Le Mille ed una Notti/Storia degli amori di Camaralzaman, principe dell'isola dei Figli di Khaledan, e di Badura, principessa della China

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Storia degli amori di Camaralzaman, principe dell'isola dei Figli di Khaledan, e di Badura, principessa della China

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Storia degli amori di Camaralzaman, principe dell'isola dei Figli di Khaledan, e di Badura, principessa della China
Risposta del principe di Persia a Schemselnihar Continuazione della storia di Camaralzaman

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Il principe Camaralzaman.               Disp. VII.

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STORIA

DEGLI AMORI DI CAMARALZAMAN, PRINCIPE DELL’ISOLA DEI FIGLI DI KHALEDAN, E DI BADURA, PRINCIPESSA DELLA CHINA.


— Sire, a venti giornate circa di navigazione dalle coste della Persia, avvi nell’ampio mare un’isola denominata l’isola dei Figli di Khaledan; è divisa questa in parecchie grandi province, tutte considerevoli per città fiorenti e popolate, che formano un potentissimo regno. Era altre volte quell’isola governata da un monarca di nome Schahzaman (1), il quale aveva quattro mogli legittime, tutte e quattro figlie di sovrani, e sessanta concubine.

«Schahzaman stimavasi il re più felice della terra, per la tranquillità e prosperità del suo regno; una sola cosa ne turbava il riposo, l’essere, cioè, già avanzato in età e non aver figliuoli, sebbene avesse tanto numero di mogli. Non sapeva a qual cosa attribuire simile sterilità, e nella sua afflizione, risguardava come la maggior disgrazia che gli potesse accadere il morire senza lasciar dopo di sè un successore del proprio sangue. Dissimulò a lungo il cordoglio cocente che lo tormentava, e tanto più soffriva, in quanto che facevasi violenza per non dimostrarlo; ma ruppe finalmente il silenzio, ed un giorno, dopo essersi amaramente doluto della propria sventura col suo gran visir, al quale parlò in segreto, gli domandò se sapesse qualche mezzo onde rimediarvi.

[p. 259 modifica]«— Se ciò che vostra maestà mi chiede,» rispose il saggio ministro, «dipendesse dalle regole comuni della saviezza umana, ella avrebbe la soddisfazione che tanto ardentemente desidera; ma confesso che la mia esperienza e le mie cognizioni sono inferiori a ciò ch’ella mi propone: non v’ha che Iddio solo al quale si possa ricorrere in simili bisogni: in mezzo alle nostre prosperità, che spesso ce lo fanno dimenticare, egli si compiace di mortificarci in qualche cosa, onde obbligarne a pensare a lui, a riconoscerne l’onnipotenza, e domandargli quello che da lui solo dobbiamo attendere. Voi avete sudditi che fanno speciale professione di onorarlo, servirlo, e vivere dura vita per amor suo: sarebbe mia opinione, che vostra maestà lor facesse elemosine, esortandoli ad unire le preghiere loro alle vostre. Può darsi che nel gran numero se ne trovi qualcuno abbastanza puro ed accetto a Dio per ottenere da lui che esaudisca i vostri voti. —

«Aggradì il re Schahzaman tale consiglio, e ringraziatone il gran visir, ordinò quindi che si portassero ricche elemosine a ciascuna comunità di quella gente consacrata a Dio: fece anzi venire i superiori, e dopo averli trattati ad un frugale banchetto, spiegò ad essi la propria intenzione, e li pregò di avvertirne i divoti che trovavansi sotto la loro obbedienza.

«Schahzaman ottenne dal cielo quanto bramava; ciò apparve in breve per la gravidanza d’una delle sue mogli, che in capo a nove mesi diè in luce un figliuolo. In rendimento di grazie, spedì alla comunità dei Musulmani divoti nuove elemosine degne della grandezza e della potenza sua; e fece celebrare la nascita del principe, non solo nella capitale, ma in tutta l’estensione de’ suoi stati eziandio, con feste pubbliche per un’intiera settimana. Gli fu portato il principino appena nato, nel quale egli trovò [p. 260 modifica]tanta bellezza, che gli diede il nome di Camaralzaman, Luna del secolo.

«Il principe Camaralzaman fu educato con tutte le immaginabili cure; e quando giunse all’opportuna età, il sultano Schahzaman, suo padre, gli diede un buon aio ed abili precettori. Celesti personaggi, distinti per la loro capacità, trovarono in lui uno spirito pronto, docile, capace di ricevere tutte le istruzioni che gli vollero dare, tanto per la regola de’ suoi costumi, quanto per le cognizioni che un principe, suo pari, doveva possedere. In età più adulta, imparò egualmente tutti i suoi esercizi, e li adempiva con una grazia e destrezza maravigliosa, colle quali incantava tutti, e particolarmente il sultano suo padre.

«Compiti ch’ebbe il principe i quindici anni, il sultano, che teneramente lo amava, e gliene dava ogni dì più nuove prove, concepì il pensiero di dargliene la più splendida, quella di scendere dal trono e collocarvelo. Ne parlò al gran visir. — Temo,» gli disse, «che mio figlio non perda nell’ozio della gioventù non solo tutti i vantaggi dei quali colmato lo ha la natura, ma quelli eziandio acquistati con tanto esito nella buona educazione che ho cercato di dargli. Siccome sono ormai in età da pensare al riposo, ho quasi risoluto di abbandonare il governo nelle sue mani, e passare il resto de’ miei giorni colla soddisfazione di vederlo regnare. È molto tempo che lavoro, ed ho bisogno ormai di quiete. —

«Non volle il gran visir rappresentare al sultano tutte le ragioni che avrebbero potuto dissuaderlo dall’eseguire la concepita risoluzione; ma entrò invece nel suo sentimento. — Sire,» rispose, «il principe è ancora molto giovane, mi sembra, onde incaricarlo sì per tempo d’un fardello tanto pesante qual è quello di governare una vasta monarchia. Vostra maestà, teme che non si corrompa nell’ozio, e con ragione: ma per [p. 261 modifica]rimediarvi, non crederebb’ella più a proposito di prima ammogliarlo? Il matrimonio lega; ed impedisce che un giovine principe s’abbandoni al libertinaggio. Allora, vostra maestà lo riceverebbe ne’ suoi consigli, dove imparerebbe a poco a poco a sostenere degnamente lo splendore ed il peso della vostra corona, di cui sarete sempre al tempo di spogliarvi in suo favore, allorquando, di vostra propria sperienza, ne lo giudicherete capace. —

«Trovò, Schahzaman ragionevolissimo il consiglio del primo ministro, e congedato che l’ebbe, fece chiamare Camaralzaman.

«Il principe, che aveva sempre fin allora veduto il sultano suo padre a certe ore stabilite senza aver bisogno di essere chiamato, maravigliò non poco di quell’ordine; laonde, invece di presentarsegli davanti colla consueta libertà e franchezza, lo salutò con grande rispetto, e si fermò alla di lui presenza cogli occhi bassi.

«Si avvide il sultano dell’imbarazzo del principe. — Figlio,» gli disse con aria da rassicurarlo appieno, «sapete voi per qual motivo vi ho fatto chiamare? — Sire,» rispose modestamente il principe, «Iddio solo può penetrare fino nei cuori; lo sentirò da vostra maestà con piacere. — L’ho fatto per dirvi,» ripigliò il sultano, «che voglio darvi moglie. Che ve ne pare?

«Il principe Camaralzaman udì quelle parole con estremo dispiacere; desse lo sconcertarono; il sudore gl’inondò la fronte, e non sapeva cosa rispondere. Però, dopo alcuni momenti di silenzio: — Sire,» rispose, «vi supplico di perdonarmi se, per la dichiarazione fattami da vostra maestà, le sembrò interdetto; io non me l’aspettavo nella grande giovinezza in cui mi trovo. Non so anzi se potrò mai risolvermi al legame del matrimonio, non tanto a motivo dell’imbarazzo che [p. 262 modifica]danno le donne, come benissimo comprendo, ma bensì per quanto ho letto delle loro furberie, delle cattiverie e perfidie loro ne’ nostri autori. Forse non sarò sempre del medesimo sentimento. Pur sento tuttavia che mi occorre qualche tempo prima di determinarmi a ciò che vostra maestà esige da me.»

Scheherazade voleva proseguire; ma scorgendo che il sultano delle Indie, il quale erasi avvisto che il giorno spuntava, già usciva dal letto, cessò di parlare. La notte seguente però riprese la novella medesima, e disse:


NOTTE CCXII


— Sire, la risposta del principe Camaralzaman afflisse estremamente il sultano suo padre. Quel monarca provò un vero dolore di trovare in lui sì grande ripugnanza pel matrimonio. Non volle nondimeno trattarla da disobbedienza, nè usare della paterna autorità, e si contentò di dirgli:

«— Non pretendo contrariare su questo punto il desiderio vostro; vi do tempo di riflettervi, e di considerare che un principe come voi, destinato a governare un gran regno, deve prima pensar a darsi un successore. Procurandovi questa soddisfazione, me la farete provare anche a me medesimo, e sarò ben lieto di vedermi rivivere in voi e nei figli che potrete avere. —

«Schahzaman non disse di più al principe Camaralzaman. Lo accolse ne’ consigli de’ suoi stati, e si mostrò compiacente a tutte le di lui brame. Scorso un anno, lo prese in disparte, e gli disse: — Or bene, figliuolo, vi siete ricordato di riflettere al disegno ch’io aveva fin dall’anno passato di [p. 263 modifica]ammogliarvi? Ricuserete ancora di darmi la gioia che dalla vostra obbedienza aspetto; e volete lasciarmi morire senza concedermi questa soddisfazione? —

«Parve il principe meno sconcertato della prima volta, e non esitò a rispondere con fermezza in questi termini: — Sire, non ho lasciato di pensarci con tutta l’attenzione che doveva; ma avendovi maturamente riflettuto, mi sono viemeglio confermato nella risoluzione di vivere senza impegnarmi nel matrimonio. In fatti, i mali infiniti che le donne hanno cagionato in tutti i tempi nell’universo, come potei ampiamente impararlo nelle nostre storie, e ciò che sento dire ogni giorno della loro malizia, sono i motivi che mi persuadono a non volere in vita mia verun legame con esse. Vostra maestà dunque vorrà perdonarmi, se oso rappresentargli esser inutile che mi parli ulteriormente di prender moglie.» Qui tacque, e lasciò il sultano suo padre bruscamente, senza aspettare che gli replicasse.

«Ogni altro monarca, fuor del re Schahzaman, avrebbe molto penato a non isdegnarsi dell’ardire con cui avevagli parlato il principe suo figliuolo, ed a non farnelo pentire; ma egli lo amava, e voleva usare tutte le vie di dolcezza prima di costringerlo. Comunicò pertanto al suo primo ministro il nuovo motivo di dispiacere datogli dal principe. — Ho seguito,» gli disse, «il vostro consiglio; ma Camaralzaman è più lontano dall’ammogliarsi che non lo fosse la prima volta che gliene parlai; e si è spiegato in termini così arditi, ch’ebbi d’uopo della mia ragione e di tutta la moderazione mia per non adirarmi con lui. I padri che domandano figli coll’egual istanza ond’io ho invocato questo, sono tanti insensati che cercano privarsi essi medesimi del riposo, delle quale da loro soli dipende di godere tranquillamente. Ditemi, vi prego, per quali mezzi potrò ricondurre all’obbedienza uno spirito sì rubello a’ voleri miei?

[p. 264 modifica]«— Sire,» rispose il gran visir, «si viene a capo d’un’infinità di cose colla pazienza; forse non è questa di tal natura da riuscirvi per tal via; ma vostra maestà non avrà a rimproverarsi di aver usata troppa grande precipitazione, se volesse stimar a proposito di dare al principe un altro anno di tempo per consigliarsi. Se in questo intervallo rientra nel suo dovere, ella ne proverà una soddisfazione tanto maggiore, in quanto che non avrà adoperato se non la paterna bontà per obbligarvelo. Se, per lo contrario, persiste nella sua ostinazione, allora, spirato che sia l’anno, mi sembra che vostra maestà potrà, con tutta ragione dichiarargli in pieno consiglio, che il bene dello Stato esige che si ammogli. Non è credibile ch’ei vi manchi di riguardo al cospetto d’una celebre assemblea, che voi onorate della vostra presenza. —

«Il sultano, il quale tanto ardentemente desiderava di veder accasato il principe suo figliuolo, da sembrargli anni i momenti di sì lunga dilazione, ebbe molta difficoltà a risolversi ad attendere tanto tempo. Si arrese nondimeno alle ragioni del gran visir, cui non poteva disapprovare....»

L’alba, che già cominciava a comparire, impose qui silenzio a Scheherazade. Ripigliò essa la continuazione del racconto la notte seguente, e disse al sultano Schahriar:


NOTTE CCXIII


— Sire, quando il gran visir si fu ritirato, il sultano Schahzaman recossi all’appartamento della madre del principe Camaralzaman, alla quale da gran tempo aveva manifestato l’ardente desiderio di [p. 265 modifica]vederlo sposo. Raccontatole dunque con dolore in qual guisa il figlio si fosse rifiutato per la seconda volta a compiacerlo, e palesatale l’indulgenza che pur voleva usargli, pel consiglio del gran visir: — Signora,» le disse, «so ch’egli ha maggior confidenza in voi che in me; che voi gli parlate, ed egli vi ascolta più familiarmente; vi prego di prendere il destro di favellargliene sul serio, e fargli comprender bene che se persiste nella sua ostinazione, mi costringerà alla fine di venirne ad estremità, delle quali sarei dispiacentissimo, e che lo farebbero pentire di avermi disobbedito. —

«Fatima, così chiamavasi la madre di Camaralzaman, mostrò al principe suo figliuolo, la prima volta che lo vide, d’essere informata del nuovo rifiuto d’ammogliarsi da lui dato al sultano suo padre, e quanto fosse dolente, che gli avesse somministrato sì grave motivo di sdegno. — Signora,» rispose Camaralzaman, «vi supplico di non rinnovare il mio dolore su questo argomento; temerei troppo, nel dispetto che provo, che mi sfuggisse qualche parola contraria al rispetto che vi devo.» Conobbe Fatima da tale risposta che troppo recente era la piaga, e per quella volta non gli disse altro.

«Molto tempo dopo, Fatima credette aver trovata l’occasione di parlargli sul medesimo soggetto, con maggiore speranza di venire ascoltata. — Figlio mio,» gli disse, «vi prego, se ciò non vi fa dispiacere, di indicarmi quali siano le ragioni, che v’ispirano tanta avversione pel matrimonio. Se non ne avete altre che quelle della malizia e cattiveria delle donne, non può esser dessa più debole, nè meno ragionevole. Non voglio prendere la difesa delle donne malvage: ve n’ha un numero grandissimo, ne convengo pur troppo; ma è un’ingiustizia delle più solenni l’imputarle tutte d’esser tali. Eh! figliuolo, [p. 266 modifica]voi vi fermate sopra alcune, delle quali parlano i vostri libri, che hanno prodotto, a dir vero, gravi disordini, e ch’io non voglio scusare. Ma perchè non fate attenzione a tanti monarchi, a tanti sultani, a tanti altri principi privati, le cui tirannidi e crudeltà fanno orrore al solo leggerle nelle storie, ch’io conosco al par di voi? Per una sola donna, troverete mille di questi tiranni e di questi barbari. E le donne oneste e savie, figlio mio, le quali hanno la disgrazia di trovarsi maritate a quei furibondi, credete voi che siano molto felici?

«— Signora,» riprese Camaralzaman, «non negherò che ci sia buon numero di donne savie, virtuose, buone, dolci e di ottimi costumi. Dio volesse che vi somigliassero tutte! Quanto mi ributta, è la scelta dubbiosa che un uomo è costretto di fare per ammogliarsi, o piuttosto, che non gli si lascia spesso la libertà di fare a suo modo. Supponiamo che mi determini al matrimonio, come il sultano mio padre desidera con tanta impazienza; qual donna mi darà? Una principessa probabilmente, ch’egli domanderà a qualche principe suo vicino, il quale si farà un grande onore di tosto accordargliela. Bella o brutta, bisognerà prendersela. Voglio anche ammettere che nessun’altra principessa le sia paragonabile per avvenenza. Chi può arguire che avrà l’animo ben fatto; che sarà destra, compiacente, manierosa, obbligante; che saprà parlare di cose solide, e non di soli abbigliamenti, di acconciature, d’ornamenti e mille altre futilità che devono sembrar ridicole ad ogni uomo di buon senso; in una parola, ch’essa non sarà altiera, disgustosa, arrogante, e non rovinerà tutto uno stato colle sue frivole spese d’abiti, di gioie, di galanterie, e la sua magnificenza pazza e malintesa? Come vedete, o signora, ecco, sur un solo articolo, un’infinità di cose per le quali devo disgustarmi affatto del matrimonio. [p. 267 modifica]E quand’anche questa principessa fosse poi così perfetta e compita da essere senza taccia sopra ciascuno di tutti questi punti, ho gran numero di ragioni ancor più forti per non desistere dal mio sentimento, non più che dalla mia risoluzione.

«— Come! figliuolo,» ripigliò Fatima, «avete altre ragioni oltre quelle che mi avete dette? Io pretendeva nonostante di rispondervi, e chiudervi la bocca con una parola. — Ciò non vi sia d’impedimento, o signora;» replicò il principe; «avrò forse di che confutare la vostra risposta.

«— Voleva dire, figliuol mio,» disse Fatima allora, «esser facile ad un principe, quand’abbia avuto la disgrazia di sposare una principessa quale voi l’avete dipinta, di ripudiarla, e metter buon ordine onde impedire che non rovini lo stato.

«— Ah! signora,» rispose il principe Camaralzaman, «non vedete qual terribile mortificazione è per un principe il vedersi costretto di venirne a tali estremi? Non val forse assai meglio, per la sua gloria e pel suo riposo, di non esporvisi?

«— Ma, figliuolo,» soggiunse Fatima, «nel modo in cui la intendete, comprendo che volete essere l’ultimo de’ re della vostra schiatta, che hanno regnato con tanta gloria sulle isole dei Figli di Khaledan.

«— Signora,» rispose il principe Camaralzaman; «io non desidero di sopravvivere al re mio padre. Quando pur morissi prima di lui, non vi sarebbe motivo di maravigliarsene, dopo tanti esempi di figli che muoiono prima dei genitori. Ma è sempre gloriosa cosa, per una schiatta di re, finire con un principe degno di esserlo, com’io cercherei di rendermi, prendendo a modello i miei antenati, e specialmente il primo re della nostra stirpe. —

«Dopo quella volta, ebbe Fatima spessissimo occasione di tenere simili discorsi col principe; essa [p. 268 modifica]impiegò tutti i mezzi possibili onde vincerne la ripugnanza: ma egli deluse tutte le ragioni, ch’essa potè addurgli, con altre ragioni alle quali non sapeva come rispondere, e rimase irremovibile.

«Passò l’anno, e con gran dolore del sultano Schahzaman, non diede Camaralzaman il minimo indizio di aver cangiato sentimento. E un giorno di consiglio solenne in fine, che il primo visir, gli altri visiri, i principali ufficiali della corona ed i generali dell’esercito erano tutti adunati, prese il sultano la parola, e disse al principe: — Figliuolo, è molto tempo ch’io vi dimostrai il mio gran desiderio di vedervi ammogliato, ed attendeva da voi maggior compiacenza per un padre il quale nulla esigeva che ragionevole non fosse. Dopo una sì lunga resistenza da parte vostra, che ha spinta la mia pazienza agli estremi, vi spiego il medesimo desiderio alla presenza del mio consiglio. Non si tratta più di compiacere semplicemente ad un padre, al quale non dovreste aver mai negata la vostra adesione; si tratta che il bene de’ miei Stati lo esige, e che tutti questi signori lo chieggono con me. Spiegatevi adunque, affinchè, secondo la vostra risposta, io possa pensare al partito cui debbo appigliarmi. —

«Il principe Camaralzaman rispose con sì poco ritegno, o piuttosto con tal veemenza, che il sultano, giustamente irritato della confusione onde un figliolo copriva in pieno consiglio, sclamò: — Come! figlio maturato, avete l’insolenza di parlare in tal modo al vostro padre e vostro sultano?» Lo fece quindi arrestare dagli uscieri, e condurre in un’antica torre, abbandonata da lungo tempo, ove fu rinchiuso, con un letto, pochi altri mobili, alcuni libri, ed un solo schiavo per servirlo.

«Camaralzaman; contento di avere la libertà di trattenersi co’ suoi libri, riguardò la sua prigionia con [p. 269 modifica]indifferenza. Verso sera si alzò, fece la sua preghiera, e letti alcuni capitoli del Corano colla medesima tranquillità, come se fosse stato nel suo appartamento, si coricò, lasciando accesa la lampada che avea deposta presso al letto, e si addormentò.

«Eravi in quella torre un pozzo che, di giorno, serviva d’asilo ad una fata chiamata Maimona, figlia di Damriat, re o capo d’una legione di geni. Era circa mezzanotte, quando Maimona si slanciò leggermente all’alto del pozzo per andare pel mondo, secondo il suo costume, ove la curiosità la portasse; grande ne fu lo stupore vedendo lume nella stanza del principe. Vi entrò, e senza fermarsi allo schiavo, che stava coricato alla porta, accostossi al letto, di cui ammirò la magnificenza; ma rimase assai più sorpresa, accorgendosi che qualcuno vi era coricato.

«Aveva il principe Camaralzaman il volto mezzo nascosto sotto la coperta: Maimona, alzandola un poco, vide il più bel giovane che avesse mai veduto in alcun sito della terra abitata, da lei spesse volte percorsa. — Che splendore,» pensò la fata, «o piuttosto qual prodigio di bellezza non dev’essere, quando questi occhi, che nascondono palpebre sì ben formate, saranno aperti! Qual motivo di malcontento può egli aver dato per venir trattato in maniera cotanto indegna dell’alto suo grado?» Poichè la fata aveva già udito parlarne, e sospettava dell’affare.

«Non poteva Maimona stancarsi dall’ammirare il principe; ma infine, dopo averlo baciato su ciascuna guancia ed in mezzo alla fronte senza svegliarlo, rimise la coperta al posto di prima, e spinse il suo volo nell’aere. Sollevatasi ben alto verso la media regione, fu colpita da uno strepito d’ali che la decise a volare dalla medesima parte, ed accostatasi, vide ch’era prodotto da un genio, di quelli che si ribellarono a Dio; perchè, quanto a Maimona, era [p. 270 modifica]essa di que’ geni che il gran Salomone costrinse a riconoscere dopo quel tempo.

«Il genio, che chiamavasi Danhasch, ed era figliuolo di Schamhurasch, riconobbe anch’esso Maimona, ma con molto spavento. In fatti, era egli costretto a confessare che la fata aveva su lui una grande superiorità per la sua commissione a Dio, ed avrebbe perciò voluto evitarne l’incontro; ma se le trovò tanto vicino, che bisognava battersi o cedere.

«Danhasch prevenne la fata. — Buona Maimona,» le disse con supplichevole accento, «giuratemi, pel gran nome di Dio, di non farmi alcun male, ed io vi prometto da parte mia di non farne a voi.

«— Maledetto genio,» rispose Maimona, «che male mi potresti tu recare? Io non ti temo. Pur voglio accordarti questa grazia, e faccio il giuramento che mi domandi. Ora dimmi d’onde vieni, cosa hai veduto, e che facesti questa notte. — Bella dama,» rispose Danhasch, «voi m’incontrate a proposito per udire qualche cosa di maraviglioso...»

Schahriar, scorgendo l’aurora, si alzò per far la preghiera, e dedicarsi alle cure del suo impero. Permise quindi alla sultana di continuare il suo racconto la notte seguente, ed essa fecelo in questi termini:


NOTTE CCXIV


— Sire,» diss’ella, «il genio ribelle a Dio soggiunse, parlando a Maimona:

«— Poichè lo desiderate, vi dirò che vengo dalle estremità della China, vicino alle ultime isole di questo emisfero... Ma, vezzosa Maimona,» disse qui Danhasch, il quale tremava di paura alla presenza della fata, e stentava a parlare, «mi prometterete [p. 271 modifica]almeno di perdonarmi, e lasciarmi andare liberamente, quando avrò soddisfatto alle vostre domande?

«— Prosegui, prosegui, maledetto,» ripigliò Maimona, «e non temer di nulla. Credi tu che io sia una perfida al par di te, capace di mancare al giuramento che ti ho fatto? Guardati però dal dirmi qualche menzogna: altrimenti ti taglierò le ali, e ti tratterò come meriti. —

«Danhasch, alquanto rassicurato da quelle parole di Maimona: — Mia bella dama,» ripigliò, «nulla vi dirò che non sia verissimo; abbiate soltanto la compiacenza di ascoltarmi. Il paese della China, d’onde vengo, è uno de’ più potenti imperi della terra, dal quale dipendono le ultime isole di questo emisfero onde v’ho già parlato. Il re d’oggi si chiama Gaiur, e costui ha un’unica figliuola, la più bella che siasi mai veduta nell’universo, dacchè mondo è mondo. Nè voi, ned io, nè i geni del vostro partito, nè quelli del mio, nè tutti gli uomini insieme, abbiamo termini adatti, espressioni abbastanza vive, od eloquenza sufficiente per farne un ritratto che si accosti a ciò ch’essa è in fatto. Ha costei i capelli bruni, e di tal lunghezza, che le scendono molto più basso dei piedi, e sono in tanta copia, che mal non somigliano ad uno di que’ bei grappoli d’uva, i cui grani sono di straordinaria grossezza, quand’ella se li accomoda in anelli sulla testa. Sotto quei capelli ha la fronte liscia come il più terso specchio, e di stupenda forma; gli occhi neri, a fior di testa, scintillanti e pieni di fuoco; naso nè troppo lungo nè troppo corto; bocca piccola e vermiglia; i denti sono come due file di perle, che superano le più belle in candidezza; e quando muove la lingua per parlare, manda una voce dolce e gratissima, ed esprimesi con parole che ne dinotano la vivacità dello spirito; il più bell’alabastro non è più bianco del suo seno. Da questo semplice schizzo [p. 272 modifica]infine, comprenderete facilmente non esistere al mondo più perfetta bellezza.

«Chi non conoscesse bene il re, padre di codesta principessa, crederebbe, dai segni di tenerezza paterna che le impartisce, ch’egli ne sia innamorato. Mai amante ha fatto per la donna più diletta quello che fu veduto fare per lei. In fatti, la più violenta gelosia non ha mai immaginato ciò che la cura di renderla inaccessibile ad ogni altro, tranne a colui che deve sposarla, gli fece inventare ed eseguire. Affinchè non finisse coll’annoiarsi nel ritiro in cui aveva risoluto di custodirla, le fece fabbricare sette palazzi, come non si è mai veduto, nè udito parlare di simili.

«Il primo palazzo è di puro cristallo, il secondo di bronzo, il terzo d’acciaio, il quarto d’un’altra sorta di bronzo più prezioso del primo e dell’acciaio, il quinto di pietra di paragone, il sesto d’argento ed il settimo d’oro massiccio. Li ha ammobigliati poi con inaudita magnificenza, ciascuno in una maniera proporzionata alla materia, ond’è costruito. Nè ha dimenticato, negli annessi giardini, le verdi zolle smaltate di fiori, i laghetti dal cui seno si slanciano stupendi zampilli d’acqua, i canali, le cascate, i boschetti di fronzuti alberi a tiro d’occhio, dove il sole mai non penetra; il tutto in un ordine diverso in ogni giardino. Il re Gaiur, finalmente, dimostrò che l’amore paterno solo poteva essere capace di fargli fare si immensa spesa.

«Alla fama dell’impareggiabile beltà della principessa, i re vicini più potenti inviarono in prima a chiederla in matrimonio per mezzo di solenni ambasciate; il re della China le ricevè tutte con egual accoglienza; ma siccome non voleva maritare la principessa se non di suo consenso, e questa non aggradiva alcuno dei partiti che le si proponevano, se gli ambasciatori tornavansene poco soddisfatti [p. 273 modifica]quanto al soggetto della loro missione, partivano almeno contentissimi delle gentilezze e degli onori ricevuti.

«— Sire,» diceva la principessa al re della China, «voi volete maritarmi, e credete con ciò di farmi gran piacere. Ne sono persuasa, e mi vi professo obbligatissima. Ma ove potrei, come presso alla maestà vostra, trovar palazzi sì superbi e giardini tanto deliziosi? Aggiungo che, sotto il vostro beneplacito, io non sono costretta a fare le altrui volontà, e che mi si rendono gli onori medesimi come alla vostra stessa persona. Sono vantaggi che non troverò in alcun altro luogo del mondo, a qualunque sposo mi volessi dare. I mariti vogliono sempre esserci padroni, ed io non sono d’umore da lasciarmi comandare. —

«Dopo parecchie ambasciate, ne giunse una per parte d’un re più ricco e potente di tutti quelli che eransi presentati. Ne parlò il re della China alla principessa sua figliuola, e le esagerò i vantaggi cui ridondati gliene sarebbe accettandolo in isposo. La principessa lo supplicò di volernela dispensare, adducendogli le medesime ragioni di prima; egli la sollecitò, ma invece di arrendersi, essa perdette il rispetto che doveva al re suo padre. — Sire,» gli disse incollerita, «non mi parlate più di questo matrimonio, nè di qualunque altro; altrimenti mi pianterò un pugnale nel seno, liberandomi così dalle vostre importunità. —

«Il re della China, estremamente sdegnato contro la principessa, le rispose: — Figliuola, voi siete una pazza, e come tale vi tratterò.» In fatti, la fece rinchiudere in un appartamento isolato d’uno de’ suoi palazzi, e le diede dieci sole vecchie per tenerle compagnia e servirla, di cui la principale era la sua nutrice. Poscia, affinchè i re vicini, che gli avevano mandato ambasciatori, più non pensassero a lei, spedì inviati ad annunciar loro la ripugnanza che la principessa sentiva pel matrimonio; e non dubitando [p. 274 modifica]fosse veramente pazza, incaricò i medesimi inviati di far sapere in ciascuna corte, che se esisteva qualche medico capace di guarirla, si presentasse, ch’egli in ricompensa gliela concederebbe in isposa.

«— Bella Maimona,» continuò Danhasch, «le cose sono in questo stato, ed io non manco di andare ogni dì a contemplare quella impareggiabile bellezza, alla quale sarei ben dolente di aver cagionato il minimo male, nonostante la naturale mia malizia. Venitela a vedere, ve ne prego; essa ne vale la pena. Quando avrete conosciuto da voi medesima che non sono un bugiardo, sono persuaso che mi ringrazierete di avervi fatto vedere una principessa che non ha chi la pareggi in beltà. Son pronto a servirvi di guida; non avete che a comandare. —

«Invece di rispondere; Maimona proruppe in grandi scrosci di risa che durarono lungo tempo; Danhasch non seppe a cosa attribuirne la cagione, e rimase sbalordito. Quando ebbe riso a parecchie riprese: — Buono, buono,» gli disse, «tu vuoi darmela ad intendere. Io credeva che tu mi volessi parlare di qualche cosa di sorprendente e straordinario, e mi parli invece d’una cisposa? Uh, vergogna! cosa diresti dunque, maledetto, se avessi veduto al par di me il bel principe che testè ho scoperto, e che amo come merita? È ben altra cosa davvero; e tu ne impazziresti.

«— Amabile Maimona,» ripigliò Danhasch, «oserei domandarvi chi è il principe del quale mi parlate? — Sappi,» rispose Maimona, «che gli è accaduta all’incirca la cosa medesima della principessa, di cui mi parlasti. Il re suo padre voleva a tutta forza ammogliarlo; e dopo lunghe e grandi importunità, ha dichiarato netto e schietto, non esser tale la di lui intenzione; è questa la causa per la quale, nel momento che vi parlo, egli trovasi prigione in una [p. 275 modifica]vecchia torre, luogo di mia dimora, e dove l’ho poco fa ammirato.

«— Non voglio assolutamente contraddirvi,» ripigliò Danhasch; «ma, mia bella signora, mi permetterete di credere, finchè non abbia veduto il vostro principe, che nessun uomo o donna mortale si accosti alla beltà della mia principessa. — Taci, maledetto,» replicò Maimona, «ti dico un’altra volta che ciò non può essere. — Non voglio ostinarmi,» aggiunse Danhasch; «il mezzo di convincervi se dico il vero o il falso, è di accettare la proposta che già vi feci, di venir a vedere la mia principessa, e mostrarmi poscia il vostro principe.

«— Non fa d’uopo che mi prenda questo disturbo,» ripigliò ancora Maimona; «v’ha un altro mezzo di soddisfarci entrambi, ed è quello di portar via la tua principessa e metterla accanto al mio principe nel suo letto. In tal modo ci sarà facile, ad amendue, di paragonarli insieme, e decidere la nostra lite. —

«Acconsentì Danhasch alla proposta della fata, e voleva tornare alla China sul momento; ma Maimona lo fermò, dicendogli: — Aspetta; vieni prima con me, che ti mostri la torre, ove devi portare la tua protetta.» Volarono insieme fino alla torre, e quando Maimona l’ebbe fatta vedere a Danhasch: — Ora va a prendere la principessa,» gli disse, «e fa presto; mi troverai qui. Ma ascolta: intendo che almeno tu mi pagherai una scommessa, se il mio principe sarà più bello della tua principessa; e voglio anch’io pagartene una, se la tua principessa sarà invece più bella....»

Il giorno, che illuminava de’ vividi suoi chiarori l’appartamento, obbligò Scheherazade a cessare dal racconto. Ripigliò la continuazione la notte seguente, e disse al sultano dell’Indie:

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NOTTE CCXV


— Sire, Danhasch si allontanò dalla fata, recossi alla China, e tornò con incredibile velocità, recando la bella principessa addormentata. Maimona la ricevette, e l’introdusse nella stanza del principe Camaralzaman, ove la deposero insieme sul letto accanto a lui.

«Quando il principe e la principessa furono così posti vicini l’uno all’altra, v’ebbe grande dibattimento fra il genio e la fata sulla preferenza della loro leggiadria. Stettero alquanto tempo ammirandoli e confrontandoli insieme senza parlare, e finalmente Danhasch ruppe pel primo il silenzio. — Lo vedete,» diss’egli a Maimona, «e ve lo aveva pur detto, che la mia principessa era più bella del vostro principe. Ne dubitate ora?»

«— Come! se ne dubito?» rispose Maimona. «Ma certo che ne dubito. Bisogna tu sia cieco, per non vedere che il mio principe la vince di molto sulla tua principessa. È bella, non ne disconvengo; ma non aver fretta, e confrontali bene l’uno coll’altra senza prevenzione; vedrai che la cosa sta com’io dico.

«— Quando mettessi maggior tempo a paragonarli più oltre,» ripigliò Danhasch, «non penserei diverso da quel che ne penso. Ho veduto quello che veggo alla prima occhiata, ed il tempo non mi farebbe veder altro se non quello che ora vedo. Ciò per altro non toglierà, vezzosa Maimona, che io vi ceda, se lo desiderate. — Non sarà così,» tornò a dire Maimona; «non voglio che un maledetto genio come te mi faccia grazia. Rimetto la cosa ad un arbitro; [p. 277 modifica]e se tu non vi acconsenti, mi do vinta la causa pel tuo rifiuto. —

«Danhasch, il quale era pronto ad usare a Maimona ogni altra compiacenza, ebbe appena acconsentito, che la fata battè col piede la terra; si spalancò questa, e ne uscì subito un orrido genio, gobbo, guercio e zoppo, con sei corna sulla testa, e le mani ed i piedi forcuti. Fuori che fu, la terra si ricongiunse, e quand’egli ebbe veduto Maimona, le si gettò ai piedi, e restando con un ginocchio a terra, le chiese cosa desiderasse dal suo umilissimo servo.

«— Alzatevi, Caschcasch (era questo il nome del genio),» gli diss’ella; «vi feci venir qui per esser giudice d’una controversia che ho con questo maledetto Danhasch. Gettate gli occhi su quel letto, e diteci senza parzialità chi vi sembra più bello, del giovane o della donzella. —

«Caschcasch guardò il principe e la principessa con segni d’una sorpresa ed ammirazione straordinaria, e dopo averli ben bene considerati senza potersi determinare: — Signora,» disse a Maimona, «vi confesso che v’ingannerei, e tradirei me medesimo, se vi dicessi di trovare l’uno più bello dell’altra. Più li esaminò, e più mi sembra che ciascuno possegga in grado supremo la beltà, cui hanno in retaggio, per quanto me ne possa intendere; e l’uno non ha il minimo difetto pel quale dir si possa che ceda all’altra. Se l’uno o l’altra ne ha qualcuno, non v’ha, secondo il mio parere, se non un solo mezzo per chiarirsene, ed di risvegliarli entrambi, e che quindi conveniate che quello il quale dimostrerà, col suo ardore, colla premura, ed anche col suo trasporto, maggior amore per l’altro, avrà minor bellezza in qualche cosa. —

«Piacque moltissimo il consiglio di Caschcasch tanto a Maimona quanto e Danhasch; e la fata [p. 278 modifica]cangiatasi tosto in un pulce, e saltando al collo di Camaralzaman, lo punse sì vivamente, che il principe si destò e vi portò sopra la mano, ma nulla prese; Maimona era stata lesta a fare un salto addietro, e riprendere l’ordinaria sua forma, invisibile però come gli altri due geni, onde vedere ciò che sarebbe per succedere.

«Ritirando la mano, il principe la lasciò cadere su quella della principessa della China; aprì gli occhi, e stupì all’ultimo grado vedendo una giovine di tanta bellezza coricata al di lui fianco. Alzata allora la testa, si appoggiò sul gomito per meglio considerarla; la grande giovinezza della principessa e la sua impareggiabile avvenenza, lo accesero istantaneamente d’un fuoco, al quale non era ancora stato sensibile, e da cui erasi fin allora guardato con tanta avversione.

«L’amore s’impossessò del suo cuore nel modo più ardente, talchè non seppe frenarsi dall’esclamare: — Quale beltà! quai vezzi! cuor mio! anima mia!» E dicendo simili parole, la baciò in fronte, sulle guance e sulla bocca con sì poca precauzione, che sarebbesi svegliata, se non avesse dormito più profondamente del solito per l’incantesimo di Danhasch.

«— Come! mia bella,» disse il principe, «non vi svegliate a questi contrassegni d’amore del principe Camaralzaman? Chiunque voi siate, egli non è indegno del vostro.» Stava per risvegliarla; ma si trattenne d’improvviso. — Sarebbe mai,» disse fra sè, «quella che il sultano mio padre voleva darmi in matrimonio? Ha fatto assai male a non farmela veder prima; io non l’avrei offeso in pieno consiglio, colla mia disobbedienza e il mio troppo impeto contro di lui, e sarebbesi risparmiata a sè medesimo la confusione che gli recai.» Pentissi Camaralzaman sinceramente del fallo commesso, e fu di nuovo sul punto di destare [p. 279 modifica]la principessa della China. — Può anche darsi,» soggiunse quindi, «che il sultano mio padre voglia sorprendermi: per certo, egli ha mandato qui questa giovane per provare se ho veramente pel matrimonio quell’immensa avversione che gliene dimostrai. Chi sa che non l’abbia condotta egli stesso, e non se ne stia nascosto per farsi vedere e svergognarmi della mia dissimulazione? Questo secondo fallo sarebbe molto maggiore del primo. Ad ogni evento, mi contenterò di codesto anello per di lei memoria. —

«Era un bellissimo anello che la principessa portava in dito; ne lo cavò destramente, e vi pose in vece il proprio. Poi subito le volse il dorso, e non istette molto a dormire d’un sonno profondo al par di prima, per l’incantesimo dei geni.

«Quando il principe Camaralzaman fu ben bene addormentato, Danhasch si trasformò in pulce alla sua volta, ed andò a mordere la principessa sotto al labbro. Si svegliò questa di soprassalto, e postasi a sedere sul letto, aprendo gli occhi, stupì molto al vedersi coricato vicino un uomo. Dallo stupore passò all’ammirazione, e dall’ammirazione ad un’espansione di gioia, cui manifestò appena ebbe veduto ch’era un giovane sì leggiadro ed amabile.

«— E che!» sclamò ella; «siete voi che il re mio padre mi aveva destinato in isposo? Sono ben sventurata di non averlo saputo: non lo avrei fatto andare in collera contro di me, e non sarei stata priva d’un marito che non posso trattenermi dall’amare di tutto cuore. Svegliatevi, svegliatevi; non istà bene in un marito di dormir tanto la prima notte delle sue nozze. —

«Così dicendo, la principessa prese Camaralzaman per un braccio, e lo scosse con tal violenza, che sarebbesi destato, se al momento non ne avesse Maimona accresciuto il sonno, dando maggior forza all’ [p. 280 modifica]incantesimo. Lo scosse ella in pari modo più volte; e quando vide che non si destava: — Ma com’è?» ripigliò essa; «che cosa vi è accaduto? Qualche rivale, geloso del vostro bene e del mio, avrebbe mai ricorso alla magia, immergendovi in questo invincibile assopimento, quando dovreste essere più svegliato che mai?» Gli prese la mano, e baciandola teneramente, si avvide dell’anello che teneva in dito, e lo trovò tanto simile al suo, che rimase poi convinta essere il medesimo, quando s’accorse di averne essa un altro. Non comprese come quel cambio fosse accaduto; ma non dubitò che quello non fosse il segno reale del loro matrimonio. Stanca intanto della fatica inutile fatta per risvegliarlo, e sicura, come pensava, che non le sfuggirebbe: — Poichè non mi riesce di destarvi,» disse, «non mi ostino più ad interrompere il vostro sonno: a rivederci.» E datogli un bacio sulla guancia nel pronunciare quest’ultime parole, si ricoricò, e mise pochissimo tempo a riaddormentarsi.

«Quando Maimona comprese di poter parlare senza timore che la principessa della China si destasse: — Or bene, maledetto,» diss’ella a Danhasch, «hai veduto? Sei tu ora convinto che la principessa è men bella del mio principe? Va: voglio farti grazia della scommessa che mi devi. Un’altra volta, mi crederai quando ti avrò assicurato di qualche cosa.» Poi, volgendosi a Caschcasch, soggiunse: «Quanto a voi, vi ringrazio. Prendete la principessa con Danhasch, e riportatela insieme nel suo letto, dov’egli vi condurrà.» Danhasch e Caschcasch eseguirono tosto l’ordine di Maimona, e questa si ritirò nel suo pozzo.»

Il giorno che cominciava ad apparire, impose silenzio a Scheherazade. Il sultano delle Indie si alzò; e la notte seguente, la sultana continuò a raccontargli la medesima novella in questi termini:

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La Bella Persiana.               Disp. VIII.


Note

  1. Che significa, in persiano, re del tempo.