Memorie di Carlo Goldoni/Parte seconda/IX

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Carlo Goldoni - Memorie (1787)
Traduzione dal francese di Francesco Costero (1888)
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CAPITOLO IX.

Pamela, commedia di tre atti in prosa e senza maschera. — Analisi della medesima. — Il Cavalier di buon gusto, commedia di tre atti in prosa. — Suo mediocre successo.— Epilogo di questa commedia. — Il Giuocatore, in tre atti. — Sua caduta. — Proibizione dei giuochi d’azzardo e soppressione del ridotto a Venezia.

Fino da qualche tempo il romanzo della Pamela era la delizia degli Italiani, e tutti gli amici mi tormentavano perchè io ne facessi una commedia. Conoscevo quest’opera, e non mi dava fastidio il trarne partito, affine di colpire le menti e ravvicinarne gli oggetti. Lo scopo morale però dell’autore inglese non conveniva ai costumi e alle leggi della mia nazione. A Londra un lord non deroga punto alla nobiltà sposando una contadina, laddove a Venezia un patrizio che sposi una plebea, priva i figli del patriziato e perde ogni diritto alla sovranità. La commedia, che è, o dovrebbe almeno essere la scuola dei costumi, non deve esporre le debolezze umane se non per correggerle, onde non conviene arrischiare il sacrifizio d’una posterità disgraziata sotto pretesto di ricompensare in tal guisa la virtù. Avevo dunque rinunziato affatto all’illusione di questo romanzo; ma poi nella necessità in cui ero di moltiplicare soggetti, e sollecitato in Mantova e a Venezia da persone che continuamente m’incitavano a lavorarvi, vi condiscesi di buon grado. Non mi accinsi però all’opera se non dopo aver immaginato uno scioglimento, che, lungi dall’essere pericoloso, potesse anzi servire di modello ai virtuosi amanti, e render la catastrofe soddisfacente e piacevole nel tempo stesso. Apre la scena Pamela con Jevre, vecchia governante di casa: essa piange la sua padrona morta da qualche mese, e così pone al fatto il pubblico della sua condizione. Essa è una campagnuola, che miledi aveva presa in qualità di cameriera, ma che amava qual figlia, e alla quale aveva procurato una educazione al di sopra della sua condizione. Cade il discorso sopra il figlio della defunta, e Jevre fa sperare a Pamela che milord Bonfil mai dimenticato non avrebbe a di lei riguardo le raccomandazioni della madre. Mediante alcune interrotte espressioni accompagnate da qualche sospiro, Pamela lascia trasparire la sua inclinazione per il giovine padrone. Vuol abbandonare Londra, vuol ritornare nel seno della sua famiglia, ed ecco il contrasto dell’amore e della virtù. Nel corso della commedia vedesi il giovane lord ardere del fuoco medesimo di Pamela. Essa è saggia. Milord fa i tentativi possibili per sottoporla ai suoi voleri, ma Pamela è immutabile, ed egli divien furioso. Miledi Dauvre, sorella di milord Bonfil, si accorge della passione del fratello e gli chiede Pamela. Esita Bonfil da principio; acconsente, e poi revoca il consenso: chiude Pamela; ed eccolo nella più grande agitazione. L’amico suo lord Artur va un [p. 168 modifica] giorno a trovarlo, e ben si avvede dell’interno rammarico di lui; procura di sollevarlo e gli propone nel tempo stesso tre differenti partiti per ammogliarsi; Bonfil non ne trova alcuno di suo genio. Segue tra questi due amici una scena che è una specie di discussione sopra la scelta della moglie, sulla libertà inglese, e sugli inconvenienti delle unioni ineguali relativamente alla successione. Quest’ultimo articolo fa sensazione sull’animo di Bonfil, e ne è vivamente colpito; ma non sa determinarsi a rinunziare a Pamela. Essa aveva scritto a suo padre, e lo avea informato del suo impaccio, de’ suoi timori. Giunge egli intanto, si presenta a milord, gli chiede la figlia, e milord ricusa renderla. Andreuve (così chiamasi il vecchio) domanda seriamente a milord, quali mire abbia sopra di lei. Milord confessa allora la sua passione, ama Pamela, e si reputerebbe felice se potesse farla sua moglie; non l’interesse pertanto, ma la sua condizione e la sua nascita glie ne impedisce il contento. Il vecchio, commosso dai sentimenti di milord, veduto il momento di far la felicità di sua figlia, gli confida il suo più gran segreto. Andreuve non è il suo nome; egli è il conte d’Auspingh scozzese, che nelle rivoluzioni di quel regno fu annoverato tra i ribelli della corona britannica, e si salvò sulle montagne d’Inghilterra, comprando, col danaro restatogli, terreno bastante per lavorare e sussistere. Egli dà prove del suo antico stato, e cita testimoni tuttora viventi che ben lo possono riconoscere. Milord esamina le carte, vede i testimoni, sollecita la grazia per l’uomo proscritto, l’ottiene senza difficoltà, e sposa Pamela: ecco la virtù ricompensata, ecco salva la convenienza. Il più singolare di questa commedia però si è, che dopo tale riconoscimento in cui dovrebbe appunto aver termine l’azione, secondo le regole dell’arte, vi sono anzi alcune scene, le quali, invece di annoiare, divertono quanto le precedenti e forse anche più.

Pamela ignora tutto quello che è seguito fra Bonfil e suo padre: non riconosce il suo nuovo stato, ed è pronta a lasciare l’amante: questi si diverte a tormentarla; dice che è per ammogliarsi, che è per isposare la contessa d’Auspingh, e ne fa egli stesso l’elogio. Pamela è in angustie: in questo tempo giunge il padre di lei e la anima ad abbracciare milord; ma essa nulla comprende: si cerca di porla al fatto di tutto, ed essa non crede; la saluta Jevre col nome di padrona, e miledi Dauvre viene a farle il suo complimento; insomma Pamela è assicurata della sua felicità: sempre però modesta e riconoscente, varia condizione, ma non varia carattere. Non ho fin qui fatto menzione di un personaggio che infinitamente ravviva il serio della commedia. Il cavalier Hernold, nipote di miledi Dauvre, giovine inglese che aveva fatto di fresco il giro di Europa, porta seco per mancanza di principii e di cognizioni tutte le ridicolezze de’ paesi che ha percorsi. Va in casa di Bonfil, lo trova a prendere il tè in compagnia; comincia a parlare della vivacità francese e si burla del serio de’ suoi compatriotti; gli si esibisce del tè ed egli lo ricusa, vantando la cioccolata di Spagna ed il caffè di Venezia; non farebbe altro che ciarlare, tien discorso della galanteria di Parigi, dei divertimenti d’Italia, e loda molto gli arlecchini, trovando le arlecchinate piene di grazia. Tutti quelli della conversazione si annoiano e se ne vanno. Ecco, dice allora a Bonfil il cavaliere, ecco persone che non hanno viaggiato. — Se voi, o signore, aveste fatto precedere ai viaggi, risponde Bonfil, lo studio e le cognizioni, non avreste certamente limitate le vostre osservazioni alla sola galanteria francese, ed alle arlecchinate italiane — La Pamela, secondo la definizione dei Francesi, è piuttosto un [p. 169 modifica] dramma; ma il pubblico la trovò dilettevole, ed essa riportò la palma sopra tutte le mie opere fino a quel tempo rappresentate.

Dopo una commedia di sentimento, ne feci immediatamente succedere un’altra relativa agli usi della società civile, intitolata: Il Cavalier di buon gusto, titolo che si poteva tradurre in francese L’Homme de goût. È vero che questo titolo darebbe in Francia la idea di un uomo istruito nelle belle arti, laddove l’italiano di buon gusto o come lo dipinge la mia commedia, è un uomo di mediocre fortuna che trova il mezzo di avere una deliziosa casa, servitù scelta, un eccellente cuoco, e comparisce nella società qual uomo ricchissimo, senza però far torto ad alcuno, e senza dissestare i propri affari. Non mancano curiosi che vorrebbero indovinare il suo segreto; vi sono anche maldicenti che osano denigrare la sua reputazione: e questi sono nel numero di quelli che più frequentano la tavola di lui, e continuamente profittano della sua generosità. Il conte Ottavio protagonista, è un uomo di una certa età, molto allegro, molto piacevole, e che scherza sempre col bel sesso senza voglia o timore di contrarre impegni. Amministra le sostanze di un suo nipote, la madre del quale non ama troppo il cognato. Essa incute diffidenza nell’animo di suo figlio a riguardo dello zio. Il conte se ne accorge, ride, e per togliere affatto di speranza la vedova di suo fratello, le fa credere che è per ammogliarsi quanto prima in pregiudizio del suo erede. Getta su tal proposito qualche lontana ed ambigua proposizione, ma tutte le volte che si tratta di manifestare l’oggetto del suo cuore, presenta per sua bella Pantalone, mostrando un suo trattato di commercio con questo negoziante, dal qual traffico ricava capitali sufficienti per sostenere la vita elegante che gode. Le scene che direttamente riguardano il Cavalier di buon gusto sono piacevolissime; istruisce, per esempio, il suo segretario, corregge il bibliotecario, addestra il suo nuovo maestro di casa e licenzia i servitori cattivi e ricompensa i buoni. Queste son piccole lezioni che giovano senza annoiare. Questa commedia, benchè riuscisse molto bene, ebbe però la disgrazia di succedere a Pamela che aveva fatto delirar tutti; riportò infatti un più felice incontro nella sua replica l’anno dopo. L’istesso accadde a quella del Giuocatore, nona commedia del mio impegno, che non essendo mai potuta risorgere come la sua antecedente, la giudicai, standomene al pubblico, commedia andata a terra senza riparo. Avevo inserita con molta felicità anche nella commedia del Caffè, terza commedia di quell’anno, una parte da giuocatore, che fu sostenuta a viso scoperto dal nuovo Pantalone nel modo più piacevole; ma, essendo di parere di non aver detto abbastanza sopra questa disgraziata passione, mi proposi di trattar questa materia a fondo: nonostante, il giuocatore episodico del Caffè prevalse a quello che nell’altra commedia era il soggetto principale. Bisogna però aggiungere che in quel tempo eran tollerati in Venezia tutti i giuochi d’azzardo, ed era in voga il famoso ridotto, che arricchiva questi, e rovinava quelli, ma richiamava giuocatori dalle quattro parti del mondo e faceva girare molto danaro. Sarebbe stato perciò inopportuno mettere allo scoperto le conseguenze di questo pericoloso divertimento, e molto più la mala fede di certi giuocatori unitamente agli artifizi dei mezzani di giuoco; onde in una città di dugento mila anime la mia commedia non poteva far sì che non avesse molti nemici. Tutto in un tempo la Repubblica di Venezia proibisce i giuochi d’azzardo e sopprime il Ridotto. Vi saranno forse dei particolari, che si lamenteranno di [p. 170 modifica] questa abolizione, però basterà sempre il dire, per provarne la saviezza, che quei medesimi del Gran Consiglio che amavano il giuoco, diedero nonostante i loro voti per l’esecuzione del nuovo decreto. Non pretendo già di scusare con questo discorso la caduta della mia commedia, mendicando ragioni estranee; essa cadde, dunque era cattiva, e non è poco per me che di sedici commedie andasse a terra questa sola. Il pubblico richiedeva sempre Pamela. Questa sola volta ricusai di contentarlo: troppo mi premeva di adempiere al mio impegno, trovandomi ancora sette rappresentazioni nuove da dare. Sapevo bene che i miei partitanti me ne avrebbero condonate alcune per la soddisfazione di tornare a vedere quella dalla quale erano stati divertiti; ma i malvagi mi avrebbero insultato; onde preferii la gloria di confondere i miei nemici, al dolce piacere di appagare il desiderio de’ miei partigiani. Ero quasi sicuro dell’incontro della commedia che davo, la feci dunque annunziare, la pubblicai negli affissi con tutta fiducia, nè m’ingannai.