Memorie di Carlo Goldoni/Parte seconda/V

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Carlo Goldoni - Memorie (1787)
Traduzione dal francese di Francesco Costero (1888)
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CAPITOLO V.

Prova della Vedova scaltra. — Parodia critico-satirica di questa commedia. — Mia apologia. — Mio trionfo. — Quando fu instituita la censura delle rappresentazioni teatrali in Venezia.

Avevo esposte composizioni d’un esito felicissimo, veruna di esse però poteva vantar quello della Vedova scaltra; ma nessuna di esse aveva incontrato critiche sì forti e pericolose. I miei nemici e quelli de’ comici, tentarono un colpo dal quale potevamo esser tutti in egual modo oppressi, se non avessi avuto coraggio bastante per sostenere la comune causa. Alla terza prova di questa commedia comparvero gli affissi del teatro San Samuele, che annunziavano La Scuola delle Vedove. Alcuni mi avevano detto che doveva essere la parodia della mia composizione. Nulla di questo, anzi era la mia Vedova istessa; vi avean parte i quattro forestieri delle rispettive nazioni, vi era l’intreccio medesimo, i mezzi stessi. Tutta la variazione consisteva nel dialogo, che era pieno d’invettive e di insulti contro me ed i comici.

Un attore recitava alcune frasi del mio originale, e un altro soggiungeva sciocchezze, sciocchezze; si ripeteva qualche vivace espressione e facezia della mia commedia, e tutti allora in corpo gridavano scempiataggini, scempiataggini. Un lavoro simile non era costato all’autore molta pena, poichè aveva seguitato il mio disegno, il mio andamento, ed il suo stile non era niente più felice del mio; frattanto gli applausi risonavano per ogni parte, ed i sarcasmi e i tratti satirici eran fatti risaltar maggiormente dalle risate, dai gridi di bravo e dai replicati battimani. Io me ne stava in maschera in un palchetto, osservando il più rigido silenzio e chiamando ingrato il pubblico. Avevo però tutto il torto, poichè quel pubblico congiurato contro di me, finalmente non era il mio.

Infatti tre quarti degli spettatori eran composti di gente unicamente intesa alla mia rovina, e poi tanto il Medebac quanto me avevamo a combattere con sei altri spettacoli che si davano nella città medesima; ognuno di essi aveva i suoi amici, i suoi aderenti, e la maldicenza dava divertimento agli indifferenti. Presi nel momento stesso la mia risoluzione, e benchè avessi data parola di non rispondere alle critiche, pure questa volta sarebbe stata troppa viltà dal canto mio, se non avessi arrestato il corso a quel torrente che minacciava la mia distruzione. Rientro in casa, dò i miei ordini perchè si ceni, si vada a letto, e mi si lasci in quiete, e mi chiudo subito nel mio studiolo. Prendo con rabbia la penna, nè la depongo fino a che non mi credo soddisfatto. Il mio lavoro era una apologia in azione con un dialogo a tre personaggi, intitolata Prologo apologetico della Vedova scaltra. Non mi estesi sulla meschinità della composizione de’ miei nemici, ma procurai di far conoscere unicamente il pericoloso abuso della libertà degli spettacoli, e la necessità d’un provvedimento politico per la conservazione della decenza teatrale. Avevo fatto attenzione in quella pessima parodia a certe proposizioni, che ferir dovevano la delicatezza della Repubblica riguardo ai forastieri. Il popolo di Venezia si serve, per esempio, della parola panimbruo per insultare i Protestanti; questa è una parola vaga, come quella a un dipresso di Ugonotto in Francia; il gondoliere di milord adunque, nella Scuola delle Vedove, trattava [p. 159 modifica] di panimbruo il suo padrone, nè si risparmiava verun altro forestiero; ond’ero sicuro che le mie osservazioni non potevano fare andare a vuoto lo scopo propostomi. Dopo aver così sostenuto l’interesse della società civile, passai a trattare la mia causa, provando l’ingiustizia che mi si faceva soffrire, ribattendo con brave ragioni le critiche fattemi, e rispondendo alle impertinenti satire con osservazioni onestissime. Messa in ordine la mia apologia, non andai già a presentarla al governo per evitare così tutti i contrasti delle giurisdizioni e protezioni, ma mandai addirittura alle stampe il mio libretto indirizzando solamente al pubblico i miei lamenti. Non era possibile che tenessi celata la mia idea, onde si riseppe, si temè, e si fece il possibile per impedirne l’esecuzione.

Il protettore di Medebac era un soggetto del primo ordine della nobiltà e nelle prime cariche di Stato, il quale avrebbe dovuto favorirmi: ma egli temeva, all’opposto, che la mia temerità non cagionasse la mia perdita non meno che quella del suo protetto; onde mi fece l’onore di venire a trovarmi, mi consigliò a ritirare subito il prologo; e vedendomi tenace, fecemi la confidenza che correvo rischio di dispiacere al tribunal supremo che ha la presidenza della gran polizia dello Stato. Ero così fermo nella mia risoluzione che nulla poteva rimuovermi; risposi pertanto colla massima franchezza a sua eccellenza, che il mio lavoro era già alla stampa, e che lo stampatore doveva esser cognito, onde il governo poteva togliergli il mio manoscritto; ma che per altro sarei subito partito io medesimo all’oggetto di farlo stampare in qualche paese estero. Questo signore restò veramente stupito della mia fermezza; e siccome già mi conosceva bene, mi usò la grazia di rapportarsi al mio parere; mi prese confidenzialmente per la mano, e mi lasciò padrone della mia volontà. Il giorno seguente compare il mio libretto, di cui aveva fatto tirare tremila esemplari, che senza indugio feci distribuire gratis a tutti i casini di conversazione, alle porte degli spettacoli, ai miei amici, ai miei protettori, e a tutti i miei conoscenti. Ecco il resultato della pena che m’ero data, ed ecco il mio trionfo. Fu soppressa subito la Scuola delle Vedove, e due giorni dopo fu pubblicato un decreto del governo che ordinava la censura delle produzioni teatrali. La mia Vedova scaltra andò dunque avanti con maggiore strepito e concorso di prima; così furono umiliati i nostri nemici, e noi raddoppiammo di zelo e di attività. Se il mio lettore fosse, desideroso di conoscere l’autore della Scuola delle Vedove, non potrei soddisfarlo. Io non nominerò mai quelle persone le quali hanno avuto l’intenzione di farmi del male.


CAPITOLO VI.

L’Erede fortunata, commedia di tre atti, ed in prosa. — Sua caduta. — Partenza del Pantalone Darbes. — Mio impegno col pubblico.

Eravamo prossimi alla fine del carnevale del 1749, e andavamo avanti a maraviglia con la superiorità su tutti gli altri spettacoli; ma dopo la battaglia da me sostenuta e la riportata vittoria, mi abbisognava un componimento di strepito per coronare il mio anno.

Troppo aveami tenuto occupato la malignità de’ miei nemici perchè io potessi dare esecuzione all’idea di una chiusura magnifica da me sbozzata già da qualche tempo. Non volevo perciò