Memorie di Carlo Goldoni/Parte seconda/VIII
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CAPITOLO VIII.
- Il Bugiardo, commedia di tre atti ed in prosa, ad imitazione del Bugiardo di Cornelio. — L’Adulatore, commedia di tre atti ed in prosa. — Estratto di questa rappresentazione. — La Famiglia dell’Antiquario, commedia come sopra. — Suo compendio. — Traduzione fattane da un autore francese.
Nel tempo in cui cercavo da per tutto soggetti da commedia, mi ricordai di aver veduto recitare a Firenze in un teatro di dilettanti il Bugiardo del Cornelio, tradotto in italiano; e siccome una composizione veduta recitare si tiene a memoria sempre più facilmente, mi ricordavo benissimo di quei luoghi che più mi avevano colpito, rammentandomi inoltre di aver detto nell’atto di sentirla: questa è una buona commedia, ma il carattere del bugiardo potrebbe trattarsi in una maniera più comica. Siccome non avevo tempo di star perplesso sulla scelta degli argomenti, mi determinai a questo, somministrandomi l’immaginazione, in me allora pronta e vivissima, tal fecondità comica, che mi era perfino venuta la tentazione di creare di pianta un nuovo Bugiardo. Ma rinunziai a questo disegno. Presane la prima idea da Cornelio, rispettai il maestro e mi feci un onore d’intraprendere tal lavoro sulle tracce di lui, aggiungendo soltanto quello che mi pareva necessario per il gusto della mia nazione e per la durata della rappresentazione. Immaginai, per esempio, un amante timido, per cui risalta infinitamente l’audace carattere del bugiardo, ponendolo in certe scene molto comiche. Lelio adunque, che è il bugiardo, arriva in Venezia al lume della luna, e sentendo una serenata sul canale, si ferma per goderne. Questo era un divertimento ordinato per Rosaura sua bella da Florindo, che per timidezza non voleva comparirne l’autore. Lelio in questo mentre vede a una terrazza due donne: si accosta, entra con esse in discorso, e trova entrambe molto di suo piacere; fa cadere in bella maniera il discorso sopra la serenata di quella sera, e sente che le signorine non sanno indovinare chi ne sia l’autore; onde Lelio si arroga modestamente il merito di aver loro procurato un simile divertimento. Non avendo le due sorelle la menoma conoscenza di lui, Lelio dà loro francamente ad intendere di ritrovarsi in Venezia da lungo tempo e di essere amante: gli si chiede di quale di loro due, ma ecco appunto il segreto che non può ancora manifestare. Questa scena è a un dipresso l’istessa di Cornelio, infatti mi tenni esattamente sul medesimo piede di quella fatta dall’autore tra il bugiardo e il padre. Oltre a ciò nella scena decima sesta del second’atto vi è un sonetto dell’amante timido che mette nel massimo impaccio il bugiardo. Florindo, sempre amante e sempre timido, non osando dichiararsi apertamente, getta un foglio sulla terrazza della sua bella con alcuni versi, i quali, benchè non lo nominino addirittura, sono tali però da farne ben supporre l’autore. Rosaura si accorge del foglio, lo apre, legge, ma nulla comprende. Giunge appunto Lelio, e le dimanda che cosa legge. Un sonetto, essa risponde, indirizzato a me; ma non ne raccapezzo l’autore. Le chiede allora se trova i versi ben fatti, tenero e rispettoso lo stile. Rosaura ne sembra contenta, onde Lelio non esita un momento ad arrogarsene il merito. Nei versi di Florindo però vi son certe proposizioni contraddenti tutto quel che Lelio aveva spacciato fin allora. Ecco il bugiardo in imbroglio, rivolge però con tanta destrezza tutte le espressioni a suo favore, che arriva finalmente a farsi credere l’autore. Non riporterò il sonetto di Florindo, nè le sottigliezze di Lelio, perchè si può legger tutto questo nell’originale già stampato. Terminerò bensì il mio estratto con assicurare il lettore che questa scena ebbe molto incontro, e la rappresentazione tutto il successo desiderabile. L’argomento del Bugiardo, di carattere assai più comico che vizioso, me ne suggerì un altro molto più malvagio e pericoloso: parlo dell’Adulatore. In Francia quello del Rousseau non incontrò punto, ed il mio in Italia fu benissimo accolto, ed eccovene la ragione. Il poeta francese avea trattato quest’argomento più da filosofo che da autor comico, laddove io, inspirando orrore per un vizioso, aveva cercato i modi di ravvivare la commedia con episodi comici ed arguti concetti. Don Sigismondo, ch’è l’adulatore, occupa la carica di primo segretario di don Sancio governatore di Gaeta nel regno di Napoli. Questo don Sancio è un uomo spensierato; donna Luisa sua moglie, ambiziosa, e Isabella loro figlia una stordita, senza ingegno ed educazione. Il segretario le conosce a fondo, le adula, le inganna, e trae partito dalle loro debolezze ad oggetto di assicurare maggiormente la propria sorte.
L’adulazione di questo cattivo soggetto non si limita alla sola casa di cui si è già reso padrone; procura anche per la città di avere dalla sua i mariti per poi corrompere le mogli, profittando dell’imbecillità del suo principale per allontanar le persone che non gli vanno a genio. Non è già adulatore per l’unico piacere di esser tale, come è appunto il cattivo del Gresset, poichè nella sua commedia l’adulazione altro non è che il mezzo di giungere a soddisfare i suoi vizi. È orgoglioso, libertino, e avido di danaro nel tempo stesso; e quest’ultima passione lo conduce alla sua rovina. Ha la bassezza di far diminuire le provvisioni della gente di servizio del governatore per aumentare il proprio guadagno. I domestici s’indirizzano a lui per riparare a questo loro danno. Son benissimo accolti, sono blanditi, accarezzati; ma nulla concludono. Questi disgraziati adunque fanno tra loro lega, e conoscendo bene l’autore della lor perdita, gridano vendetta. Si discorre subito di fucilate, di coltellate. Il cuoco prende l’impegno di avvelenarlo ed eseguisce l’idea. Ecco don Sigismondo vittima della propria malvagità; muore però pentito, confessa i suoi falli, e don Sancio riconosce i propri: la sola governatrice piange la perdita dell’Adulatore. Mi dispiaceva di esser stato obbligato ad usare il veleno per lo scioglimenlo di questa commedia, ma dall’altro canto non potevo far diversamente. Lo scellerato meritava castigo; essendo egli protetto dal governatore e non bastantemente noto alla Corte di Napoli, immaginai un genere di morte che avevasi ben meritato. D’altra parte la mia riforma non era ancora giunta a quel punto a cui finalmente la condussi di lì a poco. Osavo adunque di tempo in tempo qualche licenza del gusto della nazione, sempre però contento, quando trovavo uno scioglimento naturale e da far colpo.
Ma eccovi ora una commedia di genere affatto diverso dalla precedente: ella è desunta dalla classe dei ridicoli, alternativa opportuna nella produzione successiva di molte opere. Questa è La famiglia dell’Antiquario, e la sesta delle sedici ideate. L’intitolai più semplicemente da principio L’Antiquario essendone egli infatti il protagonista; ma temendo che i litigi fra sua moglie e sua nuora non dividessero la pubblica attenzione, diedi alla commedia un titolo che comprende vari soggetti in una volta, molto più che le ridicolezze delle due donne e quella del capo di famìglia, si davan la mano e contribuivano del pari alla moralità e all’andamento comico dell’opera. Il nome di Antiquario si dà in Italia tanto a chi dottamente si occupa allo studio delle antichità, quanto a chi raccoglie senza intelligenza copie per originali ed inutilità per monumenti preziosi; il mio soggetto è ricavato appunto da questi ultimi. Il conte Anselmo, molto più ricco di danaro che di cognizioni, diviene amante di quadri, di medaglie, di pietre incise, e di tutto ciò che apparisce raro ed antico. Si fida di birbanti, che lo ingannano, e mette insieme con una spesa grandissima una ridicola galleria. Ha poi una moglie, la quale, benchè in procinto di esser nonna, ha tutte le pretensioni della gioventù; onde la nuora, che non può soffrire la subordinazione, freme di non esser la padrona assoluta. Il conte Giacinto, figlio dell’una e marito dell’altra, non osando dare il menomo dispiacere a sua madre, e dall’altro canto volendo contentare sua moglie, trovasi imbrogliatissimo e fa le sue lagnanze al capo di casa. Questi è seriamente occupato sopra un Pescennio, medaglia rarissima, da lui appunto comprata allora allora a caro prezzo, e ch’era falsificata, onde rimanda il figlio bruscamente, nè si prende briga dei pettegolezzi della famiglia. Frattanto vanno sì oltre le cose, che l’Antiquario non può più esimersi dall’occuparsene; ma non volendo stare a tu per tu con donne così poco ragionevoli, chiede un congresso di famiglia. È fissato il giorno, e vi concorrono anche parecchi amici comuni: uno dei primi è il figlio, e l’ultime a comparire sono le signore accompagnate dal respettivo loro cicisbeo. Tutti prendono posto. Il conte Anseimo è nel mezzo del circolo, e comincia il discorso sulla necessità della pace domestica; ma nel voltarsi a diritta e a sinistra, pone gli occhi sopra un cammeo appeso alla catena dell’orologio della sua nuora. Crede subito di scorgervi una preziosa antichità, onde vuol vederlo più dappresso; lo scioglie, tira fuori la sua lente, esamina il gioiello, vi vede una bellissima testa, e bramerebbe farne acquisto. Gli vien subito ceduto il cammeo; egli va in estasi dal contento, e fa i suoi ringraziamenti alla nuora: sua moglie, di ciò offesa, si alza e parte. Ecco finita l’assemblea; è rimessa dunque la grande questione a un’altra seduta.
Succedono in questo intervallo molte cose disgustose per l’Antiquario; egli mostra la sua galleria ad alcuni intendenti dai quali viene fatto chiaro del suo errore e disingannato; egli ne è pienamente convinto e renunzia alla sua follia. Quindi conoscendo la necessità di ristabilire la pace nella sua casa, intima una seconda assemblea, e tutti al solito vi concorrono. Vengono proposti molti modi; dispiacciono gli uni alla suocera, e gli altri son rigettati dalla nuora; ma se ne trova finalmente uno, soddisfacente ad entrambe, e consiste nello stabilire due famiglie, e così separare le due donne per sempre. Rimangono tutti contenti, e in questa maniera termina la commedia.
Alcuni anni dopo vidi recitare a Parma questa commedia, tradotta in francese dal signor Collet, segretario di gabinetto di S. A. R. l’infanta. Questo autore, stimabilissimo per tutti i riguardi, e conosciutissimo a Parigi per varie belle opere da lui esposte sul teatro francese, ha tradotto con la maggior perfezione la mia composizione, e senza dubbio è quegli appunto che l’ha fatta valere qualche cosa. Ne variò bensì lo scioglimento, perchè fu d’opinione che questa commedia finisse male, lasciando partire la matrigna e la figliastra fieramente scorrucciate, onde ne fece veder sulla scena la riconciliazione. Se questa pace fosse potuta essere stabile, avrebbe fatto molto bene; ma chi può assicurare che queste due capricciose donne non rinnovassero un momento dopo le loro controversie? Forse sarò in errore, ma pure son d’opinione che il mio scioglimento sia propriamente in natura.