Le tentazioni/Le tentazioni

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Le tentazioni

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Donna Jusepa Nel regno della pietra
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LE TENTAZIONI



FFelix Nurroi era un uomo grandemente timorato di Dio. Teneva il suo ovile vicino al fiume Tirso, nelle tancas del suo padrone, un giovine cavaliere del Marghìne. Felix era un uomo sui cinquanta anni, piccolo, sbarbato e calvo. Siccome soffriva mal d’occhi, teneva un paio d’occhiali neri a reticella; inoltre indossava quasi sempre un gabbano turchino, da soldato, stretto alla vita da una corda. Pareva un frate. Egli era uno di quegli uomini ai quali il timor di Dio impedisce di far fortuna. Lavorava come un cane e dava scrupolosamente la metà, e forse più, al [p. 164 modifica] padrone. Inoltre la fortuna non lo favoriva mai: per esempio, dopo fatta la divisione dei tori, il padrone trovava da vender vantaggiosamente i suoi, e Felix invece doveva darli per nulla; e così avveniva per il cacio, per le vacche da macello ecc. Ma egli non si lamentava mai. Nella sua prima giovinezza aveva fortemente desiderato farsi sacerdote, ma era così misero, così stupido! Poi s’era ammogliato secondo la legge di Dio, per aver figli, e consacrarne almeno uno al Signore. E ora appunto, il suo primogenito, Antine, doveva farsi prete. L’altro, dodicenne, sordo-muto, aiutava assai nei lavori dell’ovile. La moglie era morta.

Una sera d’agosto s’aspettava nell’ovile la venuta di Antine, che ritornava dal Seminario di Nuoro per le vacanze. Zio Felix e Minnai, il sordo-muto, attendevano appoggiati al muro della tanca, che dava sullo stradale. Il sole era tramontato. Una calma profonda addormentava il vasto e singolare paesaggio. Le tancas, gialle di fieno e di stoppie, si stendevano a perdita d’occhio fino al roseo orizzonte, sparse di macchie e di roccie. Ad ovest passava il fiume, abbastanza profondo e vasto, arrossato dal tramonto. [p. 165 modifica] Le sue rive bianche, sabbiose, erano invase da mentastri fioriti di violetto, e da veri boschetti di sambuchi e d’oleandri altissimi, fioriti i primi di ombrelle gialle, i secondi di mazzi enormi di rose, che si diramavano fino alle capanne e alle mandrie dell’ovile. Ad est, dietro un alto muro di cinta, annerito e cadente, fra una vigna distrutta e un oliveto inselvatichito, sorgeva una vecchia villa di mattoni, con a lato un campanile rovinato. In questa villa viveva tutto l’anno un servo del giovine cavaliere del Marghìne, che con la scusa di sorvegliare la tenuta e le tancas, ove pascolavano anche molti cavalli e puledri del padrone, non faceva nulla e rubava a man salva. Come usava ogni anno, Antine, per bontà del padrone col quale da bimbi erano stati amiconi e s’erano più di tre volte bastonati, doveva abitare una cameraccia della villa.

Le vacche fulve e rosse, e bianche macchiate di nero, e i cavalli neri e bai, dal pelame lucente sulle groppe poderose, pascolavano tranquilli fra le stoppie; un puledro bianco nitriva abbeverandosi nel fiume e grattandosi i fianchi in un oleandro. Un alito fresco, [p. 166 modifica] impregnato dal profumo amaro degli oleandri, saliva dal Tirso, fondendosi con l’aria calda e con l’aspro odore del fieno. In lontananza, nell’estremo orizzonte, Monte Urticu sorgeva azzurro sul cielo roseo.

Il piccolo Minnai, dai grandi occhi azzurri limpidi e sorridenti, vestito d’orbace nero, teneva le mani ferme sulle pietre calde del muro, e guardava fisso sullo stradale arido e deserto.

La venuta del fratello era per lui, ogni anno, un avvenimento importantissimo. Vide un uomo a cavallo. Anche zio Felix lo vide, e credendolo Antine si rallegrò tutto. Ma i suoi deboli occhi lo tradivano, mentre Minnai distingueva bene il cavallo nero con le zampe bianche e il paesano sedutovi sopra.

— È tuo fratello, quello? — disse zio Felix, rivolto al fanciullo. Questo osservò acutamente il movimento delle labbra paterne, e accennando di no, sorrise malizioso, tutto contento di aver veduto ciò che suo padre non distingueva.

Il paesano s’avvicinò è si fermò presso il muro. Come i Nurroi, anch’egli era di Ottana, [p. 167 modifica] miserabile paesello decaduto, al quale una poesia popolare dice:

“— De ottanta duas missas chi aias,
Una sola nd’ as commo, e cando l’as„1.

— Scommettiamo che io so chi aspettate; — disse sorridendo.

— Scommettiamo, — rispose zio Felix, sorridendo anch’egli.

— Una presa di tabacco? Egli verrà fra poco, non dubitate. L'ho ho veduto.

— È grasso? E rosso?

— Sembra già un arciprete. Trattatelo bene, che il diavolo vi scortichi. Cavateli i soldi, comprate le cose buone, per trattar bene vostro figlio. Dategli da mangiare uova e lardo, che una palla vi trapassi il cocuzzolo!

Zio Felix sorrideva sempre: cavò fuori la sua tabacchiera di corno, turata con un tappo di sughero inciso, e si sporse sul muro.

Il paesano si curvò su un fianco, mise un dito entro la tabacchiera, poi s’allontanò [p. 168 modifica] tutto contento, come se la gioia dei Nurroi fosse sua.

Minnai aveva guardato attentamente or il padre, or il paesano, durante il breve loro discorso: quando arrivava a capir qualche parola i suoi occhi scintillavano. Così aveva percepito le parole “uova e lardo„ e immaginando i lauti pranzi che si farebbero durante il soggiorno di Antine, aveva fatto un piccolo salto di gioia.

Fu il primo a scorger la vettura postale, che passava ogni sera a quell’ora; ma lasciò che anche suo padre scorgesse qualche cosa di confuso, per rivolgerglisi guardandolo fisso.

— È quello? — chiese zio Felix.

Egli accennò di sì.

Allora il buon uomo ed il fanciullo s’abbandonarono alla loro gioia; sorrisero, si sporsero sul muro, fischiarono, cominciarono a far segni con la testa e con le mani.

Dalla vettura nulla. Giunta presso il muro rallentò la sua corsa, si fermò. Antine uscì curvo, balzò e respinse lo sportello, mentre il vetturale gli porgeva una valigia. Egli era vestito da seminarista, coi bottoni rossi; era [p. 169 modifica] altissimo, col collo e il volto rossi e un gran naso aquilino: un tipo che colpiva. L’abito antiestetico, — aveva la sola sottana, — gli disegnava quasi a nudo le spalle e il petto un po’ incavato.

— Ben tornato, bene arrivato! — gli gridava suo padre. Ma siccome altri due viaggiatori guardavano dall’interno della vettura, Antine arrossì, diventando paonazzo. Si sarebbe detto che si vergognava di quell’uomo dagli occhiali a rete e dal gabbano turchino, e di quel fanciullo che lo divorava con gli occhioni azzurri ridenti.

Solo quando la vettura fu lontana, ed egli ebbe oltrepassato il varco aperto per lui nel muro, si lasciò abbracciare e baciare dal padre. Il fanciullo restava da parte: si avanzò solo per liberarlo dalla valigia.

— Oh, Minnai, ciao, — disse Antine distratto. Aveva una voce nasale sgradevole, ma Minnai non l’udiva, e per lui quel lungo fratello dai bottoni rossi era il più bel giovine del mondo. Sperava di venir abbracciato, ma si contentò di sfiorar la mano bianca e molle di Antine, e di toccargli uno dei bottoni rossi. Poi scappò [p. 170 modifica] di corsa, con la valigia sul capo, spaventando le vacche che muggirono.

Zio Felix non si stancò di guardare il suo primogenito per tutto il tempo che impiegarono ad attraversar la tanca. Il buon uomo parlava sorridendo, dando grave importanza alle sue più inutili parole: in fondo in fondo era un po’ intimidito dalla statura e dall’indifferente sguardo del seminarista. Giunsero all’ovile, in quell’ora deserto. L’alito fresco del fiume e la fragranza amarognola degli oleandri, circondavano le mandrie e le capanne, sperdendo i cattivi odori del bestiame. Zio Felix aveva preparato una piccola refezione di latticini e di dolci di miele; questi ultimi glieli avevano mandati dal paese per la festa dell’Assunzione.

Antine si tolse la sottana, la guardò attentamente se per caso avesse qualche macchia, poi la piegò con somma cura, deponendola sopra un tovagliuolo spiegato. Poi mangiò quasi con avidità, e bevette a lunghi sorsi dalla zucca incisa che suo padre gli porgeva. Il pasto e il vino lo misero di buon umore. Dopo tutto egli era un buon ragazzo, un po’ [p. 171 modifica] bilioso in certe ore, ma ordinato, intelligente, ambizioso e quindi studioso.

Ritornati il mandriano delle vacche, un giovine pallido, paffuto, e il guardiano dei cavalli, un uomo con le gambe storte, lo festeggiarono come un loro fratello; e incitato da loro egli cominciò a raccontar storielle ed episodi divertenti sulla sua vita di seminarista.

— Monsignore mi vuole tanto bene, Monsignore mi ha detto questo, Monsignore mi ha detto quest’altro.

Zio Felix ascoltava a bocca aperta, tutto superbo che suo figlio parlasse famigliarmente con Monsignore.

— E.... — chiese a un tratto, maliziosamente, il vaccaro, — niente divertimenti, vero, in quel diavolo di luogo?

Zio Felix gli diede sulla voce.

— Misurati le parole, Tanu. Prima di tutto quello non è un diavolo di luogo, e poi puoi far a meno di domandar certe cose.

— Andate al diavolo, voi, — rispose il vaccaro.

Antine, che aveva perfettamente capito a quali divertimenti accennava il mandriano, [p. 172 modifica] arrossì un po’ nell’ombra, ma rispose ingenuamente:

— Eh, quest’inverno abbiamo dato tante rappresentazioni.

— Che cosa?

— Aspetta, tu non capisci. Vedi, per esempio, facciamo finta che succeda una storia; due o tre seminaristi si vestono da signori, io e un altro da donna, un altro da servo, e facciamo finta di esser questo o quell’altro, e rappresentiamo una storia. Come in teatro.

Tanu ne capì più poco, ma rise malignamente perchè i seminaristi si vestivano da donne.

— Perchè ridi? — gridò Antine adirandosi. — Tu non capisci niente. Venivano delle signore, e tutti i canonici, e battevano le mani.

— Vi vestivate da donne....

— Ebbene? — disse zio Felix. — È se si vestivano? Se lo permettevano i superiori, vuol dire ch’era ben fatto.

— Ma già, — disse poi il cavallaro, — voi altri preti siete vestiti da donne.

Lo disse senza ombra di malizia, perchè era un uomo un po’ stupido; ma Antine si offese, e balzò su sdegnoso alzando le spalle. [p. 173 modifica]

— Siete tanti stupidi. Con voi non bisogna parlare, andiamo!

Zio Felix trovò che questo era un atto di superbia da parte del figliuolo, ma non osò rimproverarlo.

Intanto la notte era scesa: s’udiva lo stormire degli oleandri, il cui profumo si faceva acutissimo, e il monotono fragore d’una lontana cascatella del fiume. Le stelle oscillavano sul cielo un po’ cinereo. Minnai, sdraiato su un mucchio di fronde d’oleandro, s’alzò vedendo alzarsi il fratello, e quando si trattò di andare alla casa di mattoni, caricatosi la valigia e la sottana sulle spalle, partì allegramente, affondando i piedi scalzi fra le stoppie.

Antine e zio Felix venivano dietro. Da ogni stelo di fieno usciva il trillo d’un grillo e lo splendore verde azzurrognolo d’una lucciola.

— Figliolo mio, — diceva il pastore, — ti raccomando una cosa. Nella casa del padrone c’è sempre Piriccu2, quel servo che, non faccio per criticare, con l’invecchiare diventa [p. 174 modifica] sempre più di animo cattivo. Dio lo salvi: non dar retta ai suoi discorsi.

— Cosa potrà dirmi? — chiese Antine sprezzante, con gli occhi smarriti nel buio. — Egli non potrà dirmi nulla: e se mi parlerà lo lascerò cantare. Lo so, sì, cosa è quell’uomo lì. Quando ero fanciullo mi mandava in cerca di bacche d’elleboro per far magie.

— Il Signore ci liberi. Lasciarlo cantare no, questo è un atto di superbia, perchè infine, figlio mio, ti devi ricordare che sei figlio di un pastore; rispondigli, sì, ma non dar retta ai suoi discorsi. Non andar in cerca di bacche, figlio mio.

— Come siete semplice! — gridò Antine, e il suo riso nasale, ma ancor fresco, vibrò fra lo stridio dei grilli.

Arrivarono alla casa: la porta della cucina era illuminata, e s’udiva un martellar di pietra, secco, continuo. Era zio Pera che sgusciava delle mandorle, percuotendole ad una ad una con una pietra. Il guscio cenerognolo s’apriva; e le mandorle rossastre, un po’ umide, saltavan fuori. Ce n’era già un bel mucchio.

Udendo arrivar il seminarista, zio Pera s’alzò [p. 175 modifica] scuotendosi le vesti: era un uomo alto, scarno, coi capelli lunghi grigi, e con un solo occhio, turchino. Si diceva però che quell’occhio egli lo tenesse aperto anche quando dormiva. Antine ricordava che molte volte, quando era fanciulletto, aveva spiato il sonno di Pera per accertarsi s’egli dormiva proprio con l’occhio aperto. Più d’una volta il servo, accorgendosene, era balzato su, facendo le boccaccie e urlando per spaventar il ragazzo, che infatti fuggiva a rompicollo.

— Ti sei fatto lungo come un pioppo, che il diavolo ti porti, — gli disse ora per primo saluto, facendo così dispiacere a zio Felix, che non amava venissero imprecati i suoi figliuoli. — Speriamo che ora non verrai a curvarti su me quando dormo, per vedere se il mio occhio si chiude.

— Andate, andate! — rispose Antine sorridendo.

Salirono la scala rovinata. Pera recava una lampadina sarda, di ferro nero, a quattro becchi. Nel mezzo aveva un uncino, e il lucignolo navigava in un po’ d’olio d’ulivo. La stanzaccia di Antine era sempre la stessa: un letto [p. 176 modifica] di legno, un inginocchiatoio, un tavolo, una sedia; piatti e pentole entro un armadio praticato nella parete, un quadretto di Sant’Elia, il pavimento di tavole che ballava, e molta polvere. Rimasti soli, mentre Antine apriva la valigia e disponeva lentamente alcuni oggetti sopra il letto, zio Pera cominciò subito i cattivi discorsi.

— Lo hai già il breviario? È quello lì, o quell’altro? L’anno scorso dicevi che te lo avrebbero concesso quest’anno.

— Io non ricordo d’aver detto questo.

— Tu lo hai detto. O che sono bugiardo, io? O che sono rimbambito?

— Tutt’altro.

— Infine, libri santi ne hai?

— Tutti i libri che leggiamo noi sono santi, — disse l’altro con falsa unzione.

— Non sempre. Una volta signoriccu (il padroncino) disse che nei seminari leggevate più cose cattive che altro.

— Bah, lasciatemi stare la testa! — disse Antine, cominciando a stizzirsi.

Dopo un po’ zio Pera, che divorava col suo vivido occhio i libri del seminarista, tornò sull’argomento. [p. 177 modifica]

— Astuto quel zio Felix, che una palla gli trapassi il fegato! Lo sa egli perchè ti fa prete. Quando sarai prete e avrai i libri santi, e chi vi toccherà? Tu comanderai i libri, e avrai il piacere di scomunicare chi meglio ti piacerà, e di far male ai nemici.

L’altro stette zitto.

— L’uomo toccato a libro, cioè maledetto per mezzo dei libri santi, che cosa è quell’uomo? È un corno: è nulla. Dimmi, vitellino mio, sai almeno la formola colla quale si comanda che un cristiano non si sazi mai d’acqua nè di cibo? Ne hai sentito parlare? Se tu la sai, farai la tua fortuna, anche prima d’aver gli ordini. Vedi, c’è un bandito, al quale ho parlato di te per quest’affare. Basta aver il breviario e la sottana.

— Ma siete insopportabile, zio Pera! — gridò Antine, volgendosi inviperito. — Diventate matto?

— Matto, matto! Sei astuto tu, cavallino mio, astuto come tuo padre, che una palla vi fori l’anima! Ti darebbero cento scudi.

— Fatemi il piacere, sbarazzate la stanza, zio Pera. Su, via, marsc! [p. 178 modifica]

Il servo capì che per quella sera non doveva insistere, e se n’andò, senza punto offendersi se veniva cacciato.

— Ufff! — sbuffò Antine, rimasto solo. — Che gente cretina!

E s’affacciò alla finestra, disgustato un po’ di tutto e di tutti. Molto meglio la vita di Seminario, pulita, civile, sebbene così metodica. E dire che l’aveva tanto sognata questa libertà della tanca, dell’ovile paterno, interrotta solo dalle gite che contava fare al paese!

Stette a lungo alla finestra, distinguendo sempre più le cose nel buio. Laggiù era il fiume; gli oleandri si disegnavano come una bassa nuvola sulla purezza cenerognola del cielo. La tanca pareva stendersi all’infinito, al di là dell’orizzonte, tutta esalante una calda fragranza di stoppie, di fieno, di macchie. Gli olivi e i vecchi mandorli del frutteto avvolgevano silenziosi la casa. Dalla finestra Antine dominava la massa quasi compatta delle loro chiome, su cui le stelle gettavano rapidi e fugaci bagliori. Egli si sentiva triste, triste; la testa gli dolorava un poco. Pensava a Nuoro, ai compagni, alle belle passeggiate, alle [p. 179 modifica] discussioni teologiche — così le chiamavano, — e letterarie e d’altra indole ancora. Qui non c’era con chi scambiar due parole. Suo padre? Suo fratello? Gli altri? Gli erano tutti indifferenti, allo stesso modo. Vedeva le cose in modo assai diverso del come le aveva vedute sino ad un anno fa. Il gabbano e gli occhiali di suo padre, e gli occhi celesti di Minnai, così stupidamente curiosi, gli davano lo stesso disgusto delle guancie paffute di Tanu, delle gambe storte del cavallaro, dell’occhio maligno di zio Pera. Egli non amava nessuno, ecco tutto! E sentiva un gran vuoto, un gran vuoto entro di sè: si sentiva spostato, triste, umiliato: si sentiva uomo. La grande e misteriosa solitudine della notte nella tanca faceva smarrire la sua anima: i profumi degli oleandri e delle stoppie gli davano un arcano desiderio di cose impossibili.

Andò a letto e s’adormentò subito, ma anche nel primo sonno continuò a provare un senso di oppressione. Sognava che zio Pera gli rubava i libri, e ch’egli s’incolleriva sino a diventarne rauco, mentre Minnai, che non capiva nulla, rideva con gli occhi azzurri splendenti. [p. 180 modifica]



Avvezzo a svegliarsi prestissimo, all’alba era già in piedi. Tornò alla finestra, fischiando e cantando. Le cattive impressioni della notte erano scomparse: l’infinita gioia della libertà gli rallegrava il cuore. Scese nella tanca, dopo aver assicurato i suoi libri nella valigia, e cominciò a passeggiare, a correre, a far esercizi ginnastici, cantando versi italiani classici, che stonavano assai in quel paesaggio sardo selvatico. Ai primi raggi del sole le stoppie parvero cambiarsi in grandi tappeti d’oro, trapuntati dai fiori violetti dei cardi secchi; il fiume rifulse, azzurro come il cielo, trasportando i petali rosei e violetti degli oleandri e dei mentastri che si sfogliavano sbattendo le lor foglie sulle acque tranquille.

I puledri correvano nitrendo, fremendo, con le groppe lucenti al sole: e negli occhi riflettevano il giallo splendore della tanca.

Antine sentiva entro di sè qualche cosa simile alla fiera gioia dei puledri. Anche i suoi occhi erano splendidi, splendidi ma indifferenti.

Zio Felix e Minnai mungevano le vacche, e [p. 181 modifica] attendevano il seminarista, invasi anch’essi da profonda gioia. Specialmente zio Felix si sentiva felice: sorrideva senza saper perchè, pensava al giorno nel quale Antine avrebbe detto la prima messa, e gli pareva d’esser l’uomo più contento del mondo. Parlava con le vacche, con Minnai, coi torelli chiusi ancora nella mandria, col latte che sprizzava scarsissimo dalle mammelle esauste delle vacche pregne, col pajolino di rame, con ogni cosa infine che gli capitava sottomano. E nessuna cosa gli rispondeva — neppure il piccolo Minnai, che però riusciva a capirlo dal movimento delle labbra — ma egli udiva una voce interna risponder a ogni sua parola, e questa voce interna cantava e pregava nello stesso tempo, rendendo grazie al Signore. Poi udì la voce di Antine che saliva dal fiume. Anch’egli cantava, e la sua voce, — così parve a zio Felix, — riempiva di vita e di gioia tutta la tanca, animando il luminoso silenzio del paesaggio fluviale, in quel puro mattino d’agosto.

Antine venne all’ovile, bevette il latte, giocò con Minnai, si mostrò infine molto più allegro della sera prima. [p. 182 modifica]

Zio Felix lo guardava incantato. Così cominciò una vita beata per i Nurroi e per chi li avvicinava. Antine giocava spesso alla scherma — senz’armi! — col piccolo Minnai: questo era più abile, più svelto, e, cosa incredibile, riusciva spesso a vincere il lungo fratello. Allora Antine provava un brivido felino, una cattiva scintilla s’accendeva nei suoi occhi indifferenti, e il piacer del gioco gli diventava crudele.

Un giorno, pretendendo che Minnai avesse battuto a tradimento, lo prese a schiaffi, gridandogli improperi. Il piccolo non capì; comprese solo gli schiaffi, e si mise a piangere, coi puri occhi offuscati da grave dolore.

— Questo perchè mi sono abbassato! — disse Antine, e arrossì, ma non si sa se per essersi abbassato a giocar col fratello o per averlo ingiustamente schiaffeggiato.

Zio Felix continuava ad esser felice: quando era solo tastava religiosamente il mucchio di reliquie che gli pendeva sul nudo petto, e pregava Sant’Esias e Santa Varvara3 per il bene del suo figliuolo. [p. 183 modifica]

Di notte Antine s’indugiava nell’ovile, raccontando la meravigliosa vita cittadina e la vita del seminario, a Tanu e al cavallaro.

A sentirlo egli era in intima amicizia coi più cospicui cittadini. Con Monsignore poi non se ne parli.

— Monsignore mi ha detto questo, Monsignore mi ha detto quest’altro.

Il cavallaro ascoltava a bocca aperta: Tanu invece voleva far lo scettico, cambiava destramente e con fine malizia il significato delle più innocenti frasi di Antine, facendolo spesso adirare; ma in fondo era meravigliato e curioso. L’interessava specialmente la storia delle rappresentazioni: non poteva capacitarsi come una persona poteva fingere d’essere un’altra. E non s’accorgeva — il malignaccio, — che egli sarebbe stato un tipo adattissimo per ciò.

Ma dopo dieci o dodici giorni Antine cominciò ad annojarsi, a stizzirsi, a riprovare quella penosa sensazione di vuoto e di tristezza che l’aveva oppresso la sera dell’arrivo. Dormiva a lungo, indugiandosi la mattina a letto, e il sonno pesante di quelle calde notti lo snervava. Non aveva ancora aperto un libro: [p. 184 modifica] inutile poi dire che dalla sua partenza dal Seminario non aveva più pregato, scordando persino di farsi il segno della croce.

Quando era nella casa di mattoni, il vecchio zio Pera non lo lasciava un momento tranquillo, tentandolo in tutti i modi perchè lo ajutasse nelle sue fattuccherie.

— Dimmi, fiorellino mio, te la faccio venire quella persona?

— Quale persona?

— Quel bandito.

— È perchè cosa?

— Per far quella cosa, agnellino mio.

— Quale cosa?

— Quella fattura.

— Oh, andate all’inferno, zio Pera! Non mi tormentate, che il diavolo vi tormenti.

— Ah! Ah! Tu imprechi! Cattivo sacerdote! Se ti sente tuo padre, rosignuolino mio! Astuto quel tuo padre! Ha un figlio che impreca e lo vuol far prete, che una palla gli trapassi il fiele. Dunque, si fa o non si fa?

— Oh, zio Pera maledetto! Voi volete che non metta piede in questa rovina di casa. Ora ne ho le tasche piene. Lasciatemi tranquillo. [p. 185 modifica]

Zio Pera lo lasciava tranquillo un bel po’ poi tornava all’assalto.

— Dammi almeno la sottana, vitellino mio. Non te la guasteremo. E un libro. La sottana ha i bottoni rossi come bacche di prugnolo, ma credo che ciò non importi. Quanto vuoi?

— Voglio un corno. Se continuate a seccarmi scrivo al padrone. E gli scrivo che, oltre il resto, delle mandorle voi gli lasciate solo il guscio.

— Tu menti, pretarello. Tu imprechi, tu menti, tu infine hai ogni vizio. Lo sa ben egli, tuo padre, perchè ti vuol far prete.

— Oh, andate tutti in malora! — gridò Antine, fuggendo con le mani fra i capelli.

Anche suo padre non andava scevro di superstizioni, e ciò dava maledettamente ai nervi del seminarista.

Poco dopo il suo arrivo, accadde per esempio questo fatto.

C’erano alcune vacche infette da verminazione. Invece di curarle normalmente, zio Felix aspettava che la luna fosse fuori, cioè fosse visibile, per praticare i berbos, parole magiche per il cui potere i vermi dovevano cadere dalle piaghe delle bestie. [p. 186 modifica]

Tutti i paesani sardi credono nella potenza dei berbos, che sono di molte specie, di molti riti e per molte cose. Ce ne sono per guarire il bestiame, per legare, cioè impedire alle aquile e alle volpi di rapire il bestiame minuto, per impedire ai cani di abbajare, e ai fucili di sparare, per distruggere bruchi e altri animali nocivi, e infine per cento altre cose strane.

Zio Felix aveva fede illimitata nei berbos: ne conosceva moltissimi, ed anzi godeva fama che gli riuscissero sempre bene, onde spesso lo chiamavano qua e là negli ovili vicini per praticarli.

Appena la luna nuova apparve come una piccola barca d’oro navigante fra i rosei vapori del tramonto, al disopra di Monte Urticu, egli pensò di recitare i berbos per le vacche malate.

Le riunì tre sere dopo, vicino al fiume. Antine assisteva alla scena.

La notte era appena calata: la luna nuova scendeva dietro gli oleandri, l’acqua del fiume aveva lunghe scie d’argento pallido, e il cielo aveva la stessa purezza dell’acqua. Che pace, che dolcezza profonda! Le vacche, quasi tutte rosse, oscure dal lato che la luna non [p. 187 modifica] illuminava, si leccavano le piaghe, sbattendosi nervosamente la coda fra le coscie. Zio Felix si tolse la berretta, si scalzò, si segnò tre volte. Aveva nella mano destra, fra il pollice e l’indice, una piccola falce, o meglio un coltello in forma di falcetto. Sul petto, al disopra del gabbano, gli pendeva il mazzo delle sante reliquie, appeso al collo con un cordoncino unto. Egli sembrava inspirato: quando sollevava il volto verso la luna, i suoi occhiali brillavano come due enorme occhi di giavazzo.

Appoggiato ad un oleandro, Antine guardava: altre volte quelle cerimonie l’interessavano; ora ne provava quasi disgusto, sprezzante e ironico.

Zio Felix mormorava i berbos, le misteriose parole, con le braccia tese e il viso alto. Invocava egli la potenza della luna, degli astri, delle tenebre; lo spirito delle acque, le deità dell’aria? Certo, invocava qualche cosa, ma Antine non giungeva a capire le arcane parole. A un tratto zio Felix fece tre passi indietro, tese indietro le braccia, e si curvò all’indietro. Col falcettino spiccò tre steli di giunco, ritirò le braccia in avanti, si sollevò e andò verso [p. 188 modifica] il fiume, sempre mormorando le arcane parole. Annodò a più riprese il giunco e lo lanciò sull’acqua che lo trasse nella sua silenziosa corsa; poi si segnò col falcettino, si curvò sull’acqua, bagnandosi prima le mani, poscia i piedi, e rimise entro la rozza camicia il mazzo di relique. La cerimonia era compiuta: quando il giunco si marcirebbe entro l’acqua, le vacche guarirebbero.

Ma le vacche non guarirono, e zio Felix disse che la cerimonia non aveva avuto effetto perchè Antine aveva assistito senza crederci.

E Antine continuò ad annojarsi, a rattristarsi. Si levava a sole alto, e rimaneva quasi tutto il giorno vicino al fiume, tra i freschi aliti della brezza che sfogliava gli oleandri. Altrove, nella tanca, il caldo era intenso: fiamme ardenti salivano dalle stoppie d’oro; le vacche e i puledri domati dal calore snervante, meriggiavano nelle corte ombre delle macchie e dei muri. Solo dopo il tramonto il fresco alito del fiume saliva e dilagava per la tanca; di notte, poi, quando la luna batteva sulle stoppie, e i grilli cantavano, la dolcezza era infinita, infinita.

La linea argentea della tanca sfumava nel [p. 189 modifica] breve orizzonte in un lago di sogni, e quello sfondo vaporoso assorbiva gli sguardi e la fantasia di Antine con attrazione quasi magnetica.

Che c’era là lontano? Là, dietro le luminosità dell’orizzonte? Mentre zio Felix pregava seduto sopra una pietra, ringraziando Santa Varvara e Sant’Elias della felicità sua e del figliuolo, il figliuolo si sentiva profondamente triste e infelice, perchè l’orizzonte lunare gli causava un prepotente desiderio di vita, una nostalgia appassionata, di cose mai vedute, di cose ignote, di cose impossibili.

Era in questo stato d’anima quando, verso la metà di settembre, dopo una nojosa visita al paesello miserabile, andò ad una festa campestre. Là incontrò il padrone delle tancas, delle vacche e dei puledri, il giovane cavaliere, don Elia, ch’era ancora sotto tutela. Questo non gli impediva di divertirsi in ogni possibile modo: nella festa campestre faceva mille pazzie, ballando il ballo sardo, spendendo, pigliando parte alle corse col suo cavallo bianco come il latte, facendo la corte alle belle donne, e ubbriacandosi. Don Elia era bello e simpatico; aveva venti anni, ma ne dimostrava sedici, [p. 190 modifica] bianco, pallido, coi capelli e gli occhi nerissimi. Aveva però i denti orribilmente guasti, il che, quando rideva, lo deformava alquanto. Vestiva di bianco, con una paglietta che sembrava un cappello da donna, guarnita di tulle rosa, attaccato all’occhiello del gilè con un lungo cordoncino di seta a più colori.

Vedendo Antine lo abbracciò e baciò con entusiasmo. Il seminarista sentì esalar dalla bocca del padrone, le cui labbra erano lucenti e fresche come quelle d’un bimbo, un pestilenziale odore d’acquavite, e ne provò sulle prime un’impressione disgustosa; ma a poco a poco l’affabilità e la cortesia smodata di don Elia lo soggiogarono.

— Ti ricordi, Antine, che pugni ti ho dato una volta? Ora sei più alto e forte di me. Andrai a far il soldato?

— No: allora avrò i primi ordini.

— Ah, sì, tu ti fai prete. Che sciocco!

Egli disse ciò con tanto sarcasmo fine, compassionevole, che Antine ebbe uno dei suoi soliti accessi di rossore, che lo rendevano pavonazzo. Gli sembrò incollerirsi; ma in fondo in fondo era un po’ d’umiliazione che lo faceva arrossire. [p. 191 modifica]

Intanto Elias se lo trascinava dietro, di liquorista in liquorista, e lo incitava a bere piccoli calici di mescolanza (acquavite) nitida e ardente come diamante sciolto.

Sulle prime Antine rifiutava, torceva il viso, allontanava il calice con la mano; poi beveva per compiacere il padrone, per deferenza, per soggezione, poi per gusto.

Una gioia febbrile cominciò a bollirgli in cuore; e tutto gli girò attorno, ma in danza lenta e deliziosa. Verso sera tanto egli che Elias si trovarono ubbriachi come due contadini.

— Io devo tornare all’ovile, — disse Antine balbettando, e cercando il cavallo.

Elias rise sguajatamente, con gli occhi languidi, e rispose:

— Tu sei ubbriaco, non vedi? Sei ubbriaco come.... non ti dico neppur come. Dove vuoi andare?

— All’ovile. Mio padre aspetta.

— Chi è tuo padre? Un mio pastore. Resta dunque col tuo padrone, che egli non ti dirà nulla. Altrimenti lo caccio via.

— Del resto, anche tu sei ubbriaco! — gridò Antine adirandosi. [p. 192 modifica]

— Sicuro, sono ubbriaco! Cosa vuoi dire con ciò? Che non sono il padrone forse?

— Non dico questo....

— E allora cosa dici tu, pretino bavoso, ubbriacone? Sono sì o no io il padrone? Chi sono io, rispondi?

— Sì, tu sei il padrone, — disse l’altro timidamente. Aveva paura che don Elias scacciasse zio Felix.

— Ebbene, se sono il padrone rimani con me, qui. Andremo domattina assieme. Tuo padre non solleverà neppur l’arco delle sopracciglia.

— Tu verrai con me?

— Sì; verrò con te. Verrò perchè dovevo venirci, perchè so che tutti laggiù mi rubate. È tempo che dia attenzione alle cose mie.

— Tu verrai con me? — ripeteva Antine imbambolito. — Perchè verrai?

— Non te lo sto dicendo? Sei sordo? Verrò perchè così mi piace, non per far piacere a te. Io sono un cavaliere, e tu, cosa sei tu? Un uomo che si fa prete!

Sebbene ubbriaco, Antine arrossì ancora, nuovamente provando la strana impressione sofferta la mattina. [p. 193 modifica]

L’altro proseguì:

— Siamo però entrambi ubbriachi davvero. Cosa ti pare? Siamo o non siamo ubbriachi? Io credo di sì.

— Anch’io.

— Andiamo a nasconderci, allora.

Passarono la notte all’aperto sotto un albero, una grande quercia attraverso i cui rami non vedevano certo brillar le stelle. Dopo lungo e pesante sonno, Antine fu il primo a svegliarsi: la testa gli doleva, le labbra aride e appiccicate erano amare come il succo dell’euforbia.

— Ah! — disse staccandole con lieve rumore, — mi sono ubbriacato. Che direbbe mio padre, se lo sapesse?

Ed ebbe vergogna, non per suo padre, ma per sè stesso. Ricordò subito le maligne insinuazioni di zio Pera:

— Bel sacerdote diventerai! Tu imprechi, tu parli male, tu...

— Ti ubbriachi! — gridò fra sè.

E tosto gli parve che sarebbe diventato davvero un cattivo sacerdote, e se ne rattristò.

Don Elia tenne la parola. Andò all’ovile con [p. 194 modifica] Antine. Durante il viaggio, caracollando sul suo magnifico cavallo bianco, che ogni tanto aggiravasi fieramente su sè stesso, spaventando il ronzino d’Antine, Elia tornò ad essere un giovinetto elegante e disinvolto. Il suo costume bianco s’era di molto sporcato; il suo volto era più bianco del consueto, e la sua voce rauca; ma egli pareva pentito dello stravizio del giorno prima.

— Ci siamo ubbriacati, — diceva ogni tanto. — Io non ho pensato male di te perchè la colpa è stata mia, ma tu che avrai pensato di me?

— Nulla; non ne avevo il diritto...

— Nè la disposizione...

Risero, ricordando tutte le impertinenze che s’eran dette la sera innanzi. D’una, però, Elias non sembrava pentito: della sua sprezzante beffa per la carriera d’Antine. E ogni volta che ci tornava su, il seminarista provava quell’umiliante senso d’oppressione sentito fin dal primo momento.

Zio Pera sapeva già dell’arrivo del padrone, perchè un suo amico bandito, ch’era stato anch’egli alla festa, aveva preceduto i due [p. 195 modifica] giovinetti. Il servo aveva quindi preso le sue misure; il che non gli proibì d’accoglier con finta sorpresa il giovine cavaliere.

— Come sta il tuo tutore? — gli chiese maliziosamente, togliendo la sella al cavallo.

— Il diavolo se lo porti, — rispose Elias, mettendo il piede destro sopra una pietra per togliersi lo sprone. Zio Pera fu lesto a curvarsi, e mentre gli slacciava lo sprone, chiese a voce sommessa:

— Sei venuto per cercar soldi?

— A quanto pare.

— Credo che questa volta Felix Nurroi non ne abbia, ma forse potrà dartene suo figlio.

— Chi suo figlio? Antine?

— Antine.

— E come mai? — disse l’altro stupito.

— Tu sta zitto, — disse Pera, appendendo lo sprone ad un chiodo. — Lascia fare a me. Parleremo un altro momento.

Saputo l’arrivo del padrone, zio Felix si rattristò. Ah, Dio ci salvi, il Signore comanda l’amore verso tutti, ma zio Felix non amava e non poteva amare il padrone, quel ragazzo vizioso, già pieno di debiti sino ai capelli, che [p. 196 modifica] di tanto in tanto si permetteva chieder del denaro anche a lui, al suo povero pastore, il quale lavorava tutto l’anno come uno schiavo, per poter tenere il figliuolo agli studi ecclesiastici.

— Ti sei indugiato per ciò? — chiese ad Antine, che scese primo all’ovile. — Bada bene, figlio mio, tu sei un figlio di pastore, e il padrone è un cavaliere. Non ti conviene la sua compagnia.

— Perchè? Invece di ringraziare!... — disse Antine stizzito.

— Bene. Ringrazia fin che vuoi, ma sta attento. Non conviene dir male del prossimo, ma bisogna che tu sappia che don Elia non è compagnia per te. Egli è ricco e non vuole studiare. Piglia denaro dagli strozzini e se ne va nelle città a divertirsi, lasciando senza attenzione il fatto suo. Eppoi non crede in Dio.

— Cosa volete? I signori son tutti così; non ci credono. Ma Elia è così giovine! metterà testa.

— Resterà qui molti giorni?

— Non so: pochi, credo.

— Santa Varvara mia, fate ch’egli se ne vada domani, pregò fra sè zio Felix. [p. 197 modifica]

Ma il giovine padrone non se ne andò, nè il domani nè il posdomani. Tre giorni dopo il suo arrivo giunse a spron battuto un servo del tutore, per informarsi se don Elia si trovava nella tanca, giacchè egli, al solito, era partito senza dire ove andava e perchè: portava inoltre una bisaccia di viveri, ma don Elia li respinse insolentemente.

— Di’ al tuo padrone che getti il suo pane e il suo presciutto ai cani. Io non ne ho bisogno. Va via, subito! Va al diavolo, tu e il tuo padrone. Se ti trovo un’altra volta sui miei calcagni ti faccio cacciar le viscere di bocca.

L’altro se n’andò mogio mogio; ma zio Pera lo precedette per un viottolo e gli fece scaricar la bisaccia in un sito deserto della tanca.

Don Elia continuò a menar vita allegra, passando le giornate con Minnai e con Antine, bagnandosi nel fiume, cantando e giocando. Con Antine mangiavano e dormivano assieme: correvano sui cavalli domiti, nuotavano, giocavano a carte e alla morra muta come due facchini. Il volto bianco e la bianca veste del cavaliere pigliavano una spiccata tinta polverosa; la garza rosea della paglietta era [p. 198 modifica] sbrandellata come se tutta la siepe della tanca ci avesse avuto che fare: il cordoncino, poi, pendeva al collo di Minnai, sostenendo una medaglietta di Sant’Elia e un centesimino bucato.

Un’ombra passava dietro gli occhiali di zio Felix. Ah, se non fosse stato per l’amor di Dio, il buon uomo avrebbe imprecato il padrone, per la vita scapestrata che faceva condurre ad Antine. Tutte le prediche riuscivano vane. Del resto, don Elia era così allegro, affabile, divertente; sembrava spassarsi così innocentemente, che pareva un ragazzo buono e senza malizia come il piccolo Minnai, e si faceva amare o almeno compatire. Talvolta zio Felix si diceva:

— Via, sono un sciocco, un vecchio peccatore. Che male c’è se essi sono ragazzi e si divertono? Antine ha tanto studiato lungo l’anno: è giusto che si spassi un pochino. Egli ha ragione: dovremmo ringraziare don Elia per la sua bontà.

Il vaccaro e il cavallaro, poi, erano entusiasmati del giovine padrone: non parlavano d’altro che di lui, delle sue ricchezze, delle sue prodezze. Qualche volta giungevano persino [p. 199 modifica] a bisticciarsi o per un particolare della persona di Elia, o per il valore più o meno reale della tanca, dei puledri e delle vacche, o per la cifra dei suoi debiti.

Antine era messo da parte, dimenticato, — offuscato dalla presenza rumorosa del nobile padrone. Ma egli non ne provava gelosia, completamente affascinato da Elia. Dacchè questo animava con la sua presenza la selvaggia solitudine della tanca, Antine non s’era più annoiato o rattristato come nei primi giorni. Il vuoto era scomparso dal suo cuore: egli amava finalmente qualcuno che gli penetrava nell’anima non con la fredda benevolenza dei superiori, o con l’ignorante e semplice affetto dei suoi poveri parenti, ma con un ardore di fascino quasi morboso. Era Elia. Antine sentiva per lui affetto, amicizia, ammirazione, soggezione. Se avesse incontrato una donna non l’avrebbe amata con egual sentimento, nel quale s’esplicavano tutte le nascoste potenze affettive della sua adolescenza pura. Elia non coltivava punto quest’affetto, e neppur lo capiva. Egli non aveva nè la profondità nè l’intelligenza del figlio del pastore; era un [p. 200 modifica] semplice incosciente, un egoista simpatico, e si serviva di Antine per distrarsi nella noia della vasta solitudine, nella quale s’indugiava non perchè il paesaggio o la sua proprietà lo attraessero, — non aveva alcun sentimento della natura, e nessuna preoccupazione dei suoi affari, — ma per uno speciale scopo.

Una sera i due amici stavano nella cameretta di Antine. Non avevano acceso lume, ed Elia stava audacemente seduto sulla finestra, con le gambe penzoloni all’esterno. E cantava:

“O tu che giaci là su la fiorita
“Collina tosca, e ti sta il padre accanto....„

La sua voce un po’ fessa, stanca, cupa, si perdeva nell’aria buia della notte. Ed avea un’intonazione distratta: senza dubbio Elia pensava ad altro che alla sua canzone. Antine gli stava dietro, ritto, e lo ratteneva per le braccia, pauroso di vederlo cadere. La notte era fresca, quasi umida: lunghe nuvole e sottili solcavano il cielo. E in quella quiete profonda le fragranze salivano intense, e le voci della notte, — il romorìo della cascatella lontana, qualche latrato di cane, una nota sempre [p. 201 modifica] eguale di cuculo, il tremolìo dei grilli, — parlavano con arcane vibrazioni. Antine immergeva lo sguardo nell’orizzonte incerto, sulla cui opacità quasi cinerea brillavano acute stelle dalle oscillazioni verdognole e rossastre. A differenza di Elia, egli sentiva tutta la struggente malia della notte, ma non si rattristava più; s’immaginava che il compagno dividesse i suoi sentimenti, le sue sensazioni, e non provava più la tristezza della solitudine; a momenti anzi gli pareva di provare ancora la gioia febbrile procuratagli dall’ubbriachezza dell’acquavite, ma era una gioia irrequieta, che cercava, che desiderava, che voleva qualche cosa d’ignoto. In quella sera l’anima del seminarista era come un fiore aperto verso il cielo, in attesa della rugiada. Elia smise di cantare quando ebbe trovato le parole che cercava.

— Dimmi un po’, Antine, dopodomani io parto, non è vero? Ma tu non sai ancora perchè son venuto qui.

— Per vedere il fatto tuo.

— Umh! c’è poco da vedere! — disse l’altro con sprezzo. — Tuo padre è fedele fino alla sciocchezza; i cavalli e i puledri non si [p. 202 modifica] possono mica trafugare; c’è soltanto quel vecchio negromante di Pera che delle mandorle mi lascia solo il guscio; ma cosa sono due mandorle? Io me ne infischio altamente; ma tu non sai perchè son venuto. Indovinalo un po’.

— Per divertirti.

— Macchè. Indovina, indovina.

— Ma.... non saprei.

— Ebbene, te lo dico io. Sono venuto per cercar del denaro.

— Del denaro? Qui? — chiese l’altro ridendo.

— Sì, del denaro; non ridere, mio caro. Qui ce n’è più che altrove, ma tuo padre questa volta non ha voluto favorirmi.

— Questa volta?

— Sì, caro mio, questa volta. Perchè altre volte mi ha favorito. È vero che mi son dimenticato di restituirgli il fatto suo, ma certamente non per cattiva volontà. Non sarò sempre padrone per burla, e allora saprò il mio dovere. Tuo padre mi ha prestato senza interessi nè cambiali a scadenza di due o tre anni, come altri strozzini, ma egli è il più sicuro di tutti. Sai quanto gli devo? Indovina. [p. 203 modifica]

— Cento lire? — disse Antine, timidamente, credendo esagerare.

— Altro che cento lire! Di più.

— Duecento! — disse l’altro stupito.

— Di più ancora.

— Trecento.

— Ancora, ancora!... — esclamò don Elia, guardando lontano.

Antine arrossì nell’ombra: per un momento credette che suo padre fosse creditore di somme enormi verso il padrone, e ne provò uno strano smarrimento.

— Cinquecento, — disse, e questa volta si stupì nel sentirsi rispondere:

— No, no, di meno.

— Quattrocento.

— Di meno ancora. Tu fai cifre tonde! Trecento settantadue.

Antine non rispose, e anche don Elia parve imbarazzato. Solo dopo un lungo silenzio riprese a parlare, con le mani ferme sul davanzale e il capo spinto all’interno della stanza. La sua voce vibrava alquanto commossa nel silenzio sempre più intenso della notte.

— So a che cosa pensi, Antine. Tu pensi [p. 204 modifica] “a che mai gli servirà tanto denaro?„ Pensi così, non è vero?

— No, no....

— Non dirmi di no. Non esser ipocrita prima dell’ora. Che vuoi? Tu non puoi sapere come si ha acuto bisogno di denaro quando non se ne ha. Un uomo libero, d’una certa condizione, spende sempre enormemente. Tu dirai: ma come spendi? Non lo so neppur io, ma ho sempre bisogno di denaro. È una cosa così bella spendere! Si dice che io faccia debiti per le spese di città. Non è vero. Vedi, a Cagliari son vissuto un mese con cinquantacinque lire. A Napoli poi ancor meno. Con quarantacinque lire uno studente a Napoli vive da signore. Là non ti conosce nessuno, vai e ti fai la spesa, vivi modestamente e addio. Io spendo invece quando sono in paese: molti dicono che io lo faccio per far dispetto al mio tutore. Non è vero, non ci credere, caro mio. Io spendo perchè è proprio necessario spendere, perchè se tu giri tutta la Sardegna trovi che tutti i proprietari sardi spendono il doppio e il triplo delle loro rendite. Eppoi, dirai tu? Che so dirti? Io spero riavermi; vendendo i [p. 205 modifica] soli puledri pagherò tutti i miei debiti, poi piglierò una moglie ricca e poi, passata la gioventù, si cessa di spendere, si lavora, si pensa ai figli. Ma la gioventù bisogna goderla: a che altro serve la vita? Dopo tutto è una stupidaggine non godersela. Tanto, vedi, fra cinquanta, fra cento anni questa tanca apparterrà ad altri: di noi non si troveranno neppur le ossa. Può anzi benissimo darsi che ciò sia fra un anno. Godiamo dunque, spassiamoci. Io sono fatto così, sono un tipo allegro, buono in fondo, sai, buono come il pane, e non odio nessuno, neppur mio zio, per quanto si dica. Dopo tutto egli fa il suo dovere: pensandoci bene gli do ragione. Ma che vuoi? Io ho bisogno di denaro: senza denaro io non posso vivere. Cosa è un uomo senza denaro? È come un uomo che abbia le scarpe rotte: sarà il primo galantuomo del mondo, ma tutti lo disprezzano. Sai quanto ho speso in questa stupida festa di Sant’Elia? Duecento lire. Dicono che io abbia dei vizî; ma e là, in quella stupida festa, che vizî potevano esserci? Eppure ho speso tanto. Che vuoi? Quando non si ha denaro si fa di tutto per procurarsene; quando [p. 206 modifica] poi lo si ha si spende: è una cosa che sembra naturalissima, semplicissima, specialmente se si è fra la gente. Il giorno in cui io non avrò denari, son certo che andrò a gettarmi nel Tirso. E questo giorno potrebbe esser dopodomani, se domani non riuscirò a procurarmi cinquecento lire che assolutamente mi bisognano. Tu puoi procurarmele.

— Io? — disse Antine, stordito da tutte le cose udite, e che tuttavia, dette così da Elia, gli parevano naturali, vere. Ah, sì, la vita doveva esser così, non come la sua, stupida e gretta. Ah, sì, quelli erano uomini! Ed egli, egli che cosa era mai? Un uomo senza denari, sì, un uomo misero, un uomo dalle scarpe rotte. Ah, sì, quella era la vita, quello era il mistero intraveduto fra le vaporosità del solitario orizzonte.

— Sì, tu, sì, tu, non farmi lo sciocco! — proruppe l’altro audacemente, accorgendosi della sua superiorità.

— Da chi? Dal babbo mio?

— Macchè tuo padre! Se non si è lasciato commuovere da me, figurati se ascolterà te! Eppoi, a dirtela, credo che non ne abbia.... [p. 207 modifica]

Antine ebbe un fine sorriso: ora credeva invece che suo padre avesse grandi somme.

— Ma da chi allora?

— Senti, bisogna che mi spieghi. Mi sono rivolto anche a Pera. Vedi, questi vecchi sciocchi, alle volte, possono farla più che i ricchi e astuti cittadini. Io credo che in Sardegna il denaro veramente si trovi in campagna. Ma lasciamo star ciò. Pera mi ha detto che egli conosce una persona, un bandito, il quale mi favorirà di certo, ove tu lo voglia....

— Basta! Ho capito! — gridò Antine adirandosi contro zio Pera. — No, non lo farò mai!

— Non gridare, caro mio. Perchè non lo farai mai? Spiegami.

— Non lo farò.... perchè non lo farò!

— Questa non è ragione.

— Sì; è ragione, è ragione, ti dico che è ragione. Non lo farò mai, possa tu vedermi con gli occhi fuori.

— È non li porti fuori? — disse l’altro canzonando. — Dove dunque li porti? (si volse a guardarlo, e si guardarono, vagamente scorgendosi nel buio grigiastro). Vedi bene che non ragioni. Sei uno stupido. [p. 208 modifica]

— E tu sei un sacrilego.

— Macchè sacrilego d’Egitto! Sacrilegio si è quando s’adoprano cose sacre a scopo profano. Ora noi possiamo servirci d’un libro qualunque, — e già credo che tu di libri santi non ne hai; — e la tua tonaca forse è benedetta? Niente affatto: dunque sacrilegio non v’ha. Peggio per gli sciocchi e gl’ignoranti. E in questo caso saremmo noi se....

— No! no! no! non voglio, non voglio! — gemeva Antine battendo i piedi al suolo come un bimbo.

— Bene, — disse Elia con freddo disprezzo, appoggiando le mani ai due lati della finestra.

— Non arrabbiarti. Giacchè non vuoi non sarà. Tanto parlar con te è inutile, e tanto meno ragionare. Cosa mai si può parlare, — disse poi come fra sè, — con un uomo, con un giovine che si fa prete senza vocazione?

Antine sentì sbollire la sua collera, e un senso angoscioso di freddo lo assalì. Quelle parole, dette con quel tono, da quelle labbra, lo fulminavano. Le sue mani si fecero fredde, i suoi occhi videro un buio profondo. Sentì che Elia diceva la verità, ed ebbe una grande [p. 209 modifica] voglia di piangere. Elia capì d’averlo offeso: d’un balzo si ritirò dalla finestra, e fu in piedi accanto all’amico, ritti davanti a quel misterioso sfondo di notte quieta e fragrante.

— Scusami, — disse Elia con voce mutata, — io ti ho offeso. Ma tu non mi vuoi bene....

Grosse lagrime caddero dagli occhi di Antine, che si morsicò le labbra tremanti per non scoppiare in singhiozzi. No, egli non era offeso: era atterrato, era vinto.

— No, no, io.... io ti voglio bene. Sei tu che devi scusarmi.... Farò quello che vuoi.... domani, subito, quando vuoi.

L’indomani, al meriggio, fecero la cosa. Venne il bandito. Era un bandito già famoso, temuto, creduto terribile; ciò nonostante era un giovine di ventidue anni, bellissimo, simpaticissimo di viso. Aveva i capelli neri, lucidi, ritti sull’alta fronte bianca, gli occhi castanei limpidissimi, soavi, la bocca pura: era alto, snello, roseo, pulito: sembrava una bella fanciulla travestita da uomo.

Elia ed Antine lo guardarono con avida curiosità, facendogli molte domande suggestive; ma egli, se era superstizioso, non era punto [p. 210 modifica] ingenuo, e rispose canzonandoli. Non s’accorgeva però che il burlato era lui.

— Come tu puoi credere alle fatture? — gli disse Antine. — Io ritengo che il tuo archibugio potrebbe, più che altro, liberarti dal tuo nemico.

— Ma appunto il mio archibugio è legato da una fattura del mio nemico. Quante volte ho tentato spararglielo sulle reni! E sempre ha negato il colpo.

— Ma allora non potresti fartelo sciogliere?

— Potresti scioglierlo tu?

— Io non sono un negromante! — gridò Antine adirandosi. — Perchè non lo sciogliete voi, zio Pera?

— Abbiamo provato, — rispose questo con perfetta calma, fissando sull’archibugio in questione il suo occhio turchino. — Non ci è riuscito.

— Basta, — disse il bandito. — Spicciatevi perchè ho fretta.

Antine parve volersi togliere ogni scrupolo, dicendo:

— Bada però che io non son sicuro di riuscire. Non ho ancora gli ordini. [p. 211 modifica]

— Ciò non importa: siamo sicuri del fatto nostro, noi; spicciati, agnellino mio, che questo ragazzo ha fretta, — disse zio Pera.

Antine indossò la sottana, mise in testa il berretto da seminarista: sentiva una tristezza cupa, un profondo disgusto di sè stesso, e senza la presenza d’Elia si sarebbe ad ogni costo rifiutato d’eseguire il sacrilego inganno. Zio Pera chiuse la finestra. Fuori incombeva il meriggio: certi lontani lembi della tanca sembravano stagni d’oro liquefatto. Coll’ ardente profumo degli oleandri saliva un fresco gorgheggio d’uccello palustre. Antine aveva un Libro della Settimana Santa rilegato in pelle nera e col taglio rosso. Lo tirò fuori dalla valigia, mentre zio Pera si fregava un zolfanello sulla coscia per accendere un cero ritto sul tavolo; e rivolto ad Elia ed al servo disse quasi rabbiosamente:

— Uscite dunque fuori!

Elia e zio Pera usciron fuori. Il bandito si tolse la berretta: alla luce tranquilla del cero la sua bellissima testa parve quella d’una donna.

Antine aprì a caso il Libro e lesse:

“Povero son io ed in affanni sin dalla mia [p. 212 modifica] prima età: cresciuto poi fui umiliato e depresso....„

Il bandito corrugò la fronte e si battè una mano sul petto. Ah, quelle parole corrispondevano pienamente al suo pensiero!

Antine finse di continuar a leggere, ma pronunziò questi versetti combinati con Elia.

“I miei nemici mi perseguitarono e mi vinsero: ed io ero innocente. Signore, puniscila tracotanza dei miei nemici.„

— Signore, punisci la tracotanza dei miei nemici, — ripetè fra sè il bandito. Egli era in buona fede, e credeva compier opera di giustizia facendo battere a libro il suo nemico: quindi s’entusiasmava, e a misura che Antine leggeva, o fingeva di pregare in silenzio, o sollevava gli occhi al cielo, anch’egli pregava, sollevava gli occhi e si picchiava il petto col pugno.

“Come un cane arrabbiato i miei nemici mi rincorsero e mi spinsero per le campagne deserte. Ora una pietra è il mio guanciale, mio letto è la dura terra. Fino a quando durerà questa iniquità?„

“Tesero contro di me il loro arco, e mi [p. 213 modifica] lanciarono le freccie avvelenate: la loro lingua mi disse assassino, e disse che io avevo derubato il viandante e il pellegrino.„

“Solo perchè non mi diedi nelle loro mani e non ajutai le loro nefandezze. Signore, punisci la tracotanza dei miei nemici.„

“Ma il mio cuore è puro, la mia lingua ha cantato le grandezze del Signore: ed io ero innocente. Signore, punisci la tracotanza dei miei nemici.„

“E il Signore udì le mie grida, e le corna dei miei nemici si spezzarono come corna di ariete verminoso.„

A questo punto Antine chiuse il Libro e finse pregare con gli occhi sollevati: poi depose il volume sul tavolo e vi battè sopra, fortemente, le mani in croce.

Il bandito ebbe un brivido.

Antine riaprì il Libro; fingendo sempre di leggere, e non tralasciando di volger le pagine:

“Signore, ascolta la parola del tuo servo: punisci i miei nemici secondo la tua giustizia.„

— Inginocchiati, — disse al bandito. [p. 214 modifica]

Questo si inginocchiò, ma ebbe uno scrupolo e mormorò:

— Io ho molti nemici, ma è contro uno solo che voglio.... tu mi capisci....

— Bene; capisco, ma fa lo stesso.

“Punisci il mio nemico secondo la tua giustizia. Che egli abbia la casa ricolma d’ogni tuo bene e non possa mai saziarsi.„

“Che neppure le pietre possano saziarlo.„

Nuovamente chiuse il Libro: nuovo sollevamento d’occhi al cielo, nuova invocazione tacita e nuovo pugno sul libro chiuso.

Il cero mandava una lunga fiamma fumigante; il bandito provava una forte commozione.

Antine riprese la finta lettura:

“Signore, ascolta il tuo servo, ecc.

“Che l’acqua gorgogli perenne intorno alla casa del mio nemico, ed egli non possa mai dissetarsi.

“Che neppure le salate acque del mare possano dissetare il mio nemico.„

Per la terza volta chiuse e percosse il Libro. Poi lo riaperse, lesse altri cinque o sei versetti inconcludenti, prese il cero e con esso segnò una larga e lunga croce sul capo del bandito. [p. 215 modifica]

Poi disse a questo di sollevarsi. Il nemico era conciato per le feste.

Il bandito si sollevò, alquanto sorpreso, perchè credeva che toccando il libro si evocassero anche le potenze infernali. Almeno zio Pera aveva assicurato così.

In fondo rimase contento d’aversela cavata liscia; e dopo aver sborsato cinque fogli rossi, pei quali Elia gli rilasciò una larva di cambiale, se n’andò felice, sicuro d’aver assistito ad una memorabile cerimonia per la quale il suo nemico morrebbe fra poco consunto dalla fame e dalla sete.

Elia si proponeva di partir l’indomani, ma accortosi che dopo la sacrilega cerimonia Antine era caduto in profonda tristezza, rimase ancora qualche giorno per distrarlo.

— Che diavolo hai? — gli diceva fissandolo negli occhi. — Ti dispiace d’avermi favorito?

— No. Non è questo...

— Cos’è dunque?

— Non è questo, non è questo, — ripeteva Antine, ma non diceva altro.

— Vieni con me qualche giorno. [p. 216 modifica]

— Prova a chiederne il permesso a mio padre.

Elia provò, ma zio Felix non permise; e Antine rimase solo nella tanca, nell’immensa solitudine del suo cuore conturbato.

L’aria andava rinfrescandosi. Una notte piovette, e il fiume ingrossò, torbido, livido. Ma al ritorno del sole una indicibile dolcezza si stese per la tanca. Il cielo apparve alto, d’un tenero azzurro di perla: il fiume prese una trasparenza glauca di velo, di cristallo; e nell’aria spirò un soffio ineffabile, di lontane fragranze, di lontane cose, predicente le dolcezze autunnali. L’oleandro aveva sbattuto tutti i suoi petali sulle acque chiare, e s’ergeva con le acute foglie lavate dalla pioggia, scintillanti al sole; ma il mentastro fioriva ancora, dando alla brezza un irritante sapore di menta. Le vacche e le cavalle, gravi e lente, passavano lungo le rive, volgendo gli occhi al di là del fiume, alle vaporose lontananze. Durante questi giorni e nelle notti del magico plenilunio di ottobre, Antine si sentì più che mai immerso in un mare di tristezza. Si diede a studiare, cercando la solitudine, nascondendosi nei [p. 217 modifica] boschetti d’oleandri, fra l’acuto odore dei mentastri: ma lo stesso fascino della solitudine, quei sereni sfondi di paesaggio fluviale, la flautata musica degli uccelli palustri, accrescevano l’inquietudine del suo cuore. Scriveva lunghe lettere ad Elia esponendogli lo stato indeciso dell’anima sua, ma poi le lacerava, lanciandone i minutissimi pezzi nel fiume. E l’acqua tranquilla li portava via, lontano, — verso quello sfondo cerulo che struggeva l’anima di Antine, — come petali di rose bianche sfogliate. Intanto il tempo passava. Antine desiderava con ardore il ritorno a Nuoro; confusi progetti gli fermentavano nel cuore.

Negli ultimi giorni che rimase nella tanca, provò però una certa emozione; gli pareva che arriverebbe tempo in cui egli rimpiangerebbe quei giorni sereni passati nel puro incanto della tanca e del fiume, vicino al semplice affetto de’ suoi poveri parenti. Egli non aveva saputo gustare ne l’uno ne l’altro: l’ultimo anzi non aveva saputo nemmeno capirlo; però, negli ultimi giorni, s’accorse di questa sua ingratitudine e ne provò struggimento. Sentiva già uno strano rimpianto di cose [p. 218 modifica] perdute. Si riavvicinò alla semplice gente dell’ovile, giocò con Minnai, discorse con suo padre: ma neppure per un minuto gli venne in mente di confidare a quest’ultimo lo stato penoso del suo cuore.

La mattina prima di partire, zio Pera gli disse:

— Ho da parlarti a tre occhi.

Era un suo scherzo favorito; — egli almeno lo credeva uno scherzo.

— Parlate, zio Pera.

— Sai, volpicina mia, quella cosa è riuscita. Com’è contento Antonio Francesco!

— Quale cosa, zio Pera? Chi è questo Antonio Francesco?

— Bah, il bandito!

— Quella cosa è riuscita! — esclamò Antine stordito. — Ma come è riuscita? Quando?

— Pare sia riuscita subito, ma, siccome s’accorsero della fattura, volevano tenerla nascosta. Pare abbiano cercato tutti i rimedi per scongiurarla, e non vi riuscirono. Ora però hanno dovuto dichiararla. Non gli bastano le pietre, agnello mio, non gli bastano le pietre per saziarsi. Antonio Francesco ha detto che [p. 219 modifica] quando avrai gli ordini te ne darà di bei denari!

Antine cominciò a incollerirsi, ma si frenò e disse:

— Non fatemi arrabbiare, zio Pera. Lasciatemi partir tranquillo.

— Come, volpicina mia, tu non credi che la cosa sia riuscita? Eppure è vero, come è vero che io ho un occhio sì e uno no! Anzi, senti. Ecco ciò che volevo dirti a tre occhi....

Tacque, grattandosi il naso, non trovando parole. La cosa doveva esser enorme se lo imbarazzava.

— Cosa c’è? — gridò Antine.

— Ebbene, senti, agnellino mio, non arrabbiarti, la cosa è vera, tanto vera che.... senti, m’è venuta una persona, la quale mi disse: è stata fatta qui la magia? — Come, — grido io, — cosa dici tu, cane rognoso? Qui c’è solo un’anima innocente. — Eppure, — dice quello, — deve essere stata fatta qui, e l’uomo toccato a libro è disposto a dar duecento scudi purchè chi l’ha fatta la sciolga. Ora, agnello mio, fa quello che credi....

— Ah, zio Pera, voi volete rovinarmi, — [p. 220 modifica] urlò Antine paonazzo. — Uscitemi di tra i piedi, andate al diavolo, altrimenti non rispondo di me stesso.

— Vedi, bellino, è inutile arrabbiarti. Invece di rallegrarti! Antonio Francesco è disposto però a darti di più, purchè non la sciolga, piccola faina.

— Andatevene dunque! — gridò l’altro, con gli occhi verdi d’ira, afferrando ciecamente un libro.

Zio Pera se n’andò; e pensava:

— Quel ragazzo non ha la testa a posto. Vedrete che prete non si farà, no, no, no. Lo so io: è uno sciocco. Suo padre è astuto, che una palla gli trapassi il garretto, è astuto come una vecchia volpe, ma quello che sogna non gli riuscirà.

Durante il viaggio e nel suo paese, Antine s’informò prudentemente se davvero il nemico di Antonio Francesco era malato. Pareva di sì, tutti almeno l’affermavano. Antine ne restò sorpreso, addolorato; e solo dopo molti anni seppe che il nemico, avendo saputo che Anton Francesco lo aveva fatto toccar a libro, s’era finto ammalato per sfuggire le altre vendette del bandito. [p. 221 modifica]



Veniva la primavera. La tanca era tutta coperta d’un tenero verde; le acque del fiume prendevano una soave trasparenza celeste. Il sambuco cominciava a spandere la delicata fragranza dei suoi fiori di cera. I nuovi vitellini dal muso roseo e dalle orecchie forate, saltellavano fra l’erba.

Fu in quel tempo soave, mentre era sopracaricato dai lavori dell’ovile, che zio Felix ricevette brutte notizie di Antine. Già questo era da molto che non scriveva: solo nella settimana santa aveva mandato palme benedette, con le quali zio Felix, Minnai e gli altri dell’ovile s’erano ricamati croci nell’interno delle vesti, e formati anelli, crocette e amuleti.

Un fratello di zio Felix portò a questo una lettera del Rettore del Seminario, indirizzata al parroco di Ottana. Zio Felix si sentì tremare il cuore: qualche grave disgrazia doveva esser accaduta.

Il fratello gli lesse la lettera, a poco a poco, sillabando:

“....Venendo ora al suo protetto Costantino [p. 222 modifica] Nurroi, sono dolentissimo darle di questo gravi e cattive notizie. Mentre negli anni scorsi dava di sè le più belle speranze, tanto che Monsignor Vescovo, come già ebbi l’onore di scriverle, intendeva concedergli presto l’intera piazza gratuita....„

— Monsignore intende concedergli il posto gratuito.... Vuol dire questo? — domandò zio Felix, che ascoltava col fiato sospeso.

— Vuol dir questo; ma aspetta, aspetta. C’è ben altro, — rispose grave il fratello. E riprese la lettura:

“.... intera piazza gratuita, quest’anno fa assolutamente disperare di lui. Ha più volte espresso intenzione, coi compagni, di non proseguire gli studi ecclesiastici; gli si sequestrarono più volte libri profani, ed ora ultimamente una lettera firmata “Elia„ nella quale si dice che un certo Anton Francesco è disposto versare la somma richiesta. “Con questa, — dice la lettera sequestrata, — tu puoi benissimo liberarti da questa odiosa catena e imprendere studi liberi che ti portino verso gl’ideali che desideri„. La lettera inoltre annunzia la prossima venuta a Nuoro di questo signor Elia. [p. 223 modifica] Ho quindi ritenuto urgente, reverendissimo signor Parroco, d’informarla. Prenda coi parenti del Costantino Nurroi i provvedimenti necessari, ecc. ecc.„

— Hai compreso bene, Felix, fratello mio? — chiese il paesano, fissando il volto sbiancato del povero uomo.

— Rileggi bene, spiegami bene ogni parola, fa questa carità, — disse zio Felix. Egli aveva benissimo compreso, ma non voleva ancora credere ai suoi orecchi.

L’altro rilesse lentamente, traducendo anzi in dialetto certe frasi; nel frattempo zio Felix si toglieva e rimetteva gli occhiali, diventando sempre più pallido e con le labbra cenerine. Sentiva mancarsi gli spiriti vitali, e non si faceva alcuna illusione. Antine era perduto.

— Io vado subito a Nuoro, — disse, — tu rimani qui, fratello mio; fa questa carità per amor di Dio.

Sellò il cavallo, partì subito; e sperava ridurre Antine a più savi consigli, ma in fondo gli persisteva la persuasione che tutto era perduto. Infatti un’ora dopo suo fratello lo vide tornare a spron battuto, più morto che vivo. [p. 224 modifica] Per istrada gli avevano consegnato una lettera di Antine. Egli non poteva leggerla, ma sentiva che dentro quella busta c’era un’immane sciagura. E c’era infatti.

Antine era scappato dal Seminario e da Nuoro. Le poche righe febbrilmente tracciate dicevano così:

“Caro padre, quando riceverete la presente io sarò lontano da qui e da Nuoro. Perdonate l’immenso dolore che vi dò: ma questo risparmierà altri dolori più gravi che potrei darvi in avvenire, se continuassi in questa via per la quale non son chiamato. La mia decisione era presa da molto tempo, ma non osai aprirmi con voi perchè, fisso come siete nella vostra idea, non mi avreste compreso. Non crediate ch’io vada a correre il mondo. Vado a studiare, a farmi uomo, e un giorno spero ricompensarvi di quanto avete fatto per me, nonchè del dolore che oggi vi dò. Don Elia, che mi ama come un fratello, e che — forse lo sapete, — è stato il primo ad aprirmi gli occhi, ha promesso ajutarmi negli studi.

“Addio, addio, caro padre; vi scriverò meglio appena sarò sistemato nella nuova [p. 225 modifica]

residenza. So che la legge mi sottomette ancora a voi. E voi fate quel che volete; ma credo che voi non mi farete un torto, ma quando anche vorreste farmelo, devo dirvi che nulla potrà costringermi a scegliere una carriera per la quale non ho vocazione. Perdonatemi dunque, caro padre, salutate Minnai, e credete sempre all’affetto e al rispetto del vostro infelice

Costantino.„

Zio Felix capì che nulla c’era più da fare; il fulmine era completo. Nonostante tutto il suo timor di Dio, s’abbandonò ad un eccesso di disperazione. Si gettò per terra, si strappò i capelli e le vesti, gridò, gemette. E subito gli spuntò in cuore un feroce odio contro Elia, causa d’ogni disgrazia.

— Perchè gridi, fratello mio; stupido, perchè ti tiri i capelli? — gli diceva il fratello, cercando rialzarlo. — Non ci voglion grida, non ci voglion pianti da femminuccia. Alzati, va! Io lo inseguirei, lo farei arrestare, lo legherei come un cane.

— L’anima non si lega! — rispose piangendo il povero uomo. E a poco a poco riprese tutto il suo buon senso, la sua semplice saviezza. [p. 226 modifica] Si calmò, e poichè non poteva sottomettere l’anima del figliuolo, rinunziò anche agli altri suoi diritti. Anzi si pentì del suo eccesso di disperazione: gli parve aver fatto atto di ribellione contro gl’imperscrutabili voleri del Signore, — ma nell’anima gli rimase un dolore senza misura, e l’odio feroce verso Elia.

— Io l’ammazzerei, io gli farei uscir le viscere per il cranio, — diceva il fratello, — io gli trapasserei le reni con la mia leppa a quel cavaliere asino, a quella bestia senza corna!

Zio Felix taceva; ma nel profondo del suo cuore una voce gli gridava come l’eco:

— Io l’ammazzerei, io gli farei uscire le viscere per il cranio....

Cominciò una vita terribile. Sentiva che se Elia tornava nella tanca, egli l’avrebbe assassinato, ma il timor di Dio, che ancora gli regnava nell’anima straziata, lo faceva piangere sul suo odio e sopra i suoi istinti di vendetta. Ma la vendetta era l’unica cosa che ancor lo teneva vivo: tutto il resto era perduto. La vista di Minnai, con quei grandi occhi inconsci e ridenti, aumentava il suo affanno. Gli metteva le mani sul capo e diceva: [p. 227 modifica]

— Che possono farmene di te? Tu non puoi rimediare al male. Tu sei come il puleggio che fiorisce e si dissecca inutilmente. Che possono farmene di te?

Passò il tempo. Antine scrisse, ma zio Felix sbranò la lettera con fredda ira. Poi, al solito, si pentì del suo atto violento. Chi sa, — pensava, — forse egli è pentito: eppoi il Signore comanda il perdono.

Ah, il perdono! Ma egli non poteva perdonare, non solo, ma col tempo il suo odio si spandeva come macchia d’olio. Odiava il padrone e i suoi beni, la tanca ed i servi. Specialmente zio Pera gli destava una collera muta e fiera. Ogni volta che scendeva all’ovile — il vecchio ladro! — guardava intorno con aria beffarda, col suo occhio fisso e maligno. E diceva:

— Te l’avevo detto io, vecchia volpe, che tuo figlio si sarebbe fatto prete quando il nibbio avrebbe tessuto orbace! Che il diavolo ti cavalchi, la tua astuzia non è riuscita!

Che astuzia? Che cosa aveva detto egli, l’orbo maligno? Zio Felix si sentiva assaltato come da un cane arrabbiato che gli mordeva la gola: [p. 228 modifica] le membra gli tremavano d’ira, ma aveva la forza di dominarsi, e taceva e s’allontanava singhiozzando senza lagrimare. Antine scrisse ancora. Zio Felix, che attendeva quella lettera con una stolta speranza in cuore, se la fece leggere; ma Antine diceva esser contento della sua nuova vita; studiava e chiedeva nuovamente perdono.

Anche questa lettera fu sbranata, e poi un’altra e poi un’altra ancora. Allora egli non scrisse più.

Zio Felix sentì che suo figlio era completamente perduto per lui, e si trovò più che mai infelice.

Fece un pellegrinaggio, scalzo e a testa nuda, fino alla chiesetta di San Costantino, sita sui monti ove la sera il sole spariva come un enorme diamante.

— San Costantino, ridonatemi pace. Io sono un gran peccatore: pregate per me presso il trono del Signore. Strappatemi dal cuore questa spina: verrò ogni anno scalzo, a testa nuda, trascinando la lingua per terra.

Salì tre volte la chiesa trascinandosi sui ginocchi: il piccolo San Costantino, bruno e con [p. 229 modifica] le labbra grosse, guardava dall’alto, ma non udiva la preghiera di zio Felix.

Questo tornò all’ovile come v’era partito, con l’odio e il desiderio di vendetta nel cuore. Al solo pensare ad Elia, e ai denari che questo gli doveva, si sentiva tremare e non ci vedeva più.

Mai, in tutta la sua vita, aveva provato una cosa simile. Era un fuoco interno che lo distruggeva. Si sarebbe detto che il focolare delle passioni, sin’allora spento in quell’anima timorata di Dio, divampasse tutto in una volta, accumulando la sua forza nel solo odio.

Zio Felix credeva che il demonio, sin allora vinto, ora lo dominasse vincitore, sfogando tutta la sua iniquità. E si disperava, vedendo l’inutilità del bene fino allora compiuto, ma non tralasciava di lottare.

Aspettava la venuta d’Elia con l’ansia sanguinaria d’un cacciatore alla posta: intanto però continuava nei suoi doveri di servo fedele. Gli altri rubavano come gatti affamati: egli gridava, si procurava la loro malevolenza per difendere gl’interessi del padrone, e vigilava anche su zio Pera. [p. 230 modifica]

— Puh, gli diceva questo, sputandolo, — per quello che i padroni ti hanno fatto, volpe rognosa!

— Non t’importi di quello che i padroni mi hanno fatto! Fa il tuo dovere!

— Lo faccio, sicuro, e non è il mio dovere che faccio! Sei tu, agnello mio, che non hai mai saputo far il tuo, che l’aquila ti cavi un occhio!

— Per ora sei tu che ne hai uno solo.

— Meglio uno buono che quattro cattivi. — Accennava agli occhiali di zio Felix: e questo se ne andava per non proseguire il diverbio.

Il tempo passava: Antine taceva. Ma una volta Tanu dovette andare a Cagliari per testimonio, e lo vide e gli parlò. Portò all’ovile cattive notizie.

— Non ha denari: il padrone non gliene manda più. Pare che non ne abbia neppure per lui, perchè nessuno gliene vuol prestare. Antine vive a stecchetto: forse ha più fame che appetito. Dice che si farà soldato. Ha perduto i colori, sapete, zio Felix; eppure Cagliari è la più bella città del mondo.... ah, se vedeste! [p. 231 modifica]

— Che c’entrano i colori con la città! — disse il compagno. — Se uno ha fame non basta che veda una bella città per non esser pallido.

— Eppure, vedete, Cagliari è così bella che io non sentivo fame. Il mare....

— Macchè mare d’Egitto! Io dico che tu avevi mangiato. Se uno ha fame, anche se vede il Cielo, io dico che sente fame. Cosa dite voi, zio Felix?...

— Tu sei invidioso, perchè non vedrai mai una città! — disse Tanu.

Zio Felix ascoltava triste e silenzioso: in fondo al cuore, però, gli rinasceva una cara speranza.

Per tutto l’inverno, — giacchè era d’inverno, — mentre Tanu raccontava le meraviglie della città, egli accarezzava la cara speranza. Sempre che vedeva arrivar un uomo dal paese, lo guardava avidamente, se mai aveva qualche lettera, e si sentiva battere il cuore.

Ma venne la primavera e la lettera non giunse. Solo sul finire di maggio, poco più d’un anno dopo la fuga d’Antine, questo scrisse annunziando che si faceva soldato. [p. 232 modifica]

“Ho preso la ferma per cinque anni, — diceva, — e così diventerò sergente o furiere, e poi, se non mi piacerà seguir la carriera, avrò un posto governativo. È una cosa modesta.... e non è questo che io sognavo, ma ad ogni modo sono contento d’aver deciso il mio destino.

“Addio, caro padre, voi non mi volete perdonare, ma io ho già scontato il dolore che vi ho dato, e non mi stanco di chiedere il vostro perdono.„

Tutto oramai era perduto, senza alcuna speranza.

Zio Felix non disse nulla, ma sollevò sulla fronte gli occhiali, e stette a guardar la lettera coi piccoli occhi rossi che sembravano di vetro.

E il tempo continuò a passare. Antine scriveva di tanto in tanto: le sue lettere si facevano sempre più tristi, quasi disperate. Egli sentiva la nostalgia della patria e della dolce vita passata: era venuto il tempo presentito negli ultimi giorni passati nella tanca. Ma giammai accennava a pentirsi, a ritornare sui suoi passi: anzi desiderava ardentemente terminar la ferma per incominciarne un’altra, e [p. 233 modifica] sognava la guerra per avanzare o morire... Il suo carattere, però, s’era sviluppato alla scuola del dolore; e se non altro egli accennava a diventar un galantuomo.

Zio Basilio, il fratello di zio Felix, portava e leggeva queste lettere e ogni volta s’abbandonava a commenti crudeli.

— Lo vedi il castigo di Dio, fratello mio? Ora piange, la piccola bestia cornuta, ora si pente! Ben gli sta, ben gli sta! Che Dio lo castighi sempre più, il fuggitivo, il vigliacco, il disonore della stirpe! Che tutte le palle del Re gli trapassino il cuore!

— Ora avrebbe cominciato ad aver gli ordini, — diceva con amarezza zio Felix, — fra poco sarebbe stato sacerdote, e poi parroco e poi.... Gli avrebbero regalato anfore di vino turate con rose, e grano, e miele, e pollastre bianche con nastri di scarlatto. Lo sciocco, lo sciocco, che ha disprezzato la sua fortuna!

— Iddio ti paga, fratello mio, — urlava zio Basilio, raschiando ferocemente, — ma questo è nulla, in confronto alle altre paghe che ti darà il Signore. Accennava a don Elia, i cui affari, si diceva, andavano di male in peggio. [p. 234 modifica]

Gli occhi vitrei di zio Felix scintillavano, e una voce dentro gli gridava:

— E se il Signore non mi paga, saprò pagarmi ben io.

Zio Basilio tornava in paese, e ogni mese spediva segretamente due lire al nipote.



In agosto, tre anni circa dopo la sua ultima venuta, don Elia tornò nelle sue tancas. Era maggiorenne, libero, rovinato. I cavalli e i puledri erano spariti dalle tancas, un sequestro gravava sulle vacche: fra un mese dovevano esser messe all’asta anche le tanche. Egli era sempre bello, bianco, col volto adolescente: solo gli occhi erano un po’ infossati. E vestiva un po’ goffamente, di fustagno oscuro. Zio Pera l’informò subito dei feroci propositi che Felix Nurroi nutriva contro di lui.

— Non fidarti, — gli disse, — non fidarti, piccolo cavaliere. Se ti fidi, egli ti schiaccierà come una lucertola. Una notte, senti, son sceso laggiù; egli stava sotto un oleandro e parlava fra sè. Diceva: lo ucciderò, lo ammazzerò, [p. 235 modifica] fatemelo venir qui, Sant’Elia! — Vedi bene, fiorellino mio, egli ti odia anche nel sonno. È feroce, sai; ha in tasca un coltello lungo così. Non fidarti, piccolo giglio, dà retta a zio Pera.

Elia lo lasciò dire. Un sorriso vago, triste, gli errava sulle labbra ancor fresche ma pallide. Coi gomiti appoggiati sul davanzal corroso della finestra, davanti alla quale, in una notte lontana, aveva veduto piangere il povero Costantino, egli guardava verso il fiume, con gli occhi affascinati dalla luminosità dell’acqua riflettente il cielo grigio-perla. A che pensava egli? Quali visioni attraversavano quei puri occhi che non avevano mai pianto; quali pensieri correvano dietro quella, pura fronte che non s’era mai curvata sotto l’ombra del dolore?

Zio Pera lo fissava col suo occhio metallico e continuava a parlargli; nessuna risposta però, gli giungeva. Dovette andarsene via, scuotendo il capo e torcendo il collo. E pensava:

— È muto come una lumaca. Cattivo segno. Quel ragazzo guarda il fiume, quel ragazzo si ammazzerà, che Dio mi restituisca l’altr’occhio!

Zio Pera era un terribile profeta. Elia [p. 236 modifica] pensava appunto alla morte, e una sera scese verso il fiume.

Zio Felix lo vide dall’apertura della capanna, e un tremito gli percorse le reni. Da quattro giorni che Elia era giunto, egli non l’aveva ancora veduto: aveva però sentito la sua presenza, e da quattro giorni egli non beveva, non mangiava, non parlava, nè dormiva. Di giorno aspettava con angoscia il momento nel quale Elia sarebbe comparso, e non osava muoversi dai dintorni dell’ovile: di notte saliva sino alla cinta sempre più rovinata del frutteto, e s’aggirava intorno alla casa come un cinghiale affamato. Qualche cosa di terribile, — il demonio, pensava egli, — lo spingeva e lo incalzava. Senza la presenza di zio Pera nella casa, egli sentiva che sarebbe penetrato fin là dentro, per compiervi un delitto.

Tutti gli spasimi dell’inferno lo dilaniavano. Perchè in fondo all’anima egli desiderava vincer la sua passione, e non uccidere e non dannarsi. Ma non poteva vincer la potenza infernale che lo dominava; sentiva che giunto il momento fatale avrebbe sgozzato Elia come un agnello. Vedendolo attraversar la tanca, si slanciò fuori [p. 237 modifica] della capanna. Dopo il primo fremito sentì una calma strana, un sangue freddo peggiore d’ogni ira. Pensò:

— Egli va verso il fiume, va a bagnarsi. Il miserabile vuol spassarsi ancora: te lo darò io lo spasso. Aspetterò che tu ti svesta, che tu sii ignudo come il giorno che nascesti. Ti immergerò il coltello fra le costole e ti getterò nel fiume.

E camminò cauto, andandogli dietro a discreta distanza; — con la mano in saccoccia palpava il coltello da tanto tempo affilato. Ogni lotta era cessata; egli non sentiva battersi il cuore, come non sentiva il mazzo di reliquie che gli pungevano il petto, come non ricordava che era vissuto più di cinquant’anni in preghiere per salvarsi l’anima. Il demonio lo trasportava.

Elias andava dritto verso il fiume, senza fermarsi nè volgersi. L’acqua lo chiamava, lo voleva, scintillante fra gli oleandri fioriti come una enorme e attorta collana di brillanti, come un grande occhio perlaceo pieno di fascini fatali. Laggiù, in quel bianco splendore, nella quiete delle rive petrose e marmoree, fiorite [p. 238 modifica] di mentastri, fra gli oleandri slanciati nell’aria pura, che offrivano alle serene altezze del cielo i loro mazzi di rose amare, laggiù era la pace, l’oblio, il sogno lungamente inseguito. Gli uccelli palustri, nascosti nella profondità delle umide macchie, ripetevano il gorgoglio dell’acqua, il susurro de’ giunchi scossi dal vento. Era la voce perlata d’una sirena che chiamava, che incantava; che assopiva ogni dolore, ogni ricordo, ogni rimorso, in un sogno profondo e chiaro come le acque del fiume.

Elia giunse fra gli oleandri, ma invece di spogliarsi, zio Felix lo vide fermarsi un momento e poi volgersi di fianco e costeggiare il fiume.

— Che egli non si bagni? — pensò contrariato. — Fra poco l’acqua sarà fredda.

Il sole era tramontato; lo splendore aranciato rosso del cielo si rifletteva sulla riva occidentale del fiume. Elia appariva e spariva fra gli oleandri; a un certo punto, dove l’acqua era più profonda, si fermò. Zio Felix era distante poco più di dieci metri, nascosto in una macchia di mentastri e sambuchi: attraverso, gli occhiali, che ardevano riflettendo l’oro roseo [p. 239 modifica] del cielo, egli vedeva la snella figura di Elia ritto sulla riva bianca, in quel punto deserta di vegetazione, e aspettava di vederlo a muover le mani per togliersi il cappello e poi slacciarsi i stivali e le vesti.

Elia si tolse infatti il cappello e lo lasciò cader per terra. Allora il cuore di zio Felix ricominciò a battere, irregolare, quasi convulso. In un attimo pensò mille cose, rivisse in quei lunghi due anni d’odio e d’angoscia. E gridò fra sè:

— Devo ammazzarlo? Colpirà bene il coltello? Sant’Elia ajutatemi!

Ma tosto ebbe orrore della sua invocazione: poi, ancor prima che quest’orrore svanisse, provò una intensa meraviglia e un intenso sentimento di gioia malvagia.

Elia s’era inoltrato e slanciato vestito nell’acqua. Un gorgo luminoso erasi aperto al di sopra del suo corpo, poi s’era chiuso e trasformato in una ruota, in un infinito ondular di cerchi via via degradanti per la turbata superficie dell’acqua.

— Il Signore mi ha vendicato! — disse tra sè zio Felix, ancor pieno di sorpresa. Ma [p. 240 modifica] improvvisamente, quasi il nome del Signore destasse mille echi sopiti nel profondo dell’anima, egli sentì la sua cattiva gioia cambiarsi in rimorso e la meraviglia in pietà. Tutti i suoi pensieri si confusero, il fiume, il cielo, la terra, ogni cosa gli parve ancor più velata e bruna, del come solitamente, attraverso i vetri neri degli occhiali, gli appariva. E fra questo improvviso turbamento di pensieri e di cose, vide chiari gli occhi celesti e sorridenti del suo innocente Minnai. Li vide in realtà o in visione? Non si sa; ma appena li vide sentì non solo accrescersi quell’arcano senso di rimorso e di pietà, ma ebbe una forte paura di aver lasciato correr troppo tempo senza muoversi. E tosta si tolse gli occhiali, le scarpe, il gabbano, tutte le vesti; e col solo mazzo di reliquie pendenti sul petto ignudo, si mise a correre sulle pietre levigate della riva, e si slanciò nell’acqua, sul preciso punto ov’era scomparso il suo nemico, tremando per la paura di non salvarlo a tempo.



Note

  1. «Di ottanta due messe che avevi,
    Una sola ne hai ora, e quando l’hai.»
  2. Diminutivo di Pera, Pietro; — Antine, Costantino; — Tanu, Sebastiano; — Felix, Felice; — Minnai, Antonmaria.
  3. Sant’Elia e Santa Barbara.