Le Fenicie (Euripide - Romagnoli)/Quarto episodio

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Quarto episodio

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Euripide - Le Fenicie (410 a.C. / 409 a.C.)
Traduzione di Ettore Romagnoli (1928)
Quarto episodio
Terzo stasimo Quarto stasimo
Questo testo fa parte della raccolta I poeti greci tradotti da Ettore Romagnoli


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Giunge un araldo.

araldo

Eh lí! Chi c’è sull’uscio della reggia?
Aprite dunque, uscite dalla casa
di Giocasta. Ehi lí, dunque! Anche in ritardo
esci, d’Edípo illustre sposa, e ascolta:
lascia i lamenti e le dogliose lagrime.

giocasta

Una sciagura forse, o dilettissimo,
ad annunciarmi giungi tu? D’Etèocle
forse la morte? Ognor presso il suo scudo
muover solevi tu, degl’inimici
schermir le frecce. Che messaggio rechi?
È morto o vive il mio figliuolo? Dimmelo.

araldo

Vive, non trepidare, io ti rinfranco.

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giocasta

Dimmi, e la cerchia delle sette torri?

araldo

Franta non fu, né la città fu presa.

giocasta

Venner dell’asta al marzïal cimento?

araldo

Al cozzo estremo: e il Marte dei Cadmèi
dei Micenèi le schiere debellò.

giocasta

E se di Poliníce hai nuove, dimmele:
vede ei la luce? Anche di ciò m’importa.

araldo

Vive sin qui dei figli tuoi la coppia.

giocasta

La fortuna t’arrida. E dalle porte
come valeste a rintuzzare, stretti

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cosí d’assedio, le nemiche schiere?
Dillo, ch’io nella reggia entri, ed allegri
il vecchio cieco, poi che salva è Tebe.

araldo

Poscia che il figlio di Creonte, morto
per la sua patria, delle torri in vetta
stando, vibrò nella sua gola il ferro
dall’agèmina negra, onde salute
ebbe la patria, sette schiere e sette
duci, alle porte il figliuol tuo dispose,
a schermo degli Argivi; e poi, riserve
di cavalieri ai cavalier’ dispose,
di pedoni ai pedoni, affinché, dove
pericolasse il muro, ivi giungesse
senza indugio il soccorso. E dall’eccelsa
rocca, l’argivo esercito dai bianchi
scudi, vedemmo abbandonare il campo
sotto il Teumesso; e dalla fossa spintosi
di corsa, giunse alla città di Cadmo.
E il peana e le trombe a un punto squillano
dal loro campo, e presso a noi, sui muri.
E primo contro la porta Neísta
una schiera guidava, irta di scudi
fitti, Partenopèo, della fanciulla
cacciatrice figliuolo: una domestica
insegna su lo scudo ha: con le celeri
frecce, Atalanta un apro ètolo uccide. —
Alle porte di Preto, Anfïarào
s’appressava, il profeta, e sopra il carro
ostie recava; e non l'armi distinte

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avea d’insegne tracotanti, ma
senza insegne, da saggio. — Movea contro
le porte Ogígie il Sire Ippomedónte.
Nel mezzo dello scudo ha per insegna
Argo trapunto d’occhi, onniveggente,
le cui pupille, alcune spíano il sorgere
degli astri, e al loro occaso altre si abbassano;
e conservò la vista anche da morto. —
Alle porte Omolèe presso, le genti
schiera Tidèo, ch’à sullo scudo un vello
di leon, dalla giubba orrida tutta.
Come il Titano Prometèo, nel pugno,
per bruciar la città, stringe una fiaccola. —
Il tuo figliuolo Poliníce, guida
le schiere contro le porte di Crene.
Sopra il suo scudo le Potníadi1 corrono
puledre in corsa, esterrefatte bàlzano,
sopra non so che perni ascosi girano,
all’umbone d’intorno, e par che infurino. —
Capanèo guida, che non men di Marte
nella pugna presume, i suoi guerrieri
contro la porta Elettra. A lui scolpito
nel ferreo dorso dello scudo sta
un gigante, che porta sopra gli omeri,
con le leve divelta, una città:
della sorte di Tebe a noi presagio. —
Alla settima porta era schierato
Adrasto: a lui lo scudo empieano cento
vipere impresse, e col sinistro braccio
l’idre reggeva, onde Argo insuperbisce.
E con le fauci, di mezzo alla rocca,
i figli dei Cadmèi rapian quei draghi. —

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Cosí potei vederli, ad uno ad uno,
poi che recata ai duci ebbi la tessera.
E pria con archi e con zagaglie e tiri
di frombole pugnammo, e d’aspri sassi.
E poi che nostro era il vantaggio, a un tratto
Tidèo gridò, col figlio tuo: «Su, Dànai,
prima di rimaner qui maciullati,
non indugiate, su, tutti d’un balzo
contro le porte prorompete, vèliti
e cavalieri, e guidator’ di cocchi».
E come udita ebber la voce, niuno
pigro restò: molti dei loro caddero
col capo insanguinato; e assai dei nostri
piombar veduti avresti, a capo fitto
giú dai muri, e umettar l’arida terra
coi rivoli del sangue. E come un turbine
sulle porte piombò, non un Argivo,
ma un uom d’Arcadia, d’Atalanta il figlio,
e chiedeva, gridando, fuoco e zappe
per rovesciare la città. Ma freno
Periclimèno alle sue furie pose,
figlio del Dio del pelago, che, svèlto
un masso tal ch’empiuto avrebbe un carro,
dal pinnacol d’un merlo, lo scagliò
a lui sul capo, e stritolò la bionda
testa, dell’ossa franse le compagini;
e il viso, poco fa purpureo, tutto
fu bruttato di sangue. Alla sua madre
saettatrice, alla figlia di Mènalo,
vivo non tornerà. Come tuo figlio
vide che questa porta era sicura,
a un’altra corse, ed io gli tenni dietro.

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E Tidèo vidi, e le sue fitte schiere
che giavellotti contro l’alta fauce
scagliavan delle torri, onde, fuggiaschi,
i merli abbandonati aveano i nostri.
Ma, come un cacciatore, il figlio tuo
li raccozza di nuovo, e li dispone
sopra le torri. E quando ebbe provvisto
a questo mal, movemmo a un’altra torre.
Or, come ti dirò quanto il furore
era di Capanèo? Venía, recando
d’un’erta scala i gradi, e facea vanto
che neppure di Giove il sacro fuoco
posto gli avrebbe fren, sí ch’ei dal vertice
delle sue torri non struggesse Tebe.
Cosí diceva; e, fatto mira ai sassi,
tutto sotto lo scudo in sé raccolto,
ad uno ad uno, fra gli staggi, i lisci
gradi ascendeva della scala; e il vertice
già varcava del muro, allor che il folgore
di Giove lo colpí: diede un rimbombo
la terra, tal, che tutti esterrefece.
E dalla scala le sue membra, lungi
l’una dall’altra, frombolate furono:
all’Olimpo le chiome, il sangue a terra,
le mani, e il resto delle membra, come
la ruota d’Issïóne, in giro andavano;
e al suolo, arso, il cadavere piombò.
Or, come Adrasto alle sue schiere vide
nemico Giove, dalla fossa fece
ritrar gli Argivi. E i nostri, come videro
fausto per essi il giovïal prodigio,
spingendo i carri, e cavalieri e opliti,

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rupper con l’armi fra le schiere argive.
E mal su male quivi fu: morivano,
giui dai carri piombavano, le ruote
via schizzavano, e gli assi sopra gli assi
e i morti sopra i morti, s’ammucchiavano.
Delle toni schivata abbiamo dunque
sino a qui la caduta: ai Numi, rendere
per l’avvenir beata questa terra:
insino a qui, salva la volle un Dèmone.

corifea

Vincere è bello; ma sarei felice
se un partito miglior gli Dei prendessero.

giocasta

La fortuna e gli Dei finor ci arrisero.
Son vivi i figli miei, salva è la terra.
Ma delle nozze mie, del mal d’Edípo,
fu per Creonte amaro il frutto: il figlio
esso perdé: per la città fortuna,
lutto per lui. Ma questo ancora dimmi
dei figli miei, che fare inoltre intendono.

araldo

Non chieder piú: sin qui felice fosti.

giocasta

A sospettar m’induci: io vo’ sapere.....

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araldo

Son salvi i figli tuoi: che vuoi di piú?

giocasta

Se fortuna m’arride anche nel resto.

araldo

Fa’ ch’io vada: scudier non ha tuo figlio.

giocasta

Qualche sciagura tu nascondi e celi.

araldo

Dir dopo il bene i mali, non vorrei.

giocasta

Dovrai, seppur non fuggirai nell’ètere.

araldo

Ahimè, perché dopo le fauste nuove
partir non m’hai lasciato, ed or m’astringi
a dire i mali? I figli tuoi s’apprestano

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ad azzuffarsi, ardire abbominevole,
dalle schiere in disparte, a faccia a faccia.
Ed agli Argivi ed ai Cadmèi rivolsero
parole quali mai dovuto avrebbero.
Etèocle cominciò, che su la vetta
si piantò d’una torre, e diede l’ordine
d’intimare il silenzio, e cosí disse:
«Duci d’Ellade e principi dei Dànai
che qui veniste, e popolo di Cadmo,
per Poliníce né per me, la vita
piú non vendete: io stesso vo’ rimuovere
da voi questo periglio, e col fratello
combattere da solo. E s’io l’uccido,
avrò solo io la reggia: il regno a lui
cederò, se son vinto. E voi, la pugna
abbandonata, tornerete in patria,
né qui la vita lascerete, Argivi.
E bastano anche quanti morti giacciono
già degli Sparti». Cosí disse. E il figlio
tuo, Poliníce, balzò dalle file,
ed approvò quei detti. Ed acclamarono
alto gli Argivi, e il popolo di Cadmo,
che quel partito giusto reputavano.
Cosí tregua si fece; e nella lizza,
fra le due schiere, giuramento i duci
fecero, di serbar fede a quel patto.
E già le membra i due giovani figli
d’Edípo, rivestian dell’armi bronzee.
E li armavan gli amici: Etèocle, gli ottimi
di Tebe; e l’altro i principi dei Dànai.
Cosí, fulgenti stavano, struggendosi
di vibrare le lancie un contro l’altro,

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senza mutar colore. E si facevano,
chi di qua, chi di là presso, gli amici,
l’incoravan coi detti, e li esortavano.
«O Poliníce, a te levar la statua
di Giove per trofeo, d’illustre fama
Argo coprire». E a Etèocle: «Or tu combatti
per la tua patria; e vincerai, lo scettro
regio conquisterai». Cosí dicevano,
eccitandoli a guerra. E gl’indovini
sgozzavano le vittime, osservavano
le cime delle fiamme, e quando bifide
lingueggiavano, e quando serpeggiavano
sinistramente, e, vòlti a meta duplice
e di vittoria e di sconfitta, gli àpici.
Or via, se mezzo alcuno hai, se parole
sagge, o d’incanti allettamenti, muovi,
trattieni i figli dall’orrida gara,
che orrendo è tal cimento, ed il pericolo
è grande: assai tu piangerai, se priva
resterai d’ambi i figli in un sol giorno.
Parte.

giocasta

Esci di casa, o mia figliuola, o Antigone.
Non a carole, né a virginee cure
il destino per te volge dei Dèmoni;
ma due prodi campioni e tuoi fratelli
che traboccano a morte, impedir devi,
con la tua madre, che l’un l’altro uccidano.

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antigone

Qual nuovo colpo pei tuoi cari, o madre,
in cospetto alla casa ora tu gridi?

giocasta

Son perduti, o figliuola, i tuoi fratelli.

antigone

Che dici?

giocasta

               A pugna uno con l’altro vennero.

antigone

Che dici?

giocasta

               Ingrate nuove; eppure, seguimi.

antigone

Dove, lontan dalle mie stanze?

giocasta

                                                  Al campo.

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antigone

N’ho vergogna.

giocasta

                              Non tempo è di vergogna.

antigone

Che devo far?

giocasta

                              Pacifica i fratelli.

antigone

Indugiar non si deve. Ora tu guidami.

giocasta

Affretta, o figlia, affretta. Ov’io lo scontro
dei miei figli prevenga, ancora in vita
rimarrò: se morranno, anch’io morrò.
Escono.

Note

  1. [p. 339 modifica]Le Potniadi.... puledre, le cavalle che infuriate lacerarono in Potnia, nella Beozia, Glauco.