Memorie di Carlo Goldoni/Parte seconda/IV

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Carlo Goldoni - Memorie (1787)
Traduzione dal francese di Francesco Costero (1888)
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Parte seconda - III Parte seconda - V

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CAPITOLO IV.

La buona moglie, seguito della Putta onorata, commedia veneziana di tre atti, ed in prosa. — Suo felice successo. — Aneddoto di un giovine convertito. — Pensieri sopra i soggetti popolari. — Il Cavaliere e la Dama, o i Cicisbei, commedia in tre atti in prosa. — Suo buon successo. — Critica di un incidente della medesima commedia.

La Putta onorata, con la quale si era chiuso il teatro nell’anno comico 1748, fece con la sua ripetizione l’apertura dell’anno seguente, sostenendosi sempre con l’istessa buona sorte, nè cessò che per dar luogo alla prima rappresentazione della Buona moglie. Questa commedia era il seguito della precedente; infatti i personaggi venuti in scena nella prima, comparivano pure in questa, e mantenevano il consueto loro stato e i respettivi loro caratteri; altro non eravi che Pasqualino, il quale strascinato al vizio dalle cattive pratiche, aveva mutato affatto costumi e condotta. Apre la scena Bettina, accanto alla culla del suo bambino, lo bagna delle sue lacrime, e si lamenta del suo caro marito. Egli giuoca, si rovina, dorme fuori di casa; ed essa, benchè in disperazione, non tralascia di amarlo.

Pantalone aveva dato alcuni capitali a suo figlio per intraprendere un piccolo traffico. Pasqualino dissipa quasi tutto; Lelio ed Arlecchino lo seducevano, vivendo a spese di lui, e facendo pagare al medesimo tutte le ricreazioni, delle quali essi eran sempre i promotori. Costoro lo conducono un giorno all’osteria con donne sospette, e con compagni dissoluti e libertini. Giuntane a Pantalone la notizia, si porta subito a sorprenderli; Pasqualino si nasconde alla vista del padre, e i commensali partono; Arlecchino però, uomo di cattivo carattere, lo discopre, e seguita i compagni. Pantalone nel primo impeto avrebbe l’intenzione di dare sfogo alla sua collera, ma tornato in sè stesso, va fra sè dicendo: «Ah no; è necessario provar piuttosto la dolcezza; una tenera correzione vale forse più dei rimproveri e del castigo; vedrò mio figlio, gli parlerò da padre, nè cesserò mai di essere tale quando in lui riconosca ragione e cuor di figlio». Dopo ciò fa escire il giovane, che senza parole e tremante prende il mantello e vuol partire. «Fermatevi, gli dice il padre con aria di bontà e tenerezza, fermatevi, figlio mio, io non voglio nè sgridarvi, nè minacciarvi, e molto meno punirvi: conosco troppo bene che, sedotto dai cattivi consigli, avete scosso il giogo dell’obbedienza filiale, e che forse più non sono in grado di potere esercitare sopra di voi i miei diritti; vi prego dunque... Sì, mio caro figlio, io vi amo sempre, e solo vi prego di volermi prestare orecchio». Pasqualino commosso alle dolci maniere di suo padre, lascia cader qualche lagrima. Pantalone allora prende una sedia e fa sedere il figlio accanto a sè, gli dipinge al vivo il carattere delle sue conoscenze, gli fa il quadro dello stato in cui lo aveva ritrovato, e gli pone sottocchio il torto che faceva al suo nome, alla sua reputazione, a suo padre, alla tenera moglie, al caro figlio: Pasqualino si getta ai piedi del genitore ed è pentito: ecco dunque il padre al colmo della sua gioia.

Mi si fece credere che questa scena abbia prodotto in Venezia una conversione, facendomi ancora conoscere il giovane ch’era stato nel [p. 156 modifica] caso di Pasqualino, ed era ritornato in seno della propria famiglia. Se l’istoria è vera, convien dire che questo giovine prima di entrare al teatro avesse realmente nel suo interno qualche buona disposizione ad emendarsi, e che se la mia composizione potè contribuirvi in qualche parte, avvenne forse per l’espressione energica di Pantalone, che aveva l’arte di ricercare gli effetti e di commuovere i cuori al pianto. Ecco due felicissime rappresentazioni, il soggetto principale delle quali era stato da me desunto dalla classe del popolo. Cercavo di tenere dietro alla natura per tutto, trovandola sempre bella, quando in special modo mi somministrava modelli virtuosi e sentimenti della più sana morale. Eccovene però adesso una appartenente alla sublime arte comica intitolata: Il Cavaliere e la Dama.

Era molto tempo che io guardava con maraviglia quegli esseri singolari chiamati in italiano cicisbei, martiri della galanteria, e schiavi de’ capricci del bel sesso. La commedia di cui son ora per render conto, ha relazione ai medesimi particolarmente: bene è vero, che non potevo pubblicare nell’affisso il titolo di cicisbeo per non irritare preventivamente la numerosa brigata dei galanti: onde occultai la critica sotto il manto di due personaggi di virtuoso carattere posti a contrasto con altri ridicoli. Donna Eleonora d’illustre nascita, ma di mediocre fortuna, avea sposato un gentiluomo napoletano molto ricco, refugiato a Benevento per avere avuto la disgrazia di uccidere un uomo in duello, essendo per tal ragione confiscati tutti i suoi beni. La signora che null’altro avea portato in dote che nobiltà, si trova in cattive acque, tanto più che suo marito le domandava continuamente aiuti, e la lite intrapresa contro il fisco non era ancora al suo termine. Essa è donna di ammirabile saviezza, e d’una delicatezza senza pari: e poichè va debitrice della pigione di casa, spropriasi di alcune gioie per pagarla. Anselmo, proprietario della medesima, uomo avanzato in età e molto onesto, conoscendo la probità e indigenza della dama, ricusa di ricevere il suo avere: essa insiste, ma egli la prega con tal buona grazia, che trovasi obbligata a ritenere in mano il danaro. Giunge un momento dopo il procuratore di lei, e sotto pretesto delle spese occorse per la lite, le porta via fino all’ultimo soldo che avea già scorto colla coda dell’occhio sulla tavola. Don Rodrigo, persona di una delle primarie famiglie del regno di Napoli, professava per donna Eleonora molta considerazione ed affetto, ma non era suo cicisbeo: essa lo stimava in egual modo, lo vedeva di tempo in tempo in casa sua, ma non l’avrebbe mai sofferto in qualità dì galante. Quest’uomo rispettabile, che conosceva appieno la delicatezza di donna Eleonora, cercava pretesti per procurarle soccorsi, ma avendo essa bastante svegliatezza per accorgersene, trovava sempre buone ragioni per ischermirsi, senza alterezza e senza dar segno di ricusare i medesimi. Nondimeno parecchie dame della città, ciascuna col respettivo cicisbeo, credevano assolutamente che don Rodrigo fosse il favorito di donna Eleonora, e venuta ad esse la curiosità di sapere come si diportasse nell’assenza di suo marito, vanno un giorno a farle visita in compagnia dei loro cavalieri. Si vede in questa scena il marito di una essere il cicisbeo dell’altra, e si conosce la reciproca loro soddisfazione: si sentono i discorsi di quella compagnia galante, e si può così avere una idea dell’indole delle conversazioni di tal sorte. Ma ciò può conoscersi anche meglio ne’ soliloqui: ne riporterò pertanto un solo saggio che io ho preso dalla natura, e trovasi nella settima scena del primo atto. [p. 157 modifica]

Una signora maritata si lamenta col cicisbeo che il suo lacchè le ha mancato di rispetto: soggiunse il cavaliere che bisogna punirlo: A chi tocca, se non a voi, risponde la dama, farmi obbedire e rispettare dai miei domestici? La brevità, di cui son forzato a far uso negli estratti delle mie commedie, non mi permette di estendermi sulla parte episodica di questa composizione, onde convien passare al suo scioglimento. Muore il marito di donna Eleonora in Benevento: le dame sempre curiose non lasciano di portarsi a casa della vedova in compagnia dei loro cicisbei sotto pretesto di complimento. Non vi è guardaportone; e i servitori sono tutti in faccende: le signore adunque salgono liberamente, i cavalieri danno ad esse di braccio, ed entrano senza farsi annunziare. La padrona di casa è sorpresa; molte scuse, molte cerimonie, molta sensibilità affettata da una parte; molta riservatezza e gran contegno dall’altra. Giunge in questo mentre don Rodrigo; ecco in moto tutta la galante compagnia: gesti, cenni, tocchi di gomito, maliziosi sogghigni. Donna Eleonora stanca ed annoiata, chiede il permesso di ritirarsi; è troppo giusto, è troppo giusto, prendono tutte a dire le sue buone amiche; la povera dama è addolorata, toccherebbe a don Rodrigo a consolarla. Questo parlare è piccante per la vedova, onde prega don Rodrigo a lasciarla un momento in libertà: egli allora mostra una lettera del defunto, con la quale gli raccomanda la moglie, e lo prega, purchè la dama vi acconsenta, di succedere al posto di lui; le dame e i cavalieri animano a ciò la afflitta vedova: essa chiede un anno di tempo per determinarsi, e don Rodrigo è contento. I galanti si burlano di tal ritardo, e così termina la commedia. Questa composizione fu applaudita sommamente, ebbe quindici recite di seguito, e si chiuse con essa l’autunno. Mi aspettava sempre sussurri e lamenti, ma all’opposto le donne savie ridevano del carattere delle donne galanti, e queste rovesciavano il ridicolo sulle seguaci di donna Eleonora, alle quali davano il nome di donne rustiche e selvagge. Fui però censurato relativamente ad un aneddoto da me non inserito nell’estratto della commedia per non renderla troppo prolissa. Un giovane cavaliere pretendeva di essere il cicisbeo di donna Eleonora, era perciò deriso per tutte le conversazioni. Scommette un giorno un orologio d’oro, che sarebbe giunto a vincerla. Una proposizione di tal natura dà motivo ad una controversia con don Rodrigo, dopo la quale il giovine inconsiderato manda al medesimo un biglietto di sfida, di cui ecco la risposta, che appunto forma il soggetto di tutta la critica. «Tutte le leggi, o signore, mi proibiscono di accettare la vostra disfida. Se altro non vi fosse da temere che i gastighi, mi esporrei di buon grado a sopportarli al solo oggetto di convincervi del mio coraggio; ma il disonore unito al delitto di duellista, m’impedisce assolutamente di portarmi in un luogo determinato. Ho sempre al fianco una spada per difendermi e per respingere gli insulti. Voi dunque mi troverete sempre pronto a corrispondervi ovunque avrete l’audacia di provocarmi. Sono ecc.». Sosteneva l’autor della critica che don Rodrigo avesse mancato al punto d’onore; bene è vero però che egli non ardì manifestarsi; onde questo libello anonimo disparve il giorno dopo la sua apparizione.