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Levia Gravia/Congedo

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Congedo

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Levia Gravia Libro I
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I

CONGEDO


Come tra ’l gelo antico
S’affaccia la vïola e disasconde
Sua parvola beltà pur de l’odore;
4Come a l’albergo amico
Co ’l vento ch’apre le novelle fronde
La rondinella torna ed a l’amore;
Rifiorirmi nel core
8Sento de i carmi e de gli error la fede;
Animoso già riede
De le imagini il vol, riede l’ardore
Su l’ingegno risorto; e il mondo in tanto
12Chiede al mio petto ancor palpiti e canto.

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Luce di poesia,
Luce d’amor che la mente saluti,
Su l’ali de la vita anco s’aderge
16A te l’anima mia,
Anco la nube de’ suoi giorni muti
Nel bel sereno tuo purga e deterge:
Al sol cosí che asperge
20Lieto la stanza d’improvviso lume
Sorride da le piume
L’infermo e ’l sitibondo occhio v’immerge
Sin che gli basta la pupilla stanca
24A i color de la vita, e si rinfranca.

Quale nel cor mal vivo
Dolore io chiusi, poi che la minaccia
Del tuo sparir sostenni, e quante pene!
28Tal del seguace rivo
A poco a poco inaridir la traccia
L’arabo vede tra le mute arene,
E sente entro le vene
32L’arsura infurïar, e mira, ahi senso
Spaventoso ed immenso!,
Oltre il vol del pensiero e de la spene
SpazÏare silente e fiammeggiante
36Il ciel di sopra e ’l gran deserto innante.

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E giace, e il capo asconde
Nel manto, come a sé voglia coprire
La vista, che il circonda, de la morte:
40E il vento le profonde
Sabbie rimove e ne le orrende spire
Par che sepolcro al corpo vivo apporte.
I figli e la consorte
44Ei pensa, ch’escon de le patrie ville
Con vigili pupille
Del suo ritorno ad esplorar le scorte,
E in ogni suono, ch’a l’orecchio lasso
48Vien, de’ noti cammelli odono il passo.

Or mi rilevo, o bella
Luce, ne’ raggi tuoi con quel desío
Ond’elitroprio s’accompagna al sole.
52Ma de l’età novella
Ove i dolci consorti ed ove il pio
Vólto e l’amico riso e le parole?
Come bell’arbor suole
56Ch’è dal turbin percosso innanzi il verno,
Tu, mio fratello, eterno
Mio sospiro e dolor, cadesti. Sole,
Lungi al pianto del padre, or tien la fossa
60Pur le speranze de l’amico e l’ossa.

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O ad ogni bene accesa
Anima schiva, e tu lenta languisti
Da l’acre ver consunta e non ferita:
64Tua gentilezza intesa
Al reo mondo non fu, ché la vestisti
Di sorriso e disdegno; e sei partita.
Con voi la miglior vita
68Dileguossi, ahi per sempre!, anime care;
Qual di turbato mare
Tra i nembi sfugge e di splendor vestita
Par da l’occiduo sol la costa verde
72A chi la muta con l’esilio e perde.1

Dunque se i primi inganni
M’abbandonaro inerme al tempo e al vero,
Musa, il divin tuo riso a me che vale?
76Altri e fidenti vanni,
Altro e indomito al dubbio ingegno altero
Vorriasi a te seguir, bella immortale,
Quand’apri ardente l’ale
80Vèr’l’infinito che ti splende in vista:
A me l’anima è trista:
Perdesi l’inno mio nel vuoto, quale
Per gli silenzi de la notte arcana
84Canto di peregrin che s’allontana.

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Ma no: dovunque suona
In voce di dolor l’umano accento
Accuse in faccia del divin creato,
88E a l’uom l’uom non perdona,
E l’ignominia del fraterno armento
È ludibrio di pochi, è rio mercato,
E con viso larvato
92Di diritto la forza il campo tiene
E l’inganno d’oscene
Sacerdotali bende incamuffato,
Ivi gli amici nostri, ivi i fratelli.
96Intuona, o musa mia, gl’inni novelli.

Addio, serena etate,
Che di forme e di suoni il cor s’appaga;
O primavera de la vita, addio!
100Ad altri le beate
Visïoni e la gloria, e a l’ ombra vaga
De’ boschetti posare appresso il rio,
E co ’l queto desio
104Far di sé specchio queto al mondo intero:
Noi per aspro sentiero
Amore ed odio incalza austero e pio,
A noi fra i tormentati or convien ire
108Tesoreggiando le vendette e l’ire.

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Musa, e non vedi quanto
Tuon di dolor s’accoglie e qual di sangue
Tinta di terra al ciel nube procede?
112Di madri umane è pianto
Cui su l’esausta poppa il figlio langue;
Strido è di pargoletti, e del pan chiede:
È sospir di chi cede
116Vinto e in mezzo a la grave opera cade,
Di vergin che onestade
Muta co ’l vitto; e di chi piú non crede
E disperato nel delitto irrompe
120È grido, o cielo, e i tuoi seren corrompe.

Che mormora quel gregge
Di beati a cui soli il ciel sorride
E fiorisce la terra e ondeggia il mare?
124Di qual divina legge
S’arma egli dunque e che decreti incide
A schermir le crudeli opere avare?
Odo il tuono mugghiare
128Su ne le nubi, e freddo il vento spira.
Del turbine ne l’ira
E tra i folgori è dolce, inni, volare.
L’umana libertà già move l’armi:
132Risorgi, o musa, e trombe siano i carmi.

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Canzon mia, che dicesti?
Troppo è gran vanto a sí debili tempre:
Torniam ne l’ombra a disperar per sempre.




Note

  1. [p. 395 modifica]Alla buona ed onorata memoria di G. T. Gargani, nato in Firenze il 12 febbraio 1834, morto in Faenza il 29 marzo 1862.