè seguitare a venir con me?
Mauro. Per impegno d’onore.
Florida. E non per altro?
Mauro. Non per altro.
Florida. E non penate un poco a lasciarmi?
Mauro. Niente davvero; niente, signora mia, niente affatto.
Florida. Siete un simulatore dunque.
Mauro. La mia simulazione derivò da un principio buono.
Florida. Da un principio stolido, dovevate dire.
Mauro. Come comandate.
Florida. Ora dite così, perchè vi piace lo spirito letterato della padrona di cosa.
Mauro. A voi non rendo conto de’ miei pensieri.
Florida. Capperi! si è messo in gravità il signor don Mauro.
Mauro. Non cambio temperamento. Sono il medesimo che sono stato.
Florida. Sì, è vero; sempre burbero ed accigliato.
SCENA XIII.
Don Paoluccio e detti.
Paoluccio. Signori miei, la sapete la bella nuova?
Florida. C’è qualche novità di don Ciccio?
Paoluccio. No di don Ciccio, ma di donna Lavinia. Elia dice che ha il mal di capo: si allestisce per andare in città a farsi cavar sangue. Il marito crede, o fiìnge di credere. Vuol partire con lei, e noi siamo tutti belli e licenziati.
Florida. Questa è una vendetta di donna Lavinia.
Paoluccio. Lo credo ancor io. Se questo caso nascesse a Parigi, lo metterebbono sul Mercurio Galante.
Florida. E con tanta inciviltà licenzia la compagnia?
Paoluccio. Non dicono che si vada via. Offeriscono anzi casa, cuoco, servitù e libertà di restare; ma chi è quello che accettar voglia una simile esibizione?
Florida. Io non ci resterei per tutto l’oro del mondo.
Paoluccio. Non volendo restare, esibiscono il comodo di due legni; e ora con don Gasparo abbiamo fatto la distribuzione così: in uno donna Lavinia, don Eustachio, don Riminaldo ed io; nell’ altro donna Florida, don Mauro, don Gasparo e don Ciccio, se vorrà venire.
Florida. La distribuzione non è ben fatta. Don Mauro anderà volentieri nella carrozza di donna Lavinia.
Mauro. Anderò dove mi sarà detto ch’io vada.
Paoluccio. Anzi, s’egli è vero che don Mauro abbia della parzialità per donna Lavinia, cercherà di starle lontano per non far conoscere la sua passione.
Mauro. Così voi farete con donna Florida.
Florida. Bene dunque, don Paoluccio, per far vedere che non avete premura alcuna per me, venite voi nella mia carrozza.
Mauro. Così tutti due manifestate la vostra passione, egli allontanandosi colla sua costanza di animo; voi desiderandolo vicino colla debolezza comune.
Paoluccio. Bravo, don Mauro. Ha parlato ora come un visionario di Londra.
Mauro. Credetemi, che anche senza viaggiare, uno si può erudire nello studio delle passioni.
Florida. Ecco donna Lavinia. Sentiamo che cosa sa dire.
SCENA XIV.
Donna Lavinia e detti.
Lavinia. Avete inteso, signori miei, la necessità in cui mi trovo di andar in città per le mie indisposizioni...
Florida. (Poverina!) (da sè)
Lavinia. Mio marito non vuole lasciarmi andar sola nello stato in cui mi ritrovo...
Florida. (Che tenerezza di sposo!) (da sè)
Lavinia. Non intendiamo per questo di disturbare la compagnia....
Florida. (C’intendiamo). (da sè)
Lavinia. Chi vuol restare, è padrone.
Florida. (Bel complimento!) (da sè)
Lavinia. Se il cielo mi darà presto la mia salute, ritorneremo anche noi...
Florida. (Potrebbe crepar davvero). (da sè)
Lavinia. Vi chiedo scusa di tal disordine; ma quando il male c’è, non si può dissimulare.
Florida. (Non si può fingere con più franchezza). (da sè)
Paoluccio. Dispiace a tutti l’incomodo che dice di soffrire donna Lavinia, quantunque la cera non lo dimostri. Ci sono dei mali interni, che non si credono se non da quei che li provano. Tutta volta sappiamo, che senza un giusto motivo donna Lavinia non fa una tale risoluzione; e per quello che sento dire da tutti, ciascheduno vuol avere il contento d’accompagnarvi.
Florida. Sì, donna Lavinia, il vostro male lo conosco benissimo. Sarete più quieta in città; risanerete più presto.
Paoluccio. Eppure l’allegria può essere il migliore vostro medicamento. Io certo procurerò divertirvi.
Lavinia. Il mio gravissimo dolor di capo non mi permetterà d’ascoltarvi. Voi non vi potrete adattar a tacere. Vi prego passar nell’altra carrozza.
Florida. Don Mauro tace assai volentieri; sarà una compagnia buonissima per il vostro bisogno.
Mauro. Voi, signora, non fate che disporre di me, in tempo che avete rinunziato solennemente a quell’autorità che vi avevo concessa. (a donna Florida)
Paoluccio. Vi ha rinunziato donna Florida? (a don Mauro)
Mauro. Sì, per grazia del cielo.
Paoluccio. Male, signora, male. (a donna Florida)
Florida. Bene, anzi benissimo.
Paoluccio. Voi, avendo ciò fatto dopo la mia venuta, farete credere d’averlo licenziato per mia cagione. Signori, protesto dinanzi a lei, che per donna Florida ho il rispetto che devesi ad una dama, ma niente più.
Florida. (Dite il vero, signore?) (piano a don Paoluccio)
Paoluccio. (Arguite da ciò, se vi son vero amico). (piano a donna Florida)
Florida. (Non capisco niente). (da sè)
Paoluccio. Prima che di qua si parta, vuole don Gasparo che si complimenti don Ciccio, come egli merita; e l’idea non può essere più graziosa. Vado, per meglio intendere la condotta di certa baia che gli si prepara. Donna Lavinia, assicuratevi che la mia costanza di animo non può mancare; che se mi è vietato il difendermi, spero però di essere conosciuto; che cento donne mi vedranno far il galante d’intorno a loro, ma una sola avrà il mio cuore divoto, la mia servitù, la mia sincera amicizia. (Le parole a lei, ed il cuore a voi; questa è la vera foggia di mantenere la fede in segreto). (piano a donna Florida, e parte)
SCENA XV.
Donna Lavinia, donna Florida, don Mauro.
Florida. (Mi pare un poco difficile, per dir vero. Temo, che se un altro che mi piaccia più di don Mauro si esibisce di servirmi in pubblico, mi scorderò di quello che mi vuol servire in segreto). (da sè)
Lavinia. Se voi, donna Florida, ricusate di star qui, e che vi risolviate di venir con noi, fate voi la vostra partita. Scegliete chi vi comoda nella vostra carrozza.
Florida. Lascio disporre alla padrona di casa.
Lavinia. Faremo così dunque. Voi, don Paoluccio, don Mauro e don Eustachio.
Florida. E voi vorreste andare in compagnia del marito?
Lavinia. Vi cederò anche lui, se il volete.
Florida. Troppo generosa, signora, io non intendo di togliervi il cavaliere, e molto meno il marito. (parte)
SCENA XVI.
Donna Lavinia e don Mauro.
Lavinia. La sentite, don Mauro? Che ve ne pare di lei?
Mauro. Non posso giudicare delle altrui debolezze. Ho troppo da corregger le mie.
Lavinia. Voi siete un cavalier prudentissimo.
Mauro. Vorrei esserlo, ma altro non so di certo, che di essere sfortunato.
Lavinia. Perchè vi lagnate della fortuna?
Mauro. Perchè mi ha fatto impiegare le mie attenzioni in chi non le ha degnate d’aggradimento.
Lavinia. Ed io poteva essere trattata peggio?
Mauro. E pur si danno queste combinazioni fatali!
Lavinia. Se ne danno anche di favorevoli.
Mauro. Certamente gli avvenimenti di questo mondo non sono che una vicenda di male e di bene, di piacere e di dispiacere.
Lavinia. L’ingratitudine di don Paoluccio mi ha profittato l’acquisto della mia libertà.
Mauro. E l’alterigia di donna Florida mi ha disimpegnato dalla più severa catena.
Lavinia. Pensate voi di mantenervi sempre così?
Mauro. Sarebbe tempo, che io pure gustassi il dolce di qualche amabile servitù.
Lavinia. Fortunata colei che saprà conoscere i pregi vostri, e avrà il vantaggio della vostra amicizia!
Mauro. La bontà vostra mi fa sperare ogni maggiore felicità.
Lavinia. Basta, don Mauro, voi mi favorirete nella mia carrozza.
Mauro. Obbedirò gli ordini vostri.
Lavinia. Vi spiacerà di perdere donna Florida?
Mauro. Come dispiacerebbe ad un ammalato la perdita della febbre.
Lavinia. Graziosissimo! (ridente) Andiamo. (parte)
Mauro. Che compitissima dama! (parte)
SCENA XVII.
Giardino con pergolati, sedili erbosi, uno de’ quali in mezzo.
Don Gasparo, donna Florida, don Paoluccio, don Riminaldo, don Eustachio a sedere in fondo; la Libera e la Menichina da un lato; poi don Ciccio e Zerbino.
Zerbino. Favorisca di venire con me.
Ciccio. Tu sei quello che ha mangiato le robe dolci.
Zerbino. La padrona mi ha perdonato; mi perdoni anche vossignoria.
Ciccio. Ti perdono, ma con patto che me ne porti dell’altre.
Zerbino. Lasci fare5, che sarà servita.
Ciccio. Ora, che cosa vogliono da me?
Zerbino. Vogliono domandargli scusa di quello che gli hanno fatto. Eccoli lì tutti preparati. S’accomodi, che ora verranno. (Credo che lo vogliano burlare più che mai. Se posso, voglio far anch’io la mia parte). (si rilita)
Ciccio. Se mi daranno le mie soddisfazioni6, m’acquieterò; altrimenti farò qualche risoluzione. Dovevano veramente venire a casa mia a farmi il complimento di scusa, ma ho piacere che non vedano i fatti miei; non ho certo modo di riceverli. È stato meglio che sia venuto qui. (siede) Oh, non si credano già che sia un babbuino! So mantenere il mio punto fino all’ultimo sangue; e se non mi dispiacesse di disgustar don Gasparo... ma da lui si può venir a desinar qualche volta, onde convien soffrire, e contentarsi di quel che si può.
Gasparo. Signor don Ciccio, io, come padron di casa, e vostro buon servitore ed amico, vengo prima di tutti a domandarvi scusa della burla fattavi, di cui avete mostrato di sentir dispiacere; ed in segno di buona amicizia, vi prego, finchè dura la presente nostra villeggiatura, venire ogni giorno a pranzo da noi.
Ciccio. (Sedendo con gravità) Gradisco le scuse che voi mi fate, e per attestarvi un amichevole aggradimento, accetto per capitolazione le vostre grazie, e sarò esattamente, fino che durerà la villeggiatura presente, vostro quotidiano commensale perpetuo.
Gasparo. (Oh sì, che vuol mangiare un pezzo alla lunga). (da sè)
Florida. Signor don Ciccio, sento che siete adirato con tutti, e dubito che lo siate ancora con me. Se il ridere è delitto, v’accerto che son rea la mia parte; però vi domando scusa, e per farvi vedere quanta stima ho di voi, voglio preferirvi a tutti, e finchè stiamo qui in villeggiatura, voglio che siate il mio cavaliere.
Ciccio. Voi altre donne credete di poter offendere impunemente. Ma i galantuomini della mia sorta si rispettano un poco più. Dono al sesso, dono alla gioventù, dono anche alla buona grazia, accetto l’onor che mi fate di essere il vostro cavaliere, e può essere che facciamo disperar qualcheduno.
Florida. Credo anch’io che passerà poco tempo, che vedremo alcuno in disperazione.
Paoluccio. Eccomi a voi dinanzi, don Ciccio, supplichevole in atto; e dell’ardire presomi di farvi vergognosamente tremare, vi chiedo orgogliosamente perdono. Prometto in faccia di questa dama e di questi cavalieri, che vi hanno sonoramente burlato, prometto in attestato di quella stima che non ho mai avuta per voi, ma che procurerò d’avere in appresso, prometto in tutto quel tempo che resteremo in questa villeggiatura, servirvi e mantenervi di tabacco di Spagna perfetto, di cioccolata di Milano esquisita, di rosolio di Corfù preziosissimo, e di veneziani sceltissimi parpagnacchi.
Ciccio. Quantunque io non rilevi bene che razza di parlare sia il vostro, tuttavia, credendolo oltramontano, vi perdono ogni cosa, vi accetto per buon amico, e vi prendo in parola circa al tabacco, al rosolio, alla cioccolata; e benchè non sappia che cosa sieno, credendoli mangiativi e buoni, mi saranno cari anche i veneti parpagnacchi.
Paoluccio. Bravissimo! che gravità ammirabile7! Voi mi parete uno di quei superbi villani di Castiglia, che vanno a lavorare i campi colla spada di Catalogna.
Ciccio. Un villano?
Paoluccio. Acchetatevi, caro don Ciccio, che se finora avete avute le umiliazioni de’ rei secondari, ora vi si presentano dinanzi agli occhi i rei principali. Venite, arditelle, tracotanti, maligne: venite a chieder perdono a don Ciccio della vostra audacia. (verso la scena, da dove vengono le due donne) Gli uomini di questa sorta non si legano per le braccia, ma per il cuore; e però domandategli scusa, e contentatevi di ripetere le parole che dirò io.
Menichina. (Io non mi posso tener di ridere). (piano alla Libera)
Libera. (State forte, che rideremo dopo). (piano alla Menichina)
Paoluccio. Signor don Ciccio...
Menichina. Signor don Ciccio...
Paoluccio. Gli domandiamo perdono...
Libera. Gli domandiamo perdono...
Paoluccio. Dispiacendoci aver fatto poco...
Libera. Dispiacendoci aver fatto poco...
Paoluccio. Aver fatto poco il nostro dovere...
Libera. Il nostro dovere...
Paoluccio. e gli promettiamo...
Menichina. Gli promettiamo...
Paoluccio. Fino che dura la presente villeggiatura...
Libera. Fino che dura la presente villeggiatura...
Paoluccio. Mandarlo...
Menichina. Mandarlo...
Paoluccio. a servire di lavature di biancheria...
Menichina. Di lavature di biancheria...
Paoluccio. Serva umilissima del signor don Ciccio.
Libera. Serva umilissima del signor don Ciccio.
Paoluccio. Serva umilissima del signor don Ciccio.
Menichina. Serva umilissima del signor don Ciccio.
Paoluccio. Siete contento? (a don Ciccio)
Ciccio. Sono cose, e non sono cose; intendo, e non intendo. Basta, siete donne, e non voglio guerra con donne. Lavatemi la biancheria fino che si sta qui, e non se ne parli più.
SCENA XVIII.
Donna Lavinia e detti.
Paoluccio. a voi, donna Lavinia, tocca a voi far i vostri complimenti a don Ciccio.
Lavinia. Io posso esibire al signor don Ciccio un posto nella mia carrozza, se vuol venire con noi.
Ciccio. Dove?
Lavinia. In città.
Ciccio. A far che in città?
Lavinia. Non lo sa che ora si parte, e che per quest’anno è terminata la nostra villeggiatura?
Ciccio. Come! terminata ora la villeggiatura? Don Gasparo, che dite voi?
Gasparo. Io dico quel che dice donna Lavinia. Le carrozze sono pronte, si parte or ora, e per quest’anno è finita.
Ciccio. E le promesse fattemi finche dura la villeggiatura?
Paoluccio. La parola vi si mantiene. Tutti sono impegnati con voi finchè dura; disgrazia vostra, ch’ella abbia finito presto.
Ciccio. Questa è una sbeffatura peggiore ancor della prima. Con i pari miei non si tratta così. Giuro al cielo, domando soddidisfazione; e se partite ora, saprò raggiungervi...(Ma se partono, che fo io qui?) (da sè) Sono azioni che non sono da farsi. Son chi sono; mi chiamo offeso, e cospetto di bacco, voglio vendetta, voglio soddisfazione. (parte)
Paoluccio. Oh, se fosse in Venezia, che bella commedia che farebbono di lui!
Lavinia. Non vorrei però ch’ei ci disturbasse8.
Gasparo. Non dubitate. Non ha spirito, non ha forze, si placherà.
Libera. Dunque partono davvero?
Riminaldo. Così è; a rivederci un altro anno.
Libera. Povera me, mi vien da piangere.
Menichina. Anche il signor don Paoluccio?
Paoluccio. Partiamo tutti. Restate, ninfe gentili, coi vostri amanti pastori.
Eustachio. Se vi basta Zerbino, ve lo faremo restare.
Zerbino. Eh, signore, in città ne trovo ancor io di meglio.
Gasparo. Garbate giovani, ho capito; in avvenire mi regolerò.
SCENA ULTIMA.
Don Mauro e detti.
Mauro. Signori, ho trovato don Ciccio afflitto. Egli si duole d’essere stato doppiamente deriso; ma più si duole, che non sa che fare restando qui, e non ha il modo di condursi decentemente in città; dice avergli donna Lavinia offerto un posto nella carrozza, ed ei l’accetta, se si contentano.
Paoluccio. Non ve l’ho detto io?
Gasparo. Venga, venga, è padrone. Anche questa è accomodata. Vo a consolarlo, e voi altri, signori, accomodatevi per i posti, che le carrozze vi aspettano. (parte)
Lavinia. Scegliete, donna Florida, chi v’aggrada.
Florida. Ci sarà nessuno, che si degni di venir con me? Che dice il signor don Mauro?
Mauro. Un cavaliere da voi scartato, non può aspirare all’onor di servirvi. Dispensatemi, signora, altri vi sono di me più degni.
Florida. Il signor don Paoluccio mi fa la grazia?
Paoluccio. Non posso, donna Florida, e già sapete il perchè.
Florida. Farmi il vostro perchè una scioccheria, una stolidezza. Ricusare di servire una dama, perchè non si sveli la stima che s’ha di lei, è un’ingiuria che le vien fatta, come se indegna fosse di esser servita. Ho voluto pubblicare il fanatismo delle belle regole della vostra cavalleria, per non espormi ad esser ridicola presso di chi mi vede. Venite, non venite, per me è lo stesso. Se uno ricusa di palesare la stima che fa di me, troverò dieci che se ne faranno una gloria; e voi, colle vostre massime oltramontane, nella nostra Italia non troverete un can che vi guardi. (parte)
Paoluccio. Vedete? Ecco il caso della costanza. Uno spirito forte non si risente, e di perderla non m’importa un zero.
Menichina. Serva, illustrissima9.
Libera. Buon viaggio, illustrissima.
Lavinia. Vi riverisco. State bene. A rivederci; e vi avviso, per vostra regola, non prendervi in avvenire tanta confidenza coi villeggianti, perchè di già vi burlano, e correte pericolo di perdere la vostra quiete e la vostra riputazione.
Libera. Grazie del buon avviso. Se lo tenga per lei.
Menichina. Eh signora, si vedono i difetti degli altri, e non si conoscono i suoi.
Lavinia. Intendo quel che vogliono dire queste due buone donne. Mi vogliono rimproverare qualche mia debolezza. Per quanto abbia studiato celarla, qualche cosa si è traspirato. Voi, don Paoluccio, ne foste causa.
Paoluccio. Vi domando perdono. Castigatemi, che lo merito. Privatemi della vostra grazia. Cedo il posto a don Mauro, ed io colla mia costanza di animo soffrirò quest’ultimo dispiacere.
Lavinia. Volete dire, che v’importa di me, come di donna Florida. Don Paoluccio, vi consiglio mutar paese e mutar costume, o voi sarete il ridicolo delle nostre conversazioni. Qui s’apprezza la vera costanza, quella che in una nobile servitù è l’unico prezzo della fatica. Ero io disposta a serbarvela eternamente, voi m’insegnaste a mutar pensiero. Non vi lagnate che di voi stesso, se lasciandovi in quella libertà che mostrate desiderare, consacrerò in avvenire tutte le mie oneste attenzioni, tutte le mie nobili brame, al virtuoso don Mauro.
Paoluccio. Costanza d’animo, non mi abbandonare.
Lavinia. Ecco terminata la nostra Villeggiatura: sarebbe stata assai più piacevole, se le gelosie, se i puntigli non l’avessero intorbidata; comunque stata ella sia, potrà dirsi felice, se onorata sarà dagli umanissimi spettatori di un clementissimo aggradimento.
Fine della Commedia.
Note
- ↑ Mancano queste parole nell’ed. Zatta: Io non sono signora; e non mi ecc.
- ↑ Zatta: Bella, bella pure.
- ↑ Così tutte le edizioni. Forse della Senna
- ↑ Zatta: Gli leveremo l’incomodo: io, signore ecc.
- ↑ Zatta aggiunge: o me.
- ↑ Zatta: la mia soddisfazione.
- ↑ Zatta: amabile.
- ↑ Zatta: ch’ei si turbasse.
- ↑ Zatta: Serva umilissima.