Le tentazioni/Donna Jusepa

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Donna Jusepa

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Zia Jacobba Le tentazioni
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Donna Jusepa1




BBakis, — disse zia Antonia, appena suo marito, che tornava di campagna, fu seduto accanto al fuoco, — don Antine ha mandato a chiamarti due volte.

A queste parole Bakis Fronte si drizzò come una canna, aggrottando le grosse sopracciglia grigie.

— A che ora? — domandò.

— Di mattina e di sera.

— E che hai tu risposto?

— Per l’amore di Dio, cosa tu volevi che [p. 134 modifica] rispondessi? Che appena tornato dall’ovile te lo avrei detto.

Zia Antonia restò accoccolata accanto al fuoco, ma senza farne le viste seguì con sguardo sospettoso ogni movimento del marito e quando questo uscì fuori imprecando, ella singhiozzò piano piano, nascondendo il viso pallido e rugato fra le mani. Facendo un gran chiasso sull’antico selciato, coi suoi scarponi ferrati, zio Bakis scese rapidamente il lungo viottolo precipitoso che dalla sua catapecchia, posta in cima al villaggio, conduceva sino alla chiesa. Poi percorse altre due stradicciuole buie, perfettamente silenziose, e andò a batter il muso contro la casa di don Antine. Una casa nera, circolare, con finestre piccole, irregolari, munite di inferriate e di persiane a lamine di ferro. S’udiva solo il cigolio dei fumajuoli sul tetto, scossi dal vento notturno; ma appena zio Bakis battè fortemente al portone, cinque o sei cani abbajarono con diverse voci rauche, sonore, nell’interno, e tutta la casa parve scossa da un fremito.

— Chi è? — gridarono dall’interno.

— Sono io. [p. 135 modifica]

— Chi tu?

— Io Bakis Fronte. C’è don Antine?

La serva aprì e gli sorrise dicendo:

— Che il diavolo ti scortichi; c’è bisogno d’atterrare il portone per farti aprire?

E lo introdusse in una sala quadrata, a volta, sulle cui pareti gialle spiccavano certi mobili antichi, di quercia, rozzamente intagliati.

— E.... Jusepa? — domandò zia Bakis, guardando acutamente la serva.

— È di là, — ella rispose, voltandogli le spalle. Egli la seguì con lo sguardo; gli parve dal moto degli omeri, che ella ridesse, e ne provò una collera sorda, impotente. Poco dopo entrò don Costantino, in babbuccie rosse, in papalina rossa.

— Buona notte, Bakis, — disse con indifferenza: e sembrava piegarsi a una gran degnazione salutando in tal modo il pover’uomo.

— Buona notte, don Antine, — rispose l’altro torcendo il collo.

E si guardarono con una specie di sorpresa, di meraviglia, quasi non si fossero veduti mai.

Zio Bakis era un povero diavolo già vecchio e curvo. Essendo in duolo per una sorella, [p. 136 modifica] indossava un corto cappotto nero, col cappuccio, che gli tirava la testa indietro, abbassato fin sugli occhi: e così sembrava più nero, più cupo e misero del solito.

Don Antine invece sembrava ed era un gentiluomo: rosso, con baffi biondi: ma ciò non impediva che anch’egli cominciasse a invecchiare. Negli angoli dei suoi occhi turchini vivissimi, penetrantissimi, sprofondavasi un ventaglietto di rughe; e neppure tutto il vino delle sue cantine, le granaglie e i formaggi delle sue dispense, le antiche tele delle sue arche, l’erba delle sue tancas sarebbero bastate a fargli rinascer sulla testa i capelli che mancavano.

— Sedete, — disse a Bakis, battendo una mano sulla spalliera d’una sedia. L’altro restò ritto, rigido, con la testa tirata indietro. La fiammella argentea della strana candela antica, di rame rossastro, s’allungava, sfumava in violetto, fumava: sul soffitto il cappuccio di Bakis pareva una montagna.

Don Antine guardava appunto lassù, per non degnarsi di guardar il povero uomo. Questo però s’impuntigliò a star zitto, finchè il signore parlò. [p. 137 modifica]

— E dunque, cosa è questa storia? Perchè hai picchiato tua figliastra Jusepa, minacciando ucciderla se non usciva dal mio servizio?

Bakis s’era preparata la risposta come si doveva; ma giusto allora la dimenticò. Si dimenò tutto entro il cappotto, cercò inutilmente sporger la testa in avanti, e riuscì a risponder malamente:

— Eh, questo è nulla! E se si ostina a rimaner qui la massacro davvero, e le faccio uscir il cuore per le calcagna. E sapete perchè son venuto, signor don Antine? Non perchè mi avete avvisato due volte, ma perchè speravo venisse Jusepa ad aprirmi. E sapete, signor don Antine, ero deciso di afferrarla per il ciuffo e darle un’altra bastonata; giacchè ho pensato: se il padrone si interessa al punto di far chiamare due volte questo poveretto per pregarlo di lasciargli serva la figliastra, vuol dire che la cosa è vera, che l’anima della vossignoria sia impiccata!

— Lascia le bestemmie e ragiona, — disse don Antine facendo il savio (dando del voi e del tu a Bakis, che a sua volta gli dava del voi e del lei), mentre internamente fremeva [p. 138 modifica] all’idea del magnifico ciuffo biondo di Jusepa afferrato da quelle mani prepotenti.

— Tu sai, Bakis Fronte, che sei più piccolo di questo mio dito mignolo, — e glielo mostrava, — ed io potrei annientarvi con una parola.

— Voi farete un corno! — gridò Bakis, e poichè non poteva avanzarla in avanti, spinse la testa indietro. — Benchè siate ricco, non vi temo più dei miei scarponi. La ragazza tornerà a casa, altrimenti guai, guai, guai!

— Ha ventitrè anni. La legge....

— La legge la faccio io e la fa mia moglie. Oh che! Anzi faccia attenzione, vossignoria signor don Antine; sapete che non ho altro che la mia pelle e il mio onore, e la prima, perdio, posso bene esporla per il secondo.

Don Antine sorrise con pietosa dolcezza:

— Ah, vorresti dunque uccidermi, tu? Tu, Bakis Fronte? Ma, senti, se la cosa, cioè quella stupida cosa che dicono in paese, fosse anche vera, che te ne importerebbe? È tua figlia, forse?

— È figlia di mia moglie! E suo padre era mio amico, e mi disse una volta: Bakis Fronte, quando sarò morto tu fa da padre a mia figlia. [p. 139 modifica]

— Ah, è perciò che hai sposato la madre? E quel buon uomo, sapeva che avresti sposato sua moglie, eh? — disse don Antine, con malignità che voleva parer bonaria. Si sedette. L’annojava la piega seria che le cose pigliavano, e si passava la mano sulla testa calva, come per scacciarne idee moleste.

— L’ho sposata perchè mi è parso e piaciuto, — disse l’altro, pigliando coraggio dal contegno del signore; — e ora tutto il villaggio dice che non son buono a custodir la figliuola di mia moglie, a strapparla da una casa dove il padrone non la guarda più come serva, ma come.... altra cosa. Ma io l’ho bastonata, perdio, e tornerò a bastonarla se non torna subito a casa!

— Bella prodezza, Bakis Fronte! Si bastonano le bestie. È una calunnia....

— Una calunnia, una calunnia! E allora perchè vossignoria piglia tanto interesse....

— Perchè? Perchè quella ragazza è una buona servente, perchè mi regge la casa, perchè mia figlia vuol solamente lei. Infine, per non dar retta a questi cretini, per non darla vinta a questi serpenti.... Cosa altro vuoi che mi occupi di te, di tua figliastra o del resto? [p. 140 modifica]

Egli ora parlava con tale indifferenza, con tal fine disprezzo, che Bakis sentì il terreno mancargli.

— Tu sei uno sciocco, Bakis Fronte: io non so, non capisco come si possano creder certe cose. Eppure tu passi per un uomo savio.

— La saviezza e la stoltezza le dà Iddio nostro Signore. Del resto, vossignoria don Antine, dovete sapere che la stoltezza è di trentadue qualità: ogni individuo ha la sua.

— Tu parli bene, ma benissimo anzi, — disse il cavaliere, sempre passandosi la mano in testa. — Però io credevo che tu fossi un uomo savio.

— Ma non sente, don Antine, la sciocchezza è di trentadue....

— Infine, le lingue cattive bisogna lasciarle dire. Ma infine c’è solamente tua figliastra in casa mia per servente? Le lingue cattive....

— Non c’è fumo senza fuoco. Infine io la voglio in casa, vero o non vero; ecco tutto.

— Ma allora si dirà di più. È meglio lasciar dire. Fa una cosa, Bakis Fronte: queste non son cose da parlarsi fra uomini; fammi venir tua moglie. Le spiegherò.... [p. 141 modifica]

— Ma avete avvisato me, avete avvisato me.

— Ti credevo più ragionevole. Ora....

Non sappiamo perchè, zio Bakis, che quasi quasi si lasciava persuadere, sentì improvvisamente ribollirgli il sangue: arrossì e proruppe:

— La voglio in casa! Sia inteso!

La sua voce era così terribile che Jusepa, la quale origliava dietro l’uscio, diventò bianca per paura.

— Ma allora io me ne lavo le mani, — disse don Antine, levandosi e facendo atto di lavarsi le mani. — Accomodatevi tra voi. Ti ho avvisato per dirti che nè tu nè tua moglie dovete dar retta alle cattive lingue. Io rispetto Jusepa come una mia parente. Non volete crederci? Peggio per voi.... del resto accomodatevi.

— Dovete mandarla via voi, — disse Bakis abbassando la voce, disarmato dalla fredda indifferenza di don Antine.

— Io? Ma niente affatto! Non ho alcuna ragione per poter mandarla via, io. Non mi ha mai disgustato: è attenta, fedele, laboriosa: mi ha sempre contentato.

— Lo credo bene, — ghignò zio Bakis, e s’avviò per andarsene. Fu per chiedere di [p. 142 modifica] veder Jusepa e di portarla via subito, ma non osò. Non ostante le sue rodomontate sentiva una istintiva paura, così, di notte, solo, in quella casa potente e misteriosa.

Egli era davvero come il dito mignolo di don Costantino: traversando l’andito poteva piovergli una mazzata sul cappuccio, e Antonia quella notte e poi sempre sarebbe andata sola a dormire.

Era dunque meglio aspettar la dimane: avrebbe fatto venir a casa la figliastra, e la avrebbe legata ai piedi dal letto.



Ma nè l’indomani nè mai Jusepa lasciò la casa del padrone. Don Costantino, vedovo, aveva cinquantanni ed era l’uomo più istruito del paese: parlava l’inglese e, si diceva, anche il russo; inoltre aveva viaggiato cinque anni interi in America, in un tempo nel quale le Autorità, non sappiamo per qual ragione, credevano opportuno pensar cose cattive sul conto suo.

Poi queste cose cattive s’eran dilucidate, e don Antine era tornato. [p. 143 modifica]

I paesani, piuttosto arguti e maligni, che facevano le cose in grande o non le facevano, dicevano che egli aveva duecento cinquanta figli, sparsi su tutta la superficie del Messico e della Sardegna; ma veramente pochissimi se ne conoscevano, e fra questi pochi era Lelledda la sola legittima: maligna, maleducata e bella. Allevata tra serve perfide e gente senza delicatezza, a dieci anni Lelledda parlava male di tutti, imprecava, strapazzava bestie ed uomini, e pareva infine più matta che altro.

Una sera, sdrajata sul pavimento della sala da pranzo, con le gambe in aria, scriveva il suo nome col gesso, lungo le tavole pulite e levigate.

— Lel-led-da! — gridò, quando ebbe sporcato un buon tratto di pavimento. Si sollevò, diede due o tre salti, fece la ruota, pestò i piedi e tornò all’opera.

E si mise a cantare urlando:

— Lel-led-da, Fran-ce-sco, Ma-ria, Giu-seppa-aaa.... Gat-to.... vio-li-no.... mo-li-no.... Ignazia-aaa.... — Indossava un vestito giallo fiammeggiante, a grandi fiori rossi, qua e là strappato sebbene nuovissimo; e coi capelli neri [p. 144 modifica] arruffati e con gli occhioni neri brillanti sembrava una piccola zingara, una creatura spiritata.

— Cosa diavolo stai facendo? — gridò Jusepa entrando precipitosamente. Cercò rialzarla, ma Lelledda le sfuggì di mano, si rigettò per terra, spezzò coi dentini il pezzetto di gesso che le lasciò le labbra bianche, e si rimise a urlare:

— Lel-led-da..., Ma-riaaa, Igna-zia, Giovannaaaa, capra, ca-priolooo.

— Vuoi finirla sì o no, brutta bestiola? — disse Jusepa digrignando i denti. — Che la volpe ti scanni, tuo padre è a letto perchè si sente male, e tu urli? Vuoi finirla?

— Mio padre è a letto, — disse allora Lelledda, — ma il tuo è nell’inferno e tuo fratello è in galera....

Benchè non avesse fratelli, dimenticando che Lelledda era una bimba che parlava secondo il suo esempio, Jusepa si strappò il fazzoletto di testa, e per rabbia emise due o tre gridi. Poi picchiò abbastanza bene la ragazzina. Furono urla e grida da non dirsi; accorsero le altre serve, e don Antine fece domandare cosa [p. 145 modifica] diavolo accadeva. (Il diavolo era ingrediente indispensabile nel frasario di quella casa).

— Lo vedete? — gridò Jusepa. — Mi ha graffiato e poi dice che sono io a batterla, perchè le ho detto di non disturbar suo padre.

La calunniava anche? Con un nodo in gola, Lelledda pianse tutta la sera, strappando il vestito, ma non disse più una parola. Meditava la sua vendetta. E l’indomani disse a Maria Ghespe, una serva brutta che sembrava una mora, nemica di Jusepa:

— Giura che non la ripeterai e ti dico una cosa che ho veduto.

— Che mi escano gli occhi....

— No, giura più forte.

— Che non riveda mia madre.... — giurò la serva, sollevando gli occhi, e mettendosi una mano sul petto.

Lelledda abbassò la voce.

— Ho veduto Jusepa baciar un uomo.

— Chi, chi, chi, per l’anima mia? — domandò Maria rabbrividendo di gioia. Ma Lelledda non volle dirlo, nonostante i mille orribili giuramenti della serva.

— Dimmi almeno dove, anima mia; che tutto [p. 146 modifica] ciò che tocco mi si cambi in pietra, se ripeterò....

— No.

— Dimmelo, dimmelo, rosa mia: farò tutto quello che vorrai, d’ora in avanti. Dimmi dove....

E si curvava e tendeva l’orecchio.

— Ebbene, — disse Lelledda, che non sapeva quel che si diceva, e sopratutto mentiva, — su, nella stanza da pranzo.

— È col padrone! — pensò Maria fulminata.

Nessun altro penetrava mai nella sala da pranzo, al primo piano. Quando c’erano ospiti, od invitati, si pranzava abbasso, in una vasta stanza piena di guardarobe e di credenze.

Maria Ghespe propalò subito la novella, e fu così che in due giorni tutto il villaggio seppe la storia.

Antonia, la madre di Jusepa, parve morirne dal dolore: avvisò la ragazza e la fece battere da zio Bakis; ma tutto ciò servì a nulla; e dopo lo strano colloquio del povero uomo con don Antine, Pili Branda (Capelli Bionda) come chiamavano Jusepa, non uscì più dalla casa del padrone. [p. 147 modifica]



Passarono molte settimane.

Oramai anche le pietre del villaggio sapevano la storia, e Jusepa non veniva più chiamata col suo nome o col suo nomignolo, ma, con sottile sarcasmo, col titolo di dama. Donna Jusepa andava e donna Jusepa veniva.

Era Maria Ghespe a propagarlo. Fermandosi con ogni donna che incontrava, diceva socchiudendo i perfidi occhi e picchiandosi il petto:

— È vestita da signora, saputo lo hai? Ha la gonnella col volante e la blusa di percalle coi fiocchi, donna Jusepa. Comanda a bacchetta, sai, e si fa portare il caffè a letto.

— Ma cosa dite voi, comare mia.... la sposerà?

L’altra rideva, sporgeva le grosse labbra cremisine, sputava.

— Quando il Papa sposa con me.

E zia Antonia veniva a saper ogni cosa, e soffriva orribilmente. Accoccolata fra la cenere del focolare, piangeva da far pietà, giorno e notte; non mangiava, non dormiva, non usciva; [p. 148 modifica] e quando per estremo bisogno usciva, s’avvolgeva accuratamente il capo e le spalle e il petto con una gonnella d’albagiò nero, in modo che mostrava appena la punta del naso.

Ogni volta che zio Bakis rientrava di campagna, chiedeva con cupa voce:

— È venuta?

— No, — gemeva Antonia, e imprecava come dannata, maledicendo il giorno, l’ora, il minuto che Jusepa era venuta al mondo. E malediceva il latte che le aveva dato, le fascie che l’avevano avvolta, e questo e quello e quell’altro.

— Io gli ucciderò tutte le vacche, io metterò fuoco alle sue tanche, io gli darò una fucilata, — urlava zio Bakis.

E caricava il fucile, affilava il coltello, e usciva coi più feroci propositi del mondo.

Un giorno Maria Ghespe andò in casa Fronte con la scusa di chiedere un pezzetto di lievito.

— Per parte di tutti i demoni, — le disse zia Antonia con occhi lampeggianti, — fammi il piacere di levarmiti dai piedi, e vattene.

— Vostra figlia è malata; siete arrabbiata per questo, zia mia? — esclamò quella vipera, [p. 149 modifica] ridendo del suo riso sguajato; e fuggì via mentre zia Antonia gridava:

— Se torni qui ti rompo la testa col bastone, se torni qui ti accuso al sindaco.... ti strappo gli occhi....

Quando fu sola pianse dirottamente. Ah, ella capiva ciò che Maria Ghespe voleva dire con la parola malata; ah, questo era troppo, questo era troppo!

Da quel momento un solo pensiero la dominò: introdursi in casa di don Antine, parlar con Jusepa, insultarla, bestemmiarla, graffiarla, tirarle i capelli e strapparle gli occhi. Bisognava però attendere un’assenza del padrone, e amicarsi Maria Ghespe per poter entrare in quella maledetta casa.

Molte arti e molte bassezze la povera donna dovette usare; ma riuscì nel suo intento; e una sera agli ultimi di marzo, donna Jusepa se la vide apparir davanti come un fantasma. Provò un grande spavento, tanto più che il padrone era assente; le parve che il cuore le si capovolgesse dentro il petto, cessando un momento di battere, per poi pulsare violentemente. Ma fu un istante. [p. 150 modifica]

— Questa è opera di Maria Ghespe, — pensò, — ah, la farà con me.

— Oh, mamma! — disse ad alta voce, andandole incontro.

Zia Antonia non s’era neppure accorta del turbamento di Jusepa; e restava sull’ingresso, come paralizzata sotto la gonnella nera che le avvolgeva il capo e il busto. Cosa era tutto questo che vedeva, Dio mio? Ella non era mai entrata in casa di don Antine, e aveva dimenticato le entusiastiche descrizioni fattele da sua figlia nei primi tempi del suo servizio. Ora la vasta stanza dipinta, piena di credenze dietro i cui cristalli, riflettenti la luce delle finestre, splendevano vecchie porcellane e argenterie e cristallerie preziose, le sembrava una chiesa.

Jusepa poi le diede, a prima vista, una gran soggezione; non le parve assolutamente più sua figlia. Vestiva da signora, a testa nuda, coi bellissimi capelli biondi rialzati sulla fronte e sulla nuca; era poi grassa, bianca e rosea, con gli occhi splendenti come le vetriere delle credenze; e faceva la calzetta come una vera dama.

Zia Antonia non potè trovare una parola; [p. 151 modifica] e senza accorgersene si trovò seduta davanti al gran tavolo di noce scolpito, sulla cui superficie lucidissima vedeva riflesso il suo naso. Anche donna Jusepa s’era rimessa a sedere, continuando a scalettare; e arrossiva vivamente nel vedersi osservata dagli occhietti di uccello di sua madre; ma in realtà quegli occhietti d’uccello, neri, ristretti, fissi, infossati, stupiti, vedevano solo gli anelli e gli orecchini a pietre turchine, che adornavano sua figlia.

— Giacchè tu non ti lasci vedere, sono venuta io.... — cominciò.

— Per l’amor di Dio, lasciatemi la testa, non ho un momento di tempo, — interruppe l’altra, parlando rapidamente, eppur con aria di stanchezza. — Faccio tutto io, lavoro come una bestia, non respiro, non riposo.... Mi sono messa questa blusa, della defunta padrona, nel cielo sia, perchè mi facevo le camicie una vergogna. Le ho tutte così, una vergogna, — e con le mani faceva atto di strappare, — tutte a brandelli.... Lavoro tutto io.... c’è tanto da fare.... le altre, che il diavolo le scanni, non fanno nulla. E per darne prova chiamò:

— Maria! Maria Ghespe! [p. 152 modifica]

Maria, che senza dubbio stava ad origliare, mise subito il suo brutto muso entro la porta. E Jusepa con arroganza:

— Porta un po’ di caffè. È fatto?

— Sissignora, — disse l’altra umilmente.

Zia Antonia trasalì, aprì la bocca. Trattavano Jusepa da signora? Ma dunque quella lì non era sua figlia; che cosa era dunque? Una vera donna Jusepa? La padrona della casa? La moglie di don Antine?

— Che il diavolo mi caschi sopra, ho il cervello alterato? — pensava la povera donna. Scostò un po’ la sua sedia; sotto la gonnella le sue mani si allentarono con dolcezza. E i suoi occhietti si fecero più fissi, e la bocca s’aprì ancor più; ma la lingua non c’era verso che volesse muoversi.

Fra il tic-tac degli argentei ferretti, Jusepa continuò a chiacchierare, prendendo coraggio dal contegno di sua madre. Ah, ella lo conosceva benissimo cos’era quell’incanto, quel barbaglio che veniva dalle colme e fulgide credenze, quel fascino che vinceva l’anima dei poveretti come un sonno fatale.

A momenti zia Antonia ricordava però e [p. 153 modifica] nitidamente perchè era venuta: anche tra i volanti e i fiocchi della veste e tra gli orecchini e gli anelli a pietre turchine, ravvisava sua figlia, e tutto il sangue le affluiva al cuore, dandole un’ansia, una palpitazione dolorosa. Allora sentiva un caldo impeto di rizzarsi, e schiaffeggiare quella signora, e aprire il coltellino che aveva in tasca e ficcarglielo negli occhi; ma non poteva, non poteva, non poteva.

Glielo impediva qualche cosa di strano, d’invincibile; l’ammirazione per tutto quel ben di Dio del quale sua figlia sembrava padrona, e il bizzarro sentimento, tosto riedente, che quella che le stava avanti non fosse Jusepa.

No, non era Jusepa; era donna Jusepa.

Fu servito il caffè, in un vassoio smaltato, con chicchere di porcellana diafana e cucchiaini d’argento cifrati, pesanti come randelli.

Zia Antonia non aveva mai neppur sognato un simile lusso. Il caffè poi era magnifico; entro i cucchiaini d’argento sembrava rubino liquido.

A poco a poco Jusepa prese un atteggiamento, una posa indescrivibile. (Maria Ghespe, che non osava alzar neanche gli occhi, entro di sè le faceva le fiche, pensando: [p. 154 modifica] Eccola lì, è composta come maccherone condito! E quella stupida di donna!...).

E quella stupida di donna sentiva crescere la sua soggezione, i suoi impeti d’ira, la sua impotenza contro l’ambiente e contro la posa di donna Jusepa.

— Venite sempre, - disse questa, prima un po’ timidamente, poi con degnazione, — venitevene sempre, giacchè io non posso uscire. Prenderemo il caffè assieme, ogni giorno. Vi piace questo caffè? — e lo faceva sgocciolare traverso la luce, dai cucchiaino alla chicchera; — è portato dal continente, sapete; qui non ce n’è di sicuro!

— Sì, è migliore del mio, — pensò zia Antonia con tristezza, ricordando la sua caffettiera con tanto di fuliggine sopra, ove bollivano due granelli di caffè e tre d’orzo in mezzo litro d’acqua.

Preso il caffè, Jusepa s’alzò, e sempre facendo la calzetta, disse:

— Andiamo ora, mamma, che vi mostro tutta la casa. Voi non siete mai entrata qui. Andiamo.

— Il padrone s’adirerà.... — arrischiò zia [p. 155 modifica] Antonia. Poi arrossì delle sue parole, e arrossì nuovamente anche Jusepa, ma questa rispose tosto con sicurezza:

— Oggi il padrone è assente. E poi....

Scrollò le spalle e s’avviò.

— Questo è il cielo! — gridava fra sè zia Antonia, picchiandosi il seno con un pugno, sotto il suo strano mantello. A momenti, in certe stanze ove e’ erano specchi antichi, quadri ad olio e mobili intarsiati, ella sentiva una speciale volontà di inginocchiarsi.

Ma scendendo una scaletta di legno, un po’ buia, ricordò ancora una volta perchè era venuta. E disse:

— Jusepa, dunque non torni a casa, tu? Non basta che....

E stava per alzar la voce; ma la giovine aprì la porta dei granai, e fingendo di non aver udito sua madre, disse tranquillamente:

— Qui non c’entro che io, sapete?

Zia Antonia tornò a picchiarsi il petto, ferma sulla porta luminosa. Gesù! Maria! Giuseppe! che ben di Dio, che abbondanza, che meraviglie, che ricchezze! Mucchi di orzo d’oro giallo, mucchi di grano d’oro rosso, mucchi [p. 156 modifica] di grosse fave cenerognole, mucchi di fagiuoli granati, bianchi come madreperla, rosei picchiettati di viola, violetti macchiati di rosso, gialli schizzati di nero; mucchi di patate che cominciavano a germogliare; c’era da alimentare per un anno il paese!

Di camera in camera, dopo esser scese e salite per cantine e dispense, Jusepa condusse sua madre nella stanza delle guardarobe. E cominciò ad aprire, a spalancare, a mostrar tutto: biancherie, tele, vesti, costumi, panni di spiga, che son lunghi drappi di lino fra cui metter il pane a fermentare, — tovaglie, tovagliuoli, panni, albagi....

Jusepa sollevava, spiegava tutto con sicurezza ed abilità, — la calza le penzolava sul fianco, — e ripiegava e riponeva ogni cosa con noncuranza quasi sprezzante. Pareva volesse dire:

— Conosco tutto.... eh, non è la prima volta che vedo queste cose! E tutto mio, vedete? Ci posso attaccar fuoco, senza che alcuno mi dica nulla.... posso indossar queste vesti.... regalar queste biancherie.... sono io la padrona....

— Che polvere! — diceva invece ad alta [p. 157 modifica] voce, scuotendo certe tovaglie esalanti un forte odor di canfora. — Si vede che non c’è padrona. Quando crescerà Lelledda, se Dio gliela manda buona, rimetterà essa l’ordine. Per ora è già molto se nessuno ruba, qui. E che ci sono io, che ho una coscienza; altrimenti farebbero festa ogni giorno.... Guardate, mamma, questo ritaglio di grana.

Era un pezzo di panno giallo finissimo, di quello usato nel paese per i corsetti delle donne. Era splendido, rasato, lucente: pareva un lembo di sole.

Le due donne l’ammirarono a lungo. Zia Antonia si sentiva le dita ardere dal desiderio d’afferrarsi il panno, e Jusepa aveva una pazza voglia di dirle:

— Pigliatevelo....

Ma era troppo presto. La giovine lo rimise con cautela, e zia Antonia l’avvertì di chiuderlo e custodirlo bene, perchè.... qualche unghia pietosa non lo toccasse.

— Bada che ti è caduto un nastro, ah, eccolo, — disse poi chinandosi. Raccolse un nastro violetto a fiori d’oro, un po’ sciupato, e stette a guardarlo, svolgendolo alla luce. [p. 158 modifica]

— Sì, — diceva Jusepa, sollevandosi quanto più poteva, con le braccia alte, rimettendo una tovaglia nell’ultimo piano d’un guardarobe, — sì, i maggiori erano vestiti in costume. Donna Caderina, la madre del padrone, aveva nel corsetto i bottoni d’oro coi diamanti. Li ho veduti io. Sapete come è il diamante? Sembra vetro, a guardarlo così, ma di notte splende come gli occhi del gatto. La veste di donna Caderina deve esser qui, anzi.... aspettate che la cerco.... dove diavolo ti sei ficcata? — E cercava, cercava.

— Guarda questo nastro che ti è caduto.... Sarebbe bello per la cintura della gonnella.... il mio è tutto consumato....

— Mettetelo lì, aspettate.... mi pare che sia qui il corsetto....

Inginocchiata per terra, ella frugava nei cassetti del guardarobe, e zia Antonia continuava a palpare il nastro violetto. Jusepa si stizzava non ritrovando la veste di donna Caderina; e ad un punto, visto che sua madre si staccava con dispiacere dal nastro, disse aspra:

— E raccoglietevelo dunque! C’è bisogno di tante storie? [p. 159 modifica]

Zia Antonia indugiò, nicchiò, ma finì col piegare delicatamente il nastro e metterselo in seno.



Fu così che i Fronte cambiarono pelo.

Qualche tempo dopo Maria Ghespe disse una sera a Lelledda:

— Questa mattina Antonia Fronte ha portato un bottiglione vuoto e lo ha ripreso pieno di olio. Dillo a tuo padre, sciocca!

Lelledda glielo disse; ma dopo questo incidente don Costantino credè opportuno mandarla in un collegio, ove ella fa uno scandalo ogni giorno.



Note

  1. Giuseppa. — Bakis, Bachisio; — Antine, Costantino; — Lelledda, Angela.