Memorie inutili/Parte seconda/Capitolo IV
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CAPITOLO IV
Correva l’anno 1766, in cui il mio comico drappello, soccorso dalle sceniche mie bizzarre rappresentazioni, si era piantato nel teatro con tante batterie invincibili e in una dovizia di concorrenti tanto parziale e determinata che le altre comiche compagnie, sostenitrici de’ generi predicati colti e, al parer mio, piú incolti delle mie fiabe, traevano poco frutto dal picciolo numero de’ loro ammiratori o commiseratori.
Le opere del Chiari erano divenute, fuori da ogni abbaglio, agli orecchi di tutti, quelle ch’erano essenzialmente insino dalla nascita loro.
Quelle del Goldoni, non mai però senza qualche merito dalla giustizia dell’animo mio considerato, non facevano piú l’effetto anteriore sull’universale. Il pubblico trovava in esse della somiglianza con le da lui prima esposte. Si scorgeva in esse della miseria di idee, della languidezza, de’ difetti. Dicevasi ch’egli aveva vuoto e scosso il sacco.
La veritá è che l’andazzo chiarista e goldoniano, per il vizio di leggerezza degli umani cervelli, doveva avere il fine di tutti gli andazzi; e la veritá è che nell’Italia un poeta teatrale, per quanto favore egli abbia avuto nell’animo e nella opinione del pubblico, non deve lusingarsi di perseverare con una lunga sussistenza sulle nostre scene piú del Goldoni. Annoia il genere, annoia lo stile, annoia persino il suono del nome dell’autore prima gradito; e un genere di nuovo aspetto, non senza sali e non senza ripieno, ch’abbia la fortuna di piacere, cagiona una tal diversione che lo fa quasi dimenticare.
La non estesa o poca o superficiale o malferma educazione non lascia concepire alla generalitá del popolo italiano una stima solida per gli scrittori de’ nostri climi, specialmente teatrali, che sono soltanto guardati come sorgenti noncurabili d’un passeggero divertimento. Venezia supera ogn’altra metropoli dell’Italia in questa maniera di pensare.
Un veneto cittadino congratulandosi col Goldoni d’una sua commedia che aveva avuto un incontro felice, quasi vergognandosi d’essersi abbassato ad esprimere degli elogi a quel proposito, aggiunse, e presto: — Egli è vero che queste tali opere sono freddure che non meritano alcun riflesso, ma tuttavia concepisco ch’Ella deve aver avuta della compiacenza.
Il Goldoni aveva ragionevolmente ridotti i meschini comici italiani al pagamento di trenta zecchini per ogni opera teatrale che loro consegnava, efficace o inefficace ch’ella fosse. I miei teatrali capricci erano da me donati. È da credere che i capricci donati, i quali involavano i concorrenti all’opere pagate, facessero insolentire i comici pagatori contro un uomo che per ogni riflesso doveva essere rispettato. Anche da ciò si conosca la squalliditá dell’Italia in quest’argomento.
Il Chiari terminò di scrivere per i teatri, perché l’opere sue avevano terminato di far effetto. Il Goldoni è passato a Parigi, a cercare quella fortuna di cui egli renderá conto nelle memorie della sua vita; e la comica compagnia del Sacchi rimase attorniata dal concorso e dalla dovizia.
Parecchi cervelletti dicentisi sostenitori della coltura si sforzarono a imitare il Goldoni, ed ebbero quella sorte che dá un andazzo evaporato e che dá la picciolezza degl’ingegnetti snervati e pedanti.
Divenne una necessitá e una specie di legge di consuetudine dettata dalla mia amicizia il dare ogn’anno una o due rappresentazioni della mia penna arrischiata, per sostenere la fortuna di que’ comici che avevano sostenute con abilitá le mie poetiche fantasie. Anche i miei patriotti, che divertendosi s’erano compiaciuti di stabilire un andazzo di queste tali opere allegoriche sensate, meritavano la mia riconoscenza e la mia retribuzione.
Dopo l’ordita parodia d’abbozzo comico allegorico dell’Amore alle tre melarancie, e dopo il Corvo, il Re cervo, la Turandotte, i Pitocchi fortunati, aveva donati al Sacchi la Donna serpente, la Zobeide, il Mostro turchino, con un sempre maggiormente strepitoso ottimo avvenimento, sino all’anno sopraddetto 1766.
L’andazzo di quel genere desiderato e ubertoso, piantato nella sola compagnia del Sacchi e che danneggiava oltremodo le altre comiche compagnie, fece risolvere degli altri, chiamati poeti, a divenire imitatori (come suol avvenire negli andazzi teatrali) del mio genere, per soccorrere quelle compagnie.
Essi affidarono alle immense decorazioni, alle trasformazioni e alle agghiacciate buffonerie. Non intesero né il senso allegorico, né la urbana satira sul costume, né la forza dell’apparecchio, né la condotta, né lo spirito, né l’arte, né il vigore intrinseco del genere da me trattato. Dico: non intesero gl’ingredienti da me adoperati, per non dire: non ebbero la facoltá intellettuale di possederli né quella di saperli usare; e riscossero quel castigo nelle universali opinioni, che meritava il disprezzo da essi dimostrato a’ miei generi e a quel pubblico che gli aveva applauditi.
Un ammasso di maraviglie, d’assurdi, di scurrilitá, di prolissitá, di puerilitá, di snervatezze, e nonnulla significante, non fa un’opera scenica degna di far nelle menti alcuna durevole impressione; e la pubblica dimenticanza de’ generi imitati dai miei, e la poca resistenza in su’ teatri degli altri vari generi, o romanzeschi o famigliari o promotori del pianto o promotori delle risa, detti colti e verisimili, spesso incoltissimi e inverisimilissimi, quasi sempre l’uno all’altro somigliantissimi, che furono introdotti nel lungo corso di trent’anni tra noi; e il bene che fu scritto e stampato, e il male che fu scritto e stampato de’ miei generi; e la durevole comparsa con frutto che fanno ancora sulle nostre scene e sopra quelle delle altre nazioni, tradotti, ad onta della loro vecchiezza; e la scipita critica che seguono a fare anche oggidí gli affamati inetti scrittori per dar movimento alla miseria de’ lor fogli periodici, e quella degl’invidiosi accaniti eterni seccatori de’ diretani, loro condiscepoli, e che s’intendono di educazione de’ popoli appunto come i condiscepoli loro, dopo quasi trent’anni di sussistenza in sul teatro de’ miei generi (critica appoggiata soltanto a’ titoli fanciulleschi da’ quali sono coperti i miei generi e agli argomenti ch’io presi per semplice pretesto e per semplice letterario puntiglio dalle balie e dalle nonne); tutto dice che i miei generi favolosi, poetici, allegorici sono una qualche cosa, senza ch’io risenta la menoma presunzione per i miei generi né il menomo dispiacere per le interminabili censure derisorie in astratto che si fanno a’ miei generi, essendo io umano abbastanza per comprendere che per gli affamati e per gli appassionati si deve sentire della commiserazione.
Il Goldoni, ch’era a Parigi ad affaticarsi invano per far rifiorire il teatro italiano che esisteva allora in quella metropoli, sentendo il sussurro che facevano le mie favole nell’Italia, si è abbassato a spedire a Venezia una sua composizione favolosa, intitolata: Il genio buono e il genio cattivo. Ella fu rappresentata nel teatro in San Giovanni Grisostomo, ed ebbe la felicitá di un numero grande di repliche.
La cagione dell’incontro avventurato avvenne perch’ella conteneva dell’arte teatrale, de’ caratteri piacevoli, della morale e de’ tratti filosofici; e il buon avvenimento di quella non vorrá mai significare che il genere scenico favoloso allegorico sia spregevole.
Siccome però nel genere de’ cani, de’ pesci, degli augelli, de’ serpenti e va discorrendo, v’è una interminabile varietá e differenza di strutture, di colori, di mole e di nomi, che non tolgono loro la denominazione di cane, di pesce, d’augello, di serpente e va discorrendo, cosí nel genere scenico favoloso, tra Il genio buono e il genio cattivo del Goldoni e le mie Melarancie, il mio Corvo, il mio Cervo, la mia Turandotte, i miei Pitocchi fortunati, la mia Donna serpente, la mia Zobeide, il mio Mostro turchino, il mio Augel belverde, il mio Re de’ geni, ecc., v’è la medesima differenza di colori, di struttura, di mole, d’edifizio, senza perdere la denominazione di generi favolosi.
Al Goldoni, che s’è meritato della riconoscenza per la via de’ generi comici famigliari, non era concessa rinomanza per la via del genere favoloso poetico; né intesi mai la ragione per cui i miei ridicoli censori mi opponessero il buon effetto, che fu anche puramente effimero, de’ due Geni del Goldoni, colla lusinga di mortificare un orgoglio che non ebbi giammai.
Chi non vuole accertarsi non si accerti che il genere scenico favoloso, che interessi il pubblico e che resista in sui teatri, è il piú diffícile di tutti gli altri generi; e che se non contiene grandezza che imponga, arcano maestoso che incanti, novitá d’aspetto che fermi, eloquenza che inebbri, sentimenti filosofici sentenziosi, sali urbani di critica allettatrice, dialoghi usciti dal cuore, e sopra tutto la gran malía della seduzione che riduca ad un’illusione ingannevole di far comparire all’animo e alle menti de’ spettatori veritá l’impossibilitá, non lascerá mai in quel teatro dove egli viene esposto né un’impressione che lo qualifichi, né quell’utile decoro che tien ferma la perseveranza d’un avviamento lucroso a’ nostri poveri comici. Le mie favole non avranno nessuna delle sopraddette qualitá, ma è cosa certa che fecero un effetto come se le avessero.
I miei censori rideranno di queste veritá, ed io farò ridere il mio lettore sulla spezie de’ miei censori, quando sarò al segno e verrá il tempo di farlo, come promisi nel fine del capitolo primo di questa seconda parte delle Memorie ch’io pubblico per umiltá.
- Testi in cui è citato Pietro Chiari
- Testi in cui è citato Carlo Goldoni
- Testi in cui è citato il testo L'amore delle tre melarance
- Testi in cui è citato il testo Il Corvo (Carlo Gozzi)
- Testi in cui è citato il testo Il Re Cervo
- Testi in cui è citato il testo Turandot (Carlo Gozzi)
- Testi in cui è citato il testo La Donna Serpente
- Testi in cui è citato il testo Il genio buono e il genio cattivo
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