Lezioni accademiche/Lezione seconda

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Della Forza della Percossa.
Lezione seconda

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Della Forza della Percossa.
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DELLA FORZA

DELLA PERCOSSA

LEZIONE SECONDA.

S’
Egli è vero il detto del Filosofo, che quelle operazioni della natura, delle quali non sappiamo le cause, si stimano miracoli, miracoli più maravigliosi d’ogni altro dovranno stimarsi gli effetti di quella facoltà, che universalmente si chiama Meccanica. Maravigliosi dico, Serenissimo Principe, Degnissimo Arciconsolo, Virtuosissimi Accademici, non solo per l’operazioni stupende che fanno, ma anco per l’occultazione delle cause onde derivano. La Libra, la Leva, e l’Argano sono macchine già note al mondo, e divulgate nel teatro della fama colle dimostrazioni del sapiente di Siracusa. Ma la Vite, il Cuneo, i Piani inclinati, e forse anco le Taglie, si vedono sopra i libri de i Filosofi, e de i Mattematici piuttosto dichiarate con discorsi, che dimostrate con ragioni. La forza poi della Percossa (sopra la quale faremo questo discorso) porta a mio giudizio nella scena delle maraviglie la corona del principato. Questa per esser la più efficace fra tutte le invenzioni della Meccanica, è forse il più recondito, e il più astruso fra tutti gli arcani della Natura. Se la fortuna non avesse invidiato la gloria di questo scoprimento al nostro secolo, già era [p. 4 modifica]certo, che il famosissimo Galileo lavorava questa gioja per arricchirne il monile della Toscana Filosofia. Molte cose nondimeno da’ suoi scritti, e da’ suoi ragionamenti familiari si raccoglievano intorno alla Percossa; e due fra l’altre, cioè una l’esperienza di certi archi con cui s’ingegnava di dimostrare l’immensità di detta forza; l’altra erano gli epiteti iperbolici co’ quali dava manifestamente a divedere, ch’egli avesse fermo concetto nell’animo, che la forza della Percossa fosse infinita. Io mosso dalla curiosità della materia, anderò colla tardità del mio ingegno rintracciando qualche vestigio di questa cognizione, preso il medesimo tema del sagacissimo Vecchio, cioè CHE L’ENERGIA DELLA PERCOSSA DEBBA ESSERE INFINITA. E per segno d’obbedienza, e di devozione esporrò oggi questi pensieri al purgatissimo giudizio di così dotta Accademia, tanto più volentieri, quant’io mi persuado, che anco l’istesso Galileo s’appagherebbe piuttosto di questa sola udienza, che di publicare i frammenti de’ rimasi suoi scritti.

Sottopongasi alla nostra contemplazione una tavola di marmo, la quale per essere spezzata, senza forza di percossa alcuna, ricerchi d’aver sopra di se un grave quiescente, che pesi non meno di mille libbre. Se un’altro grave che pesi solamente libbre cento, sarà posto quiescente sopra la medesima tavola, non avrà per certo forza tale, che sia bastante per romperla; poiche a questo effetto vi vogliono non cento, ma mille libbre di peso, come supponemmo. È dunque manifesto, che il momento, o vogliamo dire attività di cotal grave, per rompere il piano sottoposto, per se solo sarebbe come nulla. Non si nega, che il momento di tal grave non sia cento libbre com’egli è, e che multiplicato non possa romper la tavola; anzi s’afferma ch’egli è cento libbre, e che con questo momento di libbre cento, gravita egli non solamente adesso, ma graviterà sempre uniformemente sopra il piano a lui sottoposto; in tal maniera però, che in ciascuno istante del tempo che continuamente scorre, egli và facendo la sua violenza solamente di cento libbre per volta, alla tavola di marmo. Che ciò sia vero, si può considerare l’istesso grave posto sopra la bilancia; credo che ognuno concederà, che in qualunque occhiata io riguarderò detto grave, in quella stessa occhiata egli [p. 5 modifica]gravita colla sua forza totale di cento libbre, ne più ne meno. E se alcuno se lo ponesse sopra di una mano, proverà che non passa giammai alcuno istante di tempo, che in esso il grave non generi, per così dire, una premuta verso il centro della terra con forza di libbre cento. Dall’altra parte poi il marmo sottoposto, in ciascuno istante del tempo che corre, va continuamente corrispondendo al grave premente con momento di resistenza, non come cento, ma come mille. Quindi è, che se noi coll’imaginazione segneremo nel tempo corrente qualsivoglia istante, sempre troveremo, che in quell’istante segnato, si fa un contrasto disuguale, tra una forza di cento, e una repugnanza di mille; adunque ancorche il grave posasse, e premesse eternamente sopra il marmo, non farà mai cosa alcuna, quanto a romperlo, più di quel tanto, che egli fece nel primo punto del tempo, che vi fu posato sopra. Immaginiamoci, e serva per esempio, che in questa stanza sieno trenta uomini, i quali con tutta la lor forza, tengano unitamente il capo d’un’Asta, e che per quella strada là fuori, passino in ordinanza tutti gli uomini dell’Europa uno dopo l’altro, ma però in tal modo, che un solo per volta nel passare, dia una stratta all’altro capo dell’Asta. Certa cosa è, che non solo tutti i popoli dell’Europa, ma ne anco tutte le generazioni de’ secoli, sarebbero giammai bastanti a forzare noi trenta, sicche ci muovessimo ne pure un passo dalla nostra primiera positura. E di ciò la cagione è manifestissima, mentre quelli vanno applicando le lor forze uno per volta, noi siamo sempre trenta contro uno, tutti uniti a far loro resistenza. Notisi solamente questo a proposito per i momenti della gravità; che quando passa il secondo traente per la strada, e collo sforzo suo dà il tratto all’Asta, la forza che prima di lui aveva fatta il suo antecessore, non è più d’alcun giovamento a lui, e nell’istesso modo lo sforzo, che fa egli, non ajuterà punto il suo successore. Ma ritorniamo al grave quiescente, che sia, per esempio, una palla, la quale con forza di cento libbre prema continuamente sopra la tavola del marmo sottoposto: benche il momento per se stesso della palla pesante, che è cento libbre, operando sempre solitariamente senza moltiplicarsi, non basti a superar l’impedimento della tavola, che è come mille, ne anco in tempo infi[p. 6 modifica]nito; e se noi pigliassimo dieci palle eguali ad essa tutte insieme, ovvero se noi potessimo racchiudere in una sola tutta la virtù, e tutta l’attività delle dette dieci palle, averemmo una forza di mille libbre unite insieme, e sarebbe appunto tale, che posandola sopra quel marmo (la cui resistenza supponemmo, che fosse superabile da mille libbre) esso marmo resterebbe rotto. Ora senza multiplicar la materia, io credo che moltiplicandosi il tempo produttore de’ momenti, ed insieme trovando qualche modo di conservare i momenti prodotti dal tempo, noi avremmo l’istesso effetto, e l’istesso accrescimento di forza. Mi dichiaro coll’esempio. Io ho bisogno di cento botti d’acqua della fontana, per dir così, di Santa Croce; ma trovo, che quella fonte non dà più, che una sola botte d’acqua per ora; adunque dovrò io disperare in tutto, e per tutto, di poter mai conseguire le cento botti d’acqua di quella fontana? certo che no. Aspettisi cent’ore, e si vada conservando l’acqua, che continuamente scaturisce, che così si potranno avere le cento botti dell’acqua desiderata. La gravità ne i corpi naturali è una fontana, dalla quale continuamente scaturiscono momenti di peso. Il nostro grave produce in ogni istante di tempo una forza di cento libbre, adunque in dieci istanti, o per dir meglio, in dieci tempi brevissimi, produrrà dieci di quelle forze di cento libbre l’una, se però si potranno conservare. Ma fin tanto che egli poserà sopra un corpo, che lo sostenga, non sarà mai possibile di aver l’aggregato delle forze, che desideriamo, tutte insieme; poiche subito quando la seconda forza, o momento nasce, la precedente è già svanita, e per così dire, è stata estinta dalla contrarietà repugnante del piano sottoposo, il quale nel medesimo tempo, in che nascono detti momenti, gli uccide tutti successivamente un dopo l’altro. Ma senza più tediosa prolissità, la definizione medesima che il Galileo adduce del moto naturalmente accelerato, basta per isvelare questo arcano della Natura, intorno alla forza della Percossa. Aprasi la scaturigine della gravità. Sollevisi la palla grave in alto, in maniera tale, che possa poi quand’ella ricaderà all’ingiù dimorar per l’aria dieci istanti di tempo, e per conseguenza generare dieci di quei suoi momenti; io dico, che detti momenti si conserveranno, e si ag[p. 7 modifica]gregheranno insieme. Ciò è manifesto per l’esperienza continua de’ gravi cadenti, e del moto accelerato; vedendosi che i gravi dopo le cadute hanno maggior forza, che non avevano quiescenti. Ma anco la ragione lo persuade; poiché se quell’ostacolo sottoposto colla continua repugnanza del suo odioso toccamento, estingueva tutti i predetti momenti, ora che è levato l’ostacolo; dovrà colla remozione della causa, esser rimosso anco l’effetto. Quando poi il grave dopo la caduta arriverà alla percossa, non applicherà più, come faceva prima, la semplice forza di cento libbre, figliuola d’uno istante solo, ma le forze moltiplicate, figliuole di dieci istanti, che saranno equivalenti a libbre mille: tante per appunto, quante ne voleva il marmo unite, ed insieme applicate per restar rotto, e superato.

Quì l’obbiezioni son manifeste. Prima non è possibil mai, che un grave cadente possa trattenersi per l’aria, ne dieci, ne trenta, ne cento istanti di tempo; imperocchè il tempo di qualunque brevissima caduta, bisogna (se ciò si può dire) che contenga infiniti istanti. Adunque, secondo questa supposizione, non sarà mai vero che un grave cadente possa moltiplicare il momento suo proprio, che egli aveva quiescente, ne dieci, ne trenta, ne cento volte; seguiterà bene che (se egli lo multiplica) lo dovrà per forza moltiplicare infinite volte; poichè, come dicemmo, nel tempo di qualunque brevissima caduta, sono infiniti gl’istanti; però per necessaria conseguenza la forza d’ogni poca caduta, e d’ogni poco peso doverebbe esser infinita, il che è contro tutte l’esperienze.

A questo io rispondo, e concedo ogni cosa, cioè, che la forza di qualunque percossa debba esser infinita. Proverò prima questo demostrativamente senza far menzione di quegli istanti, i quali potrebbero essere controversi da chi non ammette la dottrina degli Indivisibili, e poi dirò perchè causa penso, che nell’esperienza, le percosse non facciano effetto infinito, ma piuttosto alle volte piccolissimo.

Caschi una palla di ferro la quale di peso sia una libbra sola dall’altezza d’un braccio; io dico la sua forza, o momento dopo la caduta esser maggiore di qualunque momento, o forza finita. Che il momento dopo la caduta sia accre[p. 8 modifica]sciuto è cosa manifesta per l’esperienza, vedendosi, che la palla cadente, fa sopra qualche resistente effetto molto maggiore di quello che averebbe fatto s’ella vi si fosse posata quiescente. Ora se la moltiplicazione del suo momento non altrimenti è infinita, bisognerà che sia terminata. Sia dunque per esempio solamente come di cento libbre, cioè cento volte maggiore di quel ch’ell’era nello stato della quiete. Dividasi coll’imaginazione il tempo della sua caduta in più di cento particelle eguali, e sia, per esempio, diviso in centodieci parti, queste non saranno più istanti, ma tempi quanti, e divisibili. È poi chiaro per la definizione del moto accelerato del Galileo, e pel discorso fatto fin quì da noi, che il grave cadente, anderà producendo in ciascuna delle centodieci particelle di tempo un momento, almeno di una libbra l’uno, e gli anderà conservando in se stesso, ed accumolando l’un sopra l’altro.

Il grave dunque, che mentre stava fermo aveva momento d’una libbra, dopo la caduta corrispondente alla seconda particella del tempo diviso, averà momento almeno triplicato di qualche aveva quiescente: nel fine poi del centesimo tempo avrà forza almeno centuplicata di quella che aveva nello stato della quiete, cioè forza almeno di cento libbre. Ma nel fine della centodecima, ed ultima particella di tutto il tempo diviso, cioè nel punto della percossa, bisognerà che abbia forza maggiore che di cento libbre. Col medesimo progresso s’inferirebbe aver forza maggiore di mille, e d’un milione. Provandosi dunque che un grave cadente ha forza maggiore di qualunque forza finita, par che seguiti ch’e’ si possa dire aver egli forza infinita.

Ma le obbiezzioni son più gagliarde che prima; poiche se la forza delle percosse fosse infinita, doverebbe ogni percossa benche piccola, fare effetto infinito; ma noi vediamo che qualunque percossa benche grande, fa effetto terminato, ed anco spesse volte insensibile; come chi battesse sopra l’incudine col martello, che fa egli più di quello che farebbe se ve lo tenesse fermo?

A questo si può risponder così. Allora seguirebbe l’effetto infinito ad ogni benche piccola percossa, quando la percossa [p. 9 modifica]fosse momentanea; cioè quando il percuziente applicasse tutto quel cumulo di momenti, che egli ha dentro di se aggregati insieme, che sono veramente infiniti, e gli conferisse tutti al suo resistente in un solo istante di tempo. Ma se nell’applicargli, gli applica con qualche spazio di tempo, non è più necessario, che l’effetto segua infinito, anzi può esser minimo, ma però nullo mai. Ricordiamoci, che il Galileo dimostra, che qualunque grave dopo qualsivoglia caduta ha tanto impeto, o momento in se stesso, che basta precisamente per ricondurre il grave caduto, e riportarlo a quel medesimo segno d’altezza dalla quale era partito, e questo ritorno si farebbe in altrettanto tempo quanto fu quello della caduta. Questo pare a me che voglia dire. Se un grave dopo la caduta da qualsivoglia altezza, si rivolgerà all’insù; altrettanta salita per appunto, quant’era stata la scesa basterà per torgli, ed estinguergli tutto quell’impeto, che esso aveva concepito. Cade sopra un’incudine dall’altezza d’una picca un martello, che pesa quattro libbre: quando arriva a dar la percossa, egli ha già multiplicato infinite volte il momento del proprio peso, ma non per questo dee far effetto infinito. Immaginiamoci che egli non percuota altrimenti, ma si rifletta all’insù coll’impeto acquistato senza toccar l’obietto. Non vedete per la dottrina del medesimo Galileo, che la poca repugnanza di quattro libbre del suo proprio peso in tanto tempo con quanto egli ascende lo spazio d’una picca all’insù, basta per estinguere tutta quella infinità di forze, che egli aveva multiplicate nello scendere? Così anco quando egli darà la percossa temporanea, può esser che l’immensa repugnanza della impermeabilità del ferro, sia bastante a torgli nel brevissimo tempo nel quale si fa l’ammacatura, tutto quell’impeto, che la poca resistenza di quattro libbre di peso, gli toglieva nel lungo tempo della corsa d’una picca all’insù.

Mi pare che potrebbe formarsi una Proposizione così. I TEMPI PROPORZIONALI RECIPROCAMENTE ALLE RESISTENZE, SONO EQUIVALENTI PER ESTINGUERE L’ISTESSO IMPETO. Mi dichiaro, se il lungo tempo del ritorno del martello all’insù colla poca repugnanza di quattro libbre di peso contrario può estinguere quell’impeto infinito, che era nell’istesso martello cadente [p. 10 modifica](come in effetto fa per la dottrina del Galileo) il tempo mille volte minore, nel quale si fa l’ammaccatura del ferro, insieme colla resistenza dell’ammaccatura, che è mille volte maggiore, basterà per estinguere il medesimo impeto per infinito che egli sia.

Cade un grave da alto, e moltiplica, per così dire, cento volte il suo momento. Se egli nell’atto della percossa applicherà tutto il multiplico delle forze sue in un istante solo, il resistente sentirà una tal violenza come di cento; tale appunto quale era la forza. Ma se lo applicherà, e distribuirà, per esempio, in dieci istanti, il resistente non sentirà mai cento momenti di forza tutti insieme, ma si ben dieci per volta. Per voler dunque, che la percossa facesse tutto l’effetto suo bisognerebbe che nell’atto del percuotere nessuno de’ corpi concorrenti cedesse, ma il colpo fusse momentaneo, e le forze tutte si ricevessero in un solo punto di tempo.

Viene un sasso dalla cima d’una torre; se io gli sottopongo una mano, e sotto la mia mano sia un sostegno immobile contiguo ad essa, il cadente imprime nella mano mia, perchè non può cedere, in brevissimo tempo tutti i suoi momenti moltiplicati; però sento grandissima, e dolorosa la percossa. Ma se cadendo il medesimo grave dall’istessa altezza io lo riceverò colla mano libera per aria, in modo ch’ella possa cedere, e ritirarsi nel pigliare il grave, io sentirò pochissimo colpo; e tanto minore proverò la forza della percossa, quanto maggiore sarà il tempo della ceduta.

Chi per ispezzar la noce la ponesse sul guanciale, e per rompere il diamante lo mettesse sur una tavola di legno, grandissima parte della sua forza perderebbe la percossa: poiche col cedere, e col sottrarsi della cosa frangibile, si dà tempo al percuziente, e si fa che egli in quel tempo vada applicando, non uniti, ma distribuiti, e per così dire, appoco appoco, i momenti della sua forza. Ma chi percuotesse il diamante con il martello d’acciajo temperato (come dicono) a tutta tempera, sopra un’incudine di simil durezza, sicche il diamante non potendo cedere, ne dar tempo alla percossa, fusse astretto a ricevere i momenti del colpo quasi tutti assieme, credo certo che non ostante qualsivoglia durezza, anderebbe in polvere. [p. 11 modifica]

Chi poi col medesimo martello d’acciajo durissimo, che rompeva il diamante, e col medesimo impeto percuotesse una noce sopra una balla di lana, forse non la romperebbe; poichè se bene il diamante non potè resistere a quella moltitudine d’impeti accumulati, che gli piombarono addosso tutti in un tratto, la noce nondimeno, benche tanto più frale, potrà resistere a tutti i medesimi, quando ella col cedere possa dividergli, ed incontrarne pochi per volta per potergli vincere.

L’antico Orazio non poteva mica in un sol tempo resistere a tutte le squadre armate di Porsena assediatore; poteva bene sull’angustie d’un Ponte andar contrastando con quattro, o sei di quei soldati; e morti questi poteva forse resistere ad altrettanti, e dopo quelli ad altrettanti ancora. Narrano alcuni scrittori, che quando le mura delle Città venivano percosse colla disusata macchina dell’Ariete, i difensori calavano giù gran sacchi di lana, o materie simili cedenti, le quali interponendosi, e ritirandosi sotto il colpo, appoco appoco fossero atte a smorzare qualsivoglia grandissimo impeto, ed a salvar la muraglia dalle offese. Se il colpo avesse colto sul muro ignudo, o sopra altra materia interposta, egualmente dura, quanto la fabbrica, poco o nessun giovamento averebbe sentito la cortina; ma tanto essa, quanto il suo riparo, sarebbe stata infranto dallo strumento percuotitore. All’Ariete antico (essendo una trave di legno) facevano, come si sa, la testa di bronzo. I fabbri moderni spianano, come si vede, il ferro con un martello di dieci libbre, ma d’acciajo: non già riuscirebbe loro spianarlo con un mazzo, benche cento volte più grave, ed altrettanto più impetuoso, la ragione è chiara: perchè mentre il percuziente arriva a ferire con una estremità, non di legno, ma di metallo, non cede se non pochissimo, e per conseguenza conferisce, ed applica, tutti i suoi momenti uniti, ed in tempo insensibile. La fortificazione moderna proibisce il far le mura delle fortezze con pietra dura, non per altro, se non perchè l’esperienza ha fatto vedere, che l’artiglieria offende assai più le materie forti, che le facili, e cedenti, come tufo, e matton cotto, e simili, le quali lasciandosi traforare, e pigliando l’impeto della palla con maggior lunghezza di tempo, possono appoco appoco estinguerlo con minor lor danno, che se [p. 12 modifica]lo ricevessero con materia più dura, e volessero smorzarlo in un tratto quasi momentaneo.

Allora dunque si può credere, che la forza della percossa fosse per fare effetto infinito, quando si potessero trovar due materie, che niente cedessero; cioè tali, che l’atto della percossa fosse un contatto istantaneo. Noi però nella Natura presente, e nel Mondo assegnatoci da Dio per abitacolo, non abbiamo (ch’io sappia) materie infinitamente dure; però tralasceremo di filosofare sopra un’impossibile; ma intanto non ci maraviglieremo se le percosse, avendo forza infinita, non fanno effetti se non terminati, e anco piccoli. Tutte le materie nostre cedono, o poco, o molto; in quel poco, o molto tempo della cedenza, si dà campo all’infinità della forza, di poter estinguere quegli infiniti, i quali siccome ad uno ad uno si erano generati, così anco ad uno ad uno si possono annichilare, quando abbiano qualche tempo.

Può dunque la forza della percossa essere infinita, come pare che persuada la ragione, e non è necessario che segua infinito l’effetto.

Lascierò per un’altra tornata l’altre obbiezzioni, e l’esperienze favorevoli per l’infinità della forza della percossa; conoscendo d’aver io percosso omai tanto la pazienza vostra, che forse l’averò rotta.