Lucifero/Canto nono

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Canto nono

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Canto ottavo Canto decimo
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CANTO NONO





Argomento.


Curiosità dei Celesti e pietosa supposizione dei santi inquisitori alla vista dell’incendio di Parigi. — Pettegolezzi divini. — Profonda risposta di Dio; e confidenze che egli fa a santa Teresa; la quale perde improvvisamente la ragione. — Lucifero, che ha lasciata la Francia, veleggia per l’America. — Apostrofa alla Spagna. — Arriva nel nuovo mondo. — Saluto alla libertà, madre di civili istituzioni. — S’interna in una foresta.


Con quest’alte speranze e queste cure
Si partiva l’Eroe, mentre più vasto
Per la rigida notte infuríava,
Turbinando, l’incendio. Arder parea
5La terra intorno, e correr sangue i fiumi,
E, ad ingoiar tant’ira e tanti affanni,
Come abisso di morte, aprirsi il cielo.
    Sentîr le fiamme inaspettate e il lezzo
Dei feroci olocausti, e balzâr tutti
10Fuor del sonno i Celesti, a quella guisa
Che sbucan dalle pingui arnie ronzando
Le pecchie industri, allor che il dispettoso
Villan, che con obliquo animo guarda
Al prospero vicin, l’aride ammucchia
15Secce del campo, e presso agli alveari
Gitta la fiamma e, pago il cor, s’invola.
Sorser così l’alme beate, e primo
Al veroni del cielo, avido il varco
S’aprì quel di Gusmano, un tra’ più forti
20Zelatori del Cristo, e: — Li han bruciati,

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Li han bruciati? dicea; tutti son rei,
Tutti eretici son; di roghi ha d’uopo,
Sol di roghi la terra!
                             — Ah! ch’io li veda,
Rugghiava dietro a lui, feroce in vista
25Il terror di Toledo; e con aperte
Nari spirava il crasso aer, che tutto
Empía di fumo e di mefite il cielo;
Ch’io li veggia morir; ch’io l’odor beva
Delle ree carni abbrustolate, ascolti
30Il rantolo supremo, e sperda a’ venti
Con questa man la cenere esecrata! —
Sporge in tal dir la gialla testa, in cui
Radi si rizzan come chiodi i crini;
Sangue schizza dai tondi occhi; le adunche
35Mani vibra, e la bocca sanguinosa,
D’un lungo dente armata, dilatando,
Strida interrotte e rochi ululi avventa.
Al selvatico aspetto inorriditi
Velan gl’innocui serafini il viso
40Con le candide palme; e sollevate
Sul roseo dorso tremolan le piume.
Ma non prima avvisâr delle imminenti
Dive il clamore, a sogguardar si diêro
Di fra le dita mal conteste. Come
45Stuol di pingui anatrelle, ove a le macchie
Del torbido pantano odan vicina
La caccia, tentennanti alzando il volo,
Tendono con concorde impeto al mare,
Così balzâr, così veníano in folla
50Le sante giovinette, ed il nativo
Pudore e i curiosi angeli e il loco
Mal curando nel pavido pensiere,
Libere consentían le ritondette
Forme, simili a pesche, onde le tenui

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55Foglie rimove un’importuna brezza.
Le sbirciò dal suo trono il profetante
Re di Síonne, e abbandonata al piede
Caddegli la vocale arpa; nel petto
Fiammeggiò tutto; e già fuor dagli avari
60Occhi e de le carnose labbra il senno
Senz’altro gli fuggía, se non che a tempo
Sopravvenne il divin Padre, e d’un cenno
Le impronte ansie ammorzò. Pensoso e stanco,
Egli venía con passo incerto, a braccio
65Della diva Teresa: una vecchietta
D’Àvila, ossessa da Gesù, che al vano
Piacer, che le vulgari anime adesca,
L’involò tempestivo; ond’ella esperta
Del futil gioco della rea fortuna,
70Al divino amator la vita offerse.
Or fra gli astri ha dimora, e sacro in terra
È il nome suo; ringiovanita e bella,
In pregio delle sacre estasi, al Nume
Dilettissima vive, e a lui sorregge,
75Antigone pietosa, il passo infermo.
    All’appressar del Dio, taciti arretransi
I minori Celesti, e in duo partita
S’apre la folla riverente. Un aureo
Seggio quivi s’ergea, morbido tutto
80Di velluti guanciali, al qual di sopra
Un ampio drappo si stendea: superba
Opera di ricamo, in cui la diva
Lucia, maestra d’ingegnosi uncini,
Esercitata avea per alcun tempo
85L’ammirabil perizia. A lei ministre
Furon le vigilanti ore, e compagna
La rigida pazienza; e non di perle,
O di rari smeraldi e di rubini
La cara opra abbellì, ma cento eletti

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90Dei più piccoli e vaghi astri nel fondo
Dei forzieri di Dio, gl’infilzò a una refe
Adamantino, e al divin seggio intorno
Con sottile d’acciaro ago l’infisse.
Quivi il Nume si asside; il formidabile
95Ciglio tre volte gravemente inchina,
Scote tre volte l’ambrosia canizie,
Serra il valido pugno; e al cenno usato
Svegliasi dalle sante arpe il concento
Dei melodici salmi. Apresi il varco
100Tra’ folti angeli allor la previdente
Brigida, e tutta rigorosa, in vista
Di profetessa, al vecchio Iddio d’innanzi
Piantasi; e il fren già già scoglie al facondo
Favellar, che Gesù destale in core,
105Quando il buon Dio con subita rampogna:
— Brigida, figlia mia, le dice, smetti
Per carità l’antifona noiosa:
La san perfino i paperi: i soldati,
Che legaron Gesù, fûr centocinque;
110Gli sputi, ch’ebbe su la santa faccia,
Novantadue; le prezíose stille
Del sangue, che sul Golgota egli sparse,
Due milíoni; centomila gocce
Di sudor; cinque piaghe, oltre la sesta
115Rivelata al dottor di Chiaravalle...
Ma, per pietà, finiscila una volta
Quest’insulsa scilòma! —
                                Indispettissi
A tal parlar la vergine Maria,
E con umile sguardo e cor severo:
120— Padre, figlio, esclamò, suocero, sposo,
In verità questo parlar non parmi
Degno di voi! Che! non vi par ben fatto,
Che si onori mio figlio?

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                            ― E figlio nostro!
Battendo l’ali e pipilando, aggiunse
125Il Colombo divin; Brigida a dritto
Lo ricorda ai beati!
                            — Aüf! rispose,
Sorgendo a un tratto il bilíoso Iddio;
Io non ne posso più di questo eterno
Bisticciar fra di noi! Non son padrone
130D’aprir la bocca e darle fiato! Questa
Divinità, che non è tre nè uno,
Mi comincia a dar noia: un giorno o l’altro
Men purgherò! Gli dei stan bene in caffo,
E tre son troppi! —
                             Ammutoliron tutti
135All’acerba parola. Allor lo sguardo
Gittò il Dio su la terra; e poi che, a schermo
Del raggio dei vicini astri, la mano
Tremula pose tra la fronte e il ciglio,
E lungamente s’affisò, dal petto
140Un sospir trasse, e con solenne voce,
— Quello, disse, è un incendio! —
                             Al suon temuto
Della voce di Dio restâro immoti
Gl’immoti astri, ondeggiâr l’aure ondeggianti,
E, ruminando il rivelato enimma,
145Tornò ciascuno alle celesti alcove.
Non però torna il re dei Numi, o al sonno
Cede le membra, ancor che lasse: in parte
La più remota ei si ritragge, e seco
Vien la scorta sua fida. In sui ginocchi
150Questa gli s’adagiò; tutto gli prese
Fra le morbide mani il capo augusto,
E il baciucchiò teneramente. Assòrto
In un triste pensier nulla ei sentía
La dolcezza dei baci; ond’ella in fronte

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155Li astuti gli figgendo occhi d’amore:
— Caro babbo, dicea, s’è ver ch’io leggo
Nel tuo pensier, mesto sei tu. Pensoso
E tacito così, mai non mi fosti
Da parecchia stagion. Ti vien vaghezza
160Di sparger di novelli astri la faccia
Dei firmamenti? Ebben, parla: al tuo detto
Sorgeran soli e mondi. Arde i tuoi sdegni
La superbia dell’uom? Fulmina: è tua
L’eternità! —
                   Sorrise amaramente,
165Scrollando il capo, il divin Padre, e, — Acerbi
Fatti, rispose, al mio pensier tu chiami,
E quasi punta di crudel sarcasmo
Tu ferisci il mio cor. Di sogno in sogno,
Credula come sei, porta la fede
170La semplicetta anima tua; veleggi
I cari regni dell’amor, nè sai
Quanto abisso di morte e di dolore
Sotto a questi vegghianti astri si celi! —
Punse tal favellar l’orgogliosetta
175Mente di lei, che tutti aperti e chiari
I misteri del ciel correr presume,
E, di vivo rossor la guancia accesa:
— E che dunque, esclamò, questa mi vale
Presenza tua, se al guardo mio si asconde
180Parte alcuna del ver? Veggente e diva
Sol di nome son io, quando sostieni,
Che, di tenace error l’anima avvinta,
Qui in ciel, quasi mortal femmina, io viva! —
E a lei con dolce, carezzevol piglio,
185Palpando il collo flessuoso e il crine
Rispondeva il buon Dio: — Già da gran tempo
Io’l so, ch’ésca tu sei! Docile e buona
Finchè si va a’ tuoi versi, e ti si corre

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Dietro senza neppur farti uno zitto;
190S’apre bocca? si fiata? Ecco, senz’altro
Tu mi prendi una bizza! Ah! ma la colpa
È tutta mia! T’ho ridonato il riso
Di giovinezza; t’ho dischiuso il core
Alle dolcezze d’un celeste affetto:
195Tutti inutili doni! Altro or tu chiedi
Del mio paterno amor non dubbio segno?
Legger vuoi nel destino? Ebben, mi ascolta! —
Smesse il labbrino, e radíò d’un riso
La bellissima santa, e, poste al seno
200Con garbo pueril le braccia in croce,
Si guardò, s’assettò, scosse la bruna
Testa, a sviar dal fronte piccioletto
La crespa ed odorata onda del crine,
E tutta nell’udir l’anima accolse.
205— Non sorrider così, cominciò il Nume
Con sospirosa voce; occulta, orrenda
Cosa io dirò, tal che nessun finora
Ascoltò dei Celesti. Ah! s’altri fosse
Di tal secreto e dei miei casi a parte,
210Rubellarsi vedresti al regno mio
Le angeliche sostanze, e qual notturno
Simulacro di sogno irne in dileguo
La mia superba autorità. Se dunque
Di tanta confidenza oggi t’eleggo
215Secretaria e custode, e tu ten mostra
Degna co’l seppellirla entro al tuo petto. —
Co’l tenue capo d’assentir fe’ cenno
La santa orgogliosetta, e portò al core
La man picciola e bianca. Il guardo in giro
220Mosse il canuto Iddio; piegò la bocca
Su l’orecchio di lei; la man distesa
Fra la bocca e l’infida aria interpose,
E mormorò: — Nulla son io, non sono

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Che un forte e secolare incubo, imposto
225Dalla paura al sonnecchioso Adamo!
Guai se si sveglia, guai! —
                                    Balzò a tal detto,
Come da repentino estro compunta,
La dea, che bruno e inanellato ha il crine,
E pallida, stupita, senza voce,
230Senza moto restò, tal che scolpita
Immagine parea. Sciolse ad un tratto
Al pianto insieme e alla parola il freno,
E, battendosi il petto: — Ah! disse, è vero,
Che Dio mi parla? E non è sogno il mio?
235Iddio tu sei? Desta e in me stessa io sono?
O tremenda parola, ahi! s’è pur vero,
Che udita io t’ho, che nel mio cor t’accolgo,
Tosto in fiamma ti cangia, e questa mia
Vuota sostanza incenerisci e annienta! —
240Poi riprendea: — Tu non sei Dio? Non sono
Opera di tua man questi diffusi
Mari di luce e questo ciel?
                                    — Tal suona
La fama, è ver; ma in verità, te’l dico:
Assai prima ch’io fossi erano i cieli. —
245— Ma la terra, ma l’uom? — — La terra è il loco
Del nascer mio: l’uom, già mio servo, è fatto
Di Lucifero alunno!
                                    — E a che dormenti
Lasci i fulmini tuoi? Già nel terrore
Terra e cielo avvolgeano.
                                    — Ha tal d’acciaro
250Il pensiero dell’uomo usbergo e scudo,
Che le saette mie sfida e dispregia!
Ahimè! vicino ai regni miei già miro
Torbidi sovrastar gli ultimi soli!

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Già tapina esular di terra in terra
255Veggio tra le fugate ombre la Fede;
Con flagello di foco insta, ed incalza
Lucifero; lo scherno odo e il sogghigno
Dell’incredule genti; e s’io qui resto
D’ozj vulgari e di silenzio avvolto,
260Qui tra poco vedrem superbo e forte
Sorger sopra il mio trono il mio rivale! ―
    Tal parla Iddio, mentre a la pia fanciulla,
Fra il disinganno incerta e la paura
L’anima balza, e si scompiglia il senno.
265Tutta a un punto scomposta il volto e ’l crine
Rompe in subite risa; il lembo estremo
Delle candide vesti in su la bella
Testa rivolge, e così a mezzo ignuda,
Una strana canzon canterellando,
270Per la reggia del ciel sgambetta, e ride.
    Chiuso fra tanto nei suoi sdegni, in traccia
Di libere contrade, ove tra umani
Esperimenti, all’ultimo trionfo
Del suo pensiero ali più salde acquisti,
275L’incarnato demonio al mar s’affida.
Nè d’Albíone il tetro aere, o le cupe
Arti cercò, per cui rigida e avvinta
Nei suoi ferrei statuti il mar governa;
Ma a voi, genti d’Iberia, a voi, tenaci
280Stirpi, all’onor di libertà ridèste,
Dal magnanimo cor volse un saluto.
— Voi felici, esclamò, quando su’l dorso
D’un ignifero pin credeasi ai flutti,
Voi più volte felici, ove, le impronte
285Ire dimesse e le civili erinni,
Tutte verrete a far corona e scudo
Al sabaudo monarca! Ai suoi governi
Arti oblique e venali armi, riparo

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Di trepidi tiranni e d’alme imbelli,
290Ei non invoca, anzi dispregia. Illustre
Germe di prodi, e prode anch’ei, la spada
Sovra il capo degli empj alza, e al consiglio
Solo di libertà piega la mente,
E, in bionda età senno canuto, alteri
295Ai sovrani del mondo esempj insegna.
Oh! a lui, prodi, accorrete! A lui, se tanto
Dagl’iberici petti anco si cura
Libertà con giustizia, a lui d’intorno
Serratevi, e del cor, più che del braccio,
300Custodite il suo trono! Ira di avverse
Parti, d’invidia alimentate e d’oro,
Romperà allor contro al suo piè, qual foga
Di torbidi torrenti ad ardua rupe;
Dalle rive del Tebro, auspice amica,
305Sorriderà l’itala donna al raggio
Del fraterno vessillo; e su la sponda
Dell’orgoglioso Manzanàr la diva
Libertà, le robuste ali raccolte,
Gioirà l’ombra dei sabaudi allori! —
    310Così mescendo alti consigli e voti,
Varca i mari d’Atlante, ospiti al gregge
Degli ondivaghi mostri e all’improvviso
Dall’uom domato imperversar dei nembi;
E tu, dritto a la prora, in simiglianza
315Di grandissima fiamma eri, o Colombo.
Fuggon sconfitte al tuo cenno le ruote
Dei fiammanti uragani; urlano indarno
I segati cicloni, e nei profondi
Baratri incatenate, all’uom che passa
320Le procelle del mar piegano il dorso.
    Salvete, inclite rive; e tu, gagliarda
Libertà, salve! O sia, che dell’aeree
Ande selvose ami la vetta, asilo

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Del superbo condoro; o che ti piaccia
325Spazíar le insegnate acque, o fra l’ombre
Di vergini foreste errar su’l dorso
Del corrente giaguaro, il cui ruggito
Quando sorge o tramonta il Sol saluta;
Grande ognor, se dal doppio istmo le schive
330Genti nei socíali ordini aduni;
Grande, se per deserti orridi il grido
Al perpetuo ulular mesci dei venti,
O più t’aggrada perigliarti al balzo
Di sonanti cascate, e dar concento
335Di selvagge parole ai boschi e al cielo.
Tu nei golfi insueti il pino ibero
Primamente accoglievi, e le ritrose
Stirpi, di vesti e d’ogni culto ignude,
Con lungo studio riducevi al rito
340De’ giapetici imperi. Onde fu visto
Spezzar lo strale e abbandonar le selve
Il fierissimo Pampa; e giù dai monti
Dell’indomo Uraguai scender l’imberbe
Nomade che il color d’ambra ha nel volto;
345E, al corpulento Patagòn confuso,
Dal profondo Orenòco erger l’ignude
Membra pasciute di schifose argille
Lo stupido Ottomàco, e sentir l’uopo,
Tua mercè sola, del civil convegno.
Ma dalle sanguinose orgie, che in nome
D’un mansueto Dio, per le tradite
Reggie e pe’lidi scellerati sparse
Ebbro d’oro e di fede il vincitore,
Fremebonda aborristi, e di perenne
Marchio segnando le cervici infami,
Educasti gli oppressi a un’alta impresa.
Te di Boston il saggio e te l’eroe
Di Virginia comprese; a te le braccia

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350Degl’industri colòni e le concordi
Geste fûr sacre e i sagrificj e il sangue,
Perchè dal ferreo giogo alfin disciolti
Nuova nel tuo gran patto ebber la vita.
    Per le vaste città, fra’ popolosi
355Commerci, a respirar l’aure vivaci
Di quei vergini climi, al mondo ignoto,
Lucifero s’avvolse, ed aureo raggio
D’alte speranze e virtù nuova attinse.
    Un dì per le sonore ombre movea
360D’un’intatta foresta. Invíolate
Da umana scure, indocili al veggente
Raggio del Sol, gelosamente intesti
Tendon le secolari arbori i rami,



....... Per le sonore ombre movea
D’una intatta foresta. Inviolate
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Tendon le secolari arbori i rami.

(pag. 167)


Ove di tutte sue virtù ad un tempo
365Le sconosciute pompe Iside spiega.
Come in tempio infinito, ivi si aggira
La divina matrigna, e tutta appella
Sotto agli sguardi suoi dai varj climi
La numerosa vegetal famiglia,
370La qual, superba de la dea presente,
Rigogliosa e gigante occupa il cielo.
Giovinetta immortal, sotto a’ suoi passi
Balza la bella Primavera, e, stretta
Con insolito amplesso al fresco Autunno,
375Tempra l’aure vitali; e quando i rami
Di mai veduti fior l’una inghirlanda,
L’altro, furtivo sorridendo ai fiori,
Con selvatica man gli arbori impoma.
Con temperie diversa al loco istesso
380L’arborea felce ivi tu ammiri accanto
Al rigido lichene; a’ molli orezzi
Dei vitali palmizj, all’odorate
Del profetico cedro ombre ospitali
Svolgon le foglie flessuose e snelle

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385Le giganti gramigne, e sempre verdi
Spiega l’artico musco i suoi tappeti.
Qui l’indico banàno apre le braccia
Provvide indarno di nettaree frutta;
Qui, impervio ancora al trafficante avaro
390D’ingrati climi e da ogni ferro intatto,
Serba il purpureo sandalo odorato
Le rosee tinte e la gentil fragranza;
Qui, stupendo a saper, quella s’innalza
Pianta ingrata e vulgar, se tu la miri
395Dalle rocce infeconde erger la scarsa
Chioma e scovrir le povere radici
Fuor del sasso natio, mentre co’ rami
Illiberali si trastulla il vento;
Ma egregia pianta e prezíosa, allora
400Che al nascente mattin, fuor degli aperti
Libri deriva e versa intorno un’onda
Di balsamico latte. A lei, se tanto
Gli è propizio il suo dio, ch’indi la scopra,
Corre il nomade adusto, e leva un grido
405D’insolita letizia; trafelanti
I figlioletti accorrono e d’attorno
Tripudíando al caro arbore, il labbro
Danno al buon cibo, e a tutta gioia il core.
E dove mai te lascio, o provvidente
410Abitator di torride contrade,
Stupendo arbor del cocco? Al ciel tu sorgi
Dirittamente come palma, e vinci
Pur la palma in virtù, ben che a lei pari
Sovra l’ispido tronco, a mo’ di piume
415D’orgoglioso pavone, apra le foglie.
Tu al dipinto Indían, che nulla ha cura
Di curvi aratri e di lanosi armenti,
Non pure offri spontaneo asilo e cibo,
Ma, docil fatto ad ogni suo bisogno,

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420Di schietta acqua e di pan candido e dolce
E di liquido latte e di vin puro
E di vesti e di case e d’ogni adatto
Utensile il provvedi; ond’ei, null’altro

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Ivi a quella di Pesto emula ignota
430L’odoroso, gentil calice innostra
Di Belvèria la rosa; ivi quanti hanno
Onoranza e virtù di prezíosi
Medici succhi, o nominanza orrenda
Di fulminei veleni, indifferente,
435O sien radici o fiori, Iside spiega.
    Passa l’Eroe solo e pensoso. Ingombri
D’intrecciate vainiglie e di líane
Lunghissime a le chete aure pendenti
Sovr’esso al capo suo chiudonsi i rami;
440E or di cupole in guisa, or di cortine,
E di fioriti padiglioni e d’archi,
Lussureggiano immensi. Odi a la lunga
Romoreggiar di vaste acque e tra’ rami
Frusciar d’ale infinito; e a far più viva
445Quella solenne immensità, vaganti
Stormi, non sai se d’animate gemme,
O di fiori volanti, o ver di augelli,
Tra le foglie s’inseguono, o procaci
S’arrampican sui tronchi, e fischi e strilli
450E quasi umane voci alzano al cielo.
    Mira il superbo Víator fra tanta
Selvaggia solitudine la dea
Misteríosa spazíar, tremenda
Ne la sua maestà muta, e compreso
455D’un altero pensier, l’animo esalta,
Come rubusto ed animoso atleta,
Che pronto e fiero in sul diviso arringo
L’avversario mirando a lui di fronte
Qual fondato edificio alzar le membra,
460Nell’impavido sen crescer più sente
L’anima avvezza; agli allenati fianchi
Batte le palme; le nodose braccia
Brandisce, e ardente di slanciarsi il primo,

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Vibra all’aure sonanti il pugno e il grido.
465Precorreva l’eroe gli anni; ed al volo
Di splendide speranze il cor donando,
Nuovi trionfi del Pensier vedea
Su la bieca natura; e: — Verrà giorno,
Madre altera, dicea, che queste occulte
470Tue sedi, onde ti piaci, e la feroce
Verginità di questi boschi al rito
Dei nostri aratri ubbidiran. Da queste
Sconosciute vallèe, mutati in lievi
Allo spiro dei venti ampj navili,
475Quest’ardui tronchi correran su’ flutti;
E rigogliose e riverite, assai
Più di queste a te sacre are romite,
Genti e città qui fioriranno al regno
Di benefiche leggi. Accorto e cinto
480Di novo ardir qui nel tuo grembo, aperto
Dall’industri fatiche, e monti e abissi
Sorvolerà l’uman genio; e tu, rasa
Di ciechi orgogli, ov’or superba e ignota
Spieghi nell’ombre il tuo possente impero,
485Sotto auspicio miglior sorger vedrai
L’opre e i commerci dell’aríane genti. —
    Così dicea, gli anni veggendo, allora
Che tra’ folti cespugli, in capo al verde
Tortuoso sentiero un gli si offerse
490Pensieroso pitèco. A un’indíana
Canna appoggiato, a lenti passi e gravi
Egli si avanza, in guisa d’uom che al peso
D’un ingrato pensier l’animo inchini.
Al rigido cipiglio, alla rugosa
495Faccia, ov’ispida e grigia al muso intorno
Fa due siepi la barba, un lo diresti




Al rigido cipiglio, a la rugosa
Faccia, ove ispida e grigia al muso intorno
Fa due siepi la barba...

(pag. 171)


Anacoreta pio: tal forse apparve
Il santo onor dell’arenosa Coma,

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Quando, schivo del mondo, a’ più deserti
500Lochi a far guerra co’l dimòn si addusse.
    Visto appena l’Eroe, forte uno strillo
Mise, e incontro balzògli, a quella forma
Che al petto del fratel corre il fratello,
Poi ch’oltre i monti e i mari errò lunghi anni
505Fuor del tetto paterno. Si ritrasse
Lucifero, e al bizzarro ospite a mezzo
Con la riversa man lo slancio ardito
Troncò. Di subita ira egli s’accese,
La sottil coda saettò, battè
510Rapidamente le palpebre bianche
E i labbri tenuissimi; e tal voce
Quasi umana mandò, mentre nel chiuso
Della foresta si perdea, che agli alti
Nascimenti dell’uomo, e alle radici
515Di quanto sotto il Sol palpita e piange,
Il pensier dell’eroe tosto si volse.
Una catena interminata, ei pensa,
Che infaticabilmente il tempo ordisce
Negli spazj infiniti, ecco il gran tutto:
520Sassi, piante, animali, ecco gli anelli;
Odio ed amore, ecco la forza e il moto,
Ecco il senso e la mente. O senza nome
Infinita, io son tuo: palpita in ogni
Tua specie, in ogni tua fibra una parte
525Dell’esser mio; palpita in me la somma
D’ogni tua creatura: onde il mio breve
Cervel, di tante forze ultimo erede,
Te scruta e doma, e come vivo specchio
L’eternità, l’infinità riflette.