Lezioni sulla Divina Commedia/Secondo Corso tenuto a Torino nel 1855/XII. La forma poetica dell'elemento didascalico nel purgatorio

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Secondo Corso tenuto a Torino nel 1855 - XII. La forma poetica dell'elemento didascalico nel purgatorio

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Secondo Corso tenuto a Torino nel 1855 - XI. Varia forma poetica degli esempi di virtù nel purgatorio Dai riassunti delle lezioni tenute a Zurigo nel 1856-57
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Lezione XII (XXXIV)

[LA FORMA POETICA DELL’ELEMENTO DIDASCALICO
NEL PURGATORIO]


La poesia si è fatta descrittiva; gli uomini dell’inferno sono attori passionati, sono lo spettacolo; gli uomini del purgatorio sono spettatori; le passioni che un tempo ferveano nel lor cuore, sono ora fuori di loro, offrentisi alla memoria o alla vista, ricordate o intagliate: spettatori, manifestano le loro impressioni, s’indegnano o applaudiscono secondo lo spettacolo. Sono essi almeno spettatori poetici? si mescolano, si obbliano nello spettacolo? Le passioni non hanno virtú di turbarli, di commuoverli; essi rimangono fuori dello spettacolo, e vi si pongono al disopra, simili ad uno straniero, che stando di qua da una folla tumultuante ragioni tranquillamente sulle origini delle rivoluzioni e sulle cause di quel perturbamento. Quindi il didascalico è intimamente congiunto col descrittivo; le anime veggono, sentono e giudicano: nella poesia ci ha tre elementi, la visione, l’impressione, ed il giudizio: delle due prime parti si è giá discorso: resta l’ultima cioè il giudizio. E qui tre specie di quistioni mi si affollano innanzi. Una quistione storica: — Quando la scienza penetra nella poesia? Quando vi penetra come erudizione, per esempio ne’ poemi del Fracastoro e del Vida? Quando vi penetra per necessitá di condizioni sociali, come ne’ poemi orientali e ne’ poemi primitivi biblici e nella Divina Commedia e nella poesia odierna? — Una quistione filosofica: — Può la scienza penetrare [p. 260 modifica]nella poesia? Il vero ed il bello sono la stessa cosa sotto forme diverse, o si escludono a vicenda? Vi è un punto di contatto, un campo comune nel quale s’incontrano e si abbracciano? — Una quistione estetica: — Posto che la scienza possa entrare in poesia, in che modo vi può? In che modo il poeta dee lavorare e trasformare la scienza, si che ella non acquisti una forma poetica rimanendo scienza, ma cessi di essere scienza e diventi poesia? Il soggetto mi sta innanzi in tutta la sua ampiezza; ma trattarlo qui sarebbe prematuro; il suo luogo è nel Paradiso, perché qui la scienza è un momento brevissimo di tutta la vasta concezione, e nel Paradiso è esso tutta la concezione, essendo il paradiso il mondo dello spirito, della pura intelligenza, e quindi essenzialmente didascalico. Mi restringerò dunque ad esporre le forme, sotto le quali il didascalico comparisce nel Purgatorio.

Comincio a porre un principio oramai fuori di ogni contestazione: il poeta dee rappresentare, non dimostrare; e perché la veritá sia rappresentata, ella dee esser visibile, tale cioè che si offra al senso ed alla fantasia. Ma non fu questa la via, per la quale si misero i poeti al tempo di Dante, i quali, partendo dal presupposto che la poesia è vero del vero e secondo il detto di Dante una veritá nascosta sotto menzogna, si proposero di mostrare in versi questa e quella veritá; a quegli artisti quel pubblico. Il pubblico di quel tempo reputava maraviglia d’ingegno Brunetto Latini per le cognizioni sparse accumulate nel suo Tesoretto, e celebrava le canzoni filosofiche di Guido Cavalcanti, stimando leggera cosa e quasi trastullo d’ingegno le sue poesie delicatissime a Mandetta, che fanno di lui il precursore del Petrarca. E qual meraviglia di questi giudizii popolari, quando vediamo due secoli dopo il Tasso chiamar miracolo d’arte e di scienza maritate insieme le tre canzoni del Pigna, che oggi si nominano solo perché il Tasso degnò di farne un comento? Questo errore, durato in Italia fino a’ tempi del Tasso, anzi fino al Gravina, anzi fino a’ nostri giorni mediante la tradizione immobile delle scuole e de’ pedanti, questo errore avea fin dal Trecento messe salde radici: Dante stesso partecipava a quest’errore. Io non istò qui come un predicatore, per farvi il [p. 261 modifica]panegirico di Dante; io non ho niente a palliare o scusare; Dante non ne ha bisogno. Non vi è uomo si grande, che non sia ad immagine del suo tempo: Dante partecipava a quest’errore: e spesso nel Paradiso si propone uno scopo prettamente scientifico, e vi adopera una forma prettamente scientifica. Nel Purgatorio vi capita una o due volte solamente: ve ne darò un esempio. Dante domanda come l’amore conduca al male; la risposta di Virgilio è espressa con una nettezza maravigliosa, con una brevitá filosofica, che grazie alla proprietá de’ vocaboli non nuoce alla chiarezza, anzi l’aiuta; ma non è poesia; è prosa, perché l’autore si propone di spiegare una veritá, ed il poeta rappresenta, non spiega; è prosa, perché la veritá vi è sviluppata per via di dimostrazione ed il poeta rappresenta non dimostra; è prosa, perché la dimostrazione è fatta con linguaggio e con le formole della scuola, le quali si fanno via attraverso alla forma poetica, come son quelle distinzioni e suddistinzioni, e come nel verso:

                                    Resta, se dividendo bene stimo.      

Dante vi capita un par di volte; in tutto l’altro ammireremo la vittoria del poeta sul critico, dell’ingegno sulla dottrina, e la scienza è piú o meno trasformata sotto l’alito della fantasia.

Cominciamo dal fatto. Finora ci è stato innanzi lo spettacolo; i sensi, la fantasia, il cuore sono stati a volta a volta allettati. Assorti nello spettacolo, noi non ci siamo curati di chiarirne le parti oscure, simili agli spettatori, che sentono con impazienza qualsiasi spiegazione che dar voglia un attore, intenti solo ad appagare il senso e la fantasia. Ma in questa progressiva trasformazione e dissoluzione della carne, in questo perenne movimento dal senso all’intelligenza, noi siamo giá pervenuti a tanta calma di passioni, che possiamo ben soddisfare la nostra mente e chiarire lo spettacolo innanzi alla nostra ragione. Abbiamo veduto le ombre piangere e ridere e sentir fame e freddo. In che modo esprimono le loro sensazioni elle, nude anime, i cui [p. 262 modifica]corpi stanno ancor ne’ sepolcri terreni e non li riavranno se non nel giorno del giudizio universale? Abbiamo veduto le passioni tempestare negli uomini e condurli a grandi delitti. E che cosa sono queste passioni? che cosa è questa forza, santa sempre, che ora sospinge al bene, ora al male? E andando piú su, se questa è forza irresistibile, se noi siamo sottoposti agli influssi celesti, se vi è il fato o la Provvidenza; perché l’uomo dovrebbe essere premiato o punito di quello ch’ei fa? L’azione umana non è simile per avventura al cammino meccanico d’una pietra lanciata? Rispondere a queste quistioni egli è lo spiegare tutto lo spettacolo dantesco, la parte fisica e la parte morale, lo stato del corpo e lo stato dell’anima. Dante il fa; ed il fa spogliando la materia della sua cruditá scientifica ed amorosamente lavorandola. In che è posto questo lavoro? Innanzi tutto perché la veritá sia poetica, dev’esser presentata non come materia disputabile, ma come un fatto ammesso, non come qualche cosa che si dimostra, ma come qualche cosa che si vede; la poesia non dee contenere teoremi, ma assiomi; un poeta non dee parlare come un ragionatore, ma come un rivelatore o un veggente. E tali sono i caratteri della scienza ne’ poemi orientali, ne’ poemi biblici; tali nella Divina Commedia. Le anime nell’altro mondo hanno la ragione snebbiata dal senso; intuiscono direttamente il vero, veggono la veritá e dicono quello che veggono con la sicurezza e l’autoritá d’un oracolo. In questo modo si è vinta la prima difficoltá; la dimostrazione è esclusa dalla poesia. Qual è la forma che vi succede? Le veritá che costituiscono una scienza non sono astrattezze: sono forze vive, spirituali o naturali, che muovono il mondo. E quando voi non disputate intorno alla natura di queste forze, quando non disputate se dee esser questa o quella, quando me ne ammettete una qualsiasi, e me la dispiegate come operatrice in una catena di fenomeni; voi mi ponete innanzi qualche cosa che si muove e sí succede nello spazio e nel tempo, voi narrate, non dimostrate: la scienza qui diventa realtá, diventa storia: ella è il poema dell’universo. E cosí quando noi leggiamo alcune filosofie moderne ontologiche, quando vediamo da un principio solo germinare come per incanto a poco [p. 263 modifica]a poco tutta l’umanitá; a noi par di assistere allo spettacolo della creazione: a noi sta innanzi una epopea, anziché un trattato scientifico. Prendiamo la prima quistione: — Come le ombre possono esprimere le loro sensazioni? — Stazio che risponde a questa domanda, non intende giá a dimostrare alcun principio; egli fa la storia della formazione del corpo umano fin dall’alvo materno, anzi piú su fin dal primo movimento del sangue. Dopo i misteri della generazione, voi vedete il feto che cresce e si sviluppa come una pianta; poi la pianta si move, acquista sensi, prova sensazioni; l’anima vegetativa si trasforma in anima sensitiva; la pianta si trasforma in animale; poi Dio vi spira entro l’anima razionale che si fonde colle altre due. L’anima separata dal corpo per morte racquista la virtú formativa, ed operando sull’aria che la circonda si fa un corpo simile a sé, che prende una figura conforme alle sue sensazioni, il piangere, il ridere, il parlare, il sospirare:

                                    Indi parliamo, ed indi ridiam noi, ecc.      

Or questo non è una dissertazione; è un racconto i cui protagonisti sono la natura e Dio. Incogniti al senso; ma che importa? Non vediamo il motore; vediamo il movimento; non vediamo la scintilla elettrica, ma vediamo con terrore poetico i suoi effetti nella folgore e nel terremoto. Egli è in questa mobilitá di cose che ci si succedono innanzi, in questa forma storica che è posta la prima condizione della poesia. Ma ciò non basta: il rimuovere la dimostrazione, il sostituirvi la forma storica è un ostacolo vinto, una negazione allontanata; ma non siamo ancora in poesia. Abbiamo il linguaggio di Teofrasto o di Aristotile; non ancora il linguaggio di Dante. I particolari che Dante ci espone, sono fatti e pensieri, materia intellettuale e sensibile, fatti che si presentano al senso, pensieri che si presentano all’intelligenza; ora i fatti ed i pensieri sono per sé una materia bruta, che dee essere trasformata perché diventi arte. Il pensiero per esser poetico dee uscire dall’intelligenza ed affacciarsi alla fantasia; e quando questa lo ha ricevuto in sé e lo [p. 264 modifica]riproduce e lo ricaccia al di fuori, perché lo vediamo uscire di lá tutto trasfigurato e illuminato? Perché la fantasia non può ricevere in sé il pensiero come pensiero; mondo d’immagini, ella non sa concepire che l’immagine. Un filosofo si affaticava [a descrivere] ad un cieco nato il color rosso come il piú forte ed il piú vivace de’ colori. — Hai capito? — gli disse da ultimo; e quegli con un’aria di capacitá: — Certamente, rispose: il color rosso dee essere qualche cosa come il suono della tromba. — Il cieco giudica la vista per mezzo dell’udito; la fantasia giudica il pensiero per mezzo dell’immagine. In questo Dante è onnipotente: la storia del feto passata per la sua fantasia ne esce fuori tutta rilucente d’immagini. Dee egli dire come l’anima spirata da Dio nel feto si fonde cogli umori vitali? E la fantasia gli presenta il calore del sole che si fa vino, congiunto all’umore che cola dalla vite. Dee egli dire come le anime danno all’aria una figura conforme alle loro sensazioni? E la fantasia gli presenta l’aria gravida di particelle acquee che prendono questo o quel colore secondo il raggio che riflettono in sé. Dee egli dire come quella figura si muta secondo che si mutano le sensazioni? E la fantasia gli presenta la fiammella che segue l’indirizzo del fuoco in tutto il suo movimento. Ma ciò non basta; noi siamo ancora nelle basse regioni della poesia. Se fosse altrimenti, se questo fosse poesia schietta, perché il lettore senza un grande indugio di volontá non si sforza a leggere questa parte didascalica? Che cosa vi è qui dunque che stanca il lettore, che resiste a Dante e che riman prosa? Vi è che Dante ha vestito ed ha abbigliato il pensiero, ma sotto quegli ornamenti il pensiero rimane pensiero, la scienza rimane scienza, vi rimane un elemento filosofico indistruttibile che turba il nostro godimento estetico, che invita a leggere chi vuol studiare filosofía, non chi vuol godere una poesia. Bello quel calore del sole che si fa vino, ma dirimpetto vi sta l’anima vegetativa e sensitiva e razionale. Bello quel fuoco che si leva in altura, ma dirimpetto vi sta la spiegazione d’un fenomeno morale, il desiderio che sale e sale, finché la cosa amata il faccia ire. E che vuol dire questo? Vuol dire che il pensiero è uscito dall’intelligenza, [p. 265 modifica]è calato nella fantasia, ed è uscito di lá non trasformato, non fatto altra cosa. Vuol dire che la fantasia si è contentata di scegliere una immagine e di porgliela a lato per illustrarlo; ma non ha avuto la forza di trasformare lui, di rendere lui un’immagine, lo ha ornato, non lo ha trasformato. E qui è l’abisso che separa i poeti coloristi da’ poeti creatori. I primi tanto pompeggiano piú di metafore e d’immagini, quanto si sentono meno atti a creare: testimonio il Seicento, che è il secolo metaforico per eccellenza, e che non ci ha dato alcuna creazione. Per contrario, che cosa sono la Rachele, la Matilde, la Beatrice, che cosa il Manfredi di Byron, la Margherita e l’Elena di Goethe? che cosa Silvia e Aspasia e Saffo e Bruto e Consalvo, se non pensieri filosofici trasformati e fatti forme d’ossa e di polpa? Prendiamo la seconda quistione. Si tratta della umana libertá. Ecco il pensiero. L’anima nel principio della vita è dominata dal senso: allettata da’ piaceri, vi si abbandona e travia. Or Dante non esprime il pensiero in questa forma, e poi gli aggiugne un’immagine per adornarlo. Innanzi alla sua fantasia l’anima prima di esser nel corpo diventa una bella fanciulla nelle mani di Dio, che rapito vagheggia la sua creatura, piacente, ridente, folleggiante. Quando scende nel corpo, ella conserva questa letizia, questa festa di paradiso; e nuova della vita, inscia del bene e del male, memore delle gioie celesti, vaga di sollazzarsi, si abbandona al primo piacere che incontra e vi corre dietro. La Psiche de’ Greci non ha piú freschezza, né piú realtá di questa divina fanciulla di Dante. Qui non ci è il pensiero e poi un’immagine a lui straniera, ma il pensiero divenuto fanciulla.

Tali sono i lineamenti della prima poesia del Purgatorio, descrittivo-didascalica; ma un poema non può riposare sopra questi soli elementi; non può esser composto di spettatori. Ci è bisogno di attori. La considerazione del male genera nelle anime il pentimento; la considerazione del bene introduce in loro il paradiso, cioè pace, amore, virtú. Le anime acquistano dunque alcune qualitá speciali, che si manifestano nell’azione. Non sono solo spettatrici, ma attrici; la poesia diventa drammatico-lirica. [p. 266 modifica]

Signori, mi sará egli dato di compiere questo lavoro? La vostra benevolenza continuerá ad incoraggiarmi? È appena un mese, è uscito in luce un altro lavoro straniero intorno a Dante, nuova concorrenza ad un’opera che dovrebbe essere italiana, il lavoro del Lamennais. Questo vecchio venerabile nell’etá di ottanta anni serbava tanta freschezza di mente da poter consacrare i suoi ultimi pensieri a Dante. Il suo lavoro fu troncato dalla morte: egli moriva, mormorando versi italiani, e con Dante nella fantasia. Il Lamennais aveva si alto ingegno che a fare questo lavoro bastògli il suo proprio sospingimento, la sua voce interna che gli diceva: — Scrivi! — Quanto a me, vi confesso, che non sarei giunto a colorire il mio disegno, se non fossi stato aiutato da voi. Il desiderio di far piacere a voi, il timore della vostra disapprovazione, l’ebbrezza de’ vostri applausi, e quella simpatica, quell’arcana comunicazione, che stringe insieme dicitore ed uditori, e dá al pensiero quel colore e quel movimento che invano si chiede nel silenzio del gabinetto; tutto questo ha cacciato me dall’inerzia, nella quale lunghi patimenti mi aveano gittato, e mi ha detto: — Avanti! — E s’io compirò questo lavoro, e se riuscirá cosa non al tutto indegna di Dante; io lo dovrò, piacemi il dirlo, a’ miei amici, che mi hanno incoraggiato con tanta costanza, ed a’ buoni torinesi, che mi hanno udito con tanto compatimento.