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Nell'ingranaggio/IV

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IV

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III V
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IV.

La villeggiatura volgeva alla fine. La stagione si era guastata: piovigginava quasi tutti i giorni; il lago era spesso sconvolto, l’aria fredda.

Gilda era inquieta e annojata.

Giovanni non le aveva più parlato da solo a sola dopo quella sera: pareva anzi che la evitasse.

Il suo umore pure pareva mutato.

Spesso rideva e si abbandonava ad una allegria rumorosa, affatto nuova in lui. Senza ch’ella se ne rendesse conto, questo contegno le dispiaceva. [p. 53 modifica] Qualche volta quell’allegria le pareva finta. Essendo sempre occupata di lui, e osservandolo attentamente, lo vedeva talvolta rannuvolarsi. I suoi lineamenti prendevano allora una espressione severa; una amarezza impercettibile contraeva gli angoli della sua bocca.

Di tratto in tratto egli alzava il mento largo e poderoso con un gesto particolare e guardava le persone per disopra le spalle. I suoi occhi grigi di solito così freddi e chiari, avevano dei lampi.

Gilda, qualche volta, rabbrividiva.

L’atmosfera piena di elettricità di quell’ambiente aveva agito sulla sua fibra troppo sensibile. Le pareva che da un momento all’altro dovesse succedere un avvenimento drammatico, enorme, che avrebbe mandato all’aria tutta quella falsa apparenza di pace; e in tale aspettativa ogni piccola sorpresa la faceva trasalire.

Intanto i giorni passavano in una monotonia pesante. Venivano le solite visite, meno l’Anselmi, che non si era più lasciato vedere.

A volte, quando era sola nella sua camera, con Lea che giuocava, le veniva il dubbio che tutto il romanzo in cui le parea di vivere fosse una fantasmagoria del suo cervello: che le parole di Giovanni non avessero avuto alcun significato particolare, che i due sposi vivessero insieme nella più perfetta cordialità e che l’Avvocatino non fosse altro che un amico di casa; un bellimbusto senza conseguenza. Un vago malessere le faceva diffidare di sè: il suo cuore inoperoso e la fantasia troppo attiva, potevano avere architettata tutta quella favola, fondandola sulle vuote chiacchiere della cameriera. Ma se per un momento [p. 54 modifica] ella riesciva a persuadersi che questa fosse la verità, si sentiva presa da tanta noja e stanchezza della vita, che ripiombava involontariamente nelle sue fantastiche induzioni.

Non aveva nessuno a cui confidarsi, nessuna parola utile e buona giungeva fino al suo cuore.

Zia Caterina le scriveva di tratto in tratto, e le sue lettere erano piene di consigli prudenti e di raccomandazioni; ma quelle parole troppo semplici e rozze non potevano avere alcuna influenza sull’animo suo.

Avrebbe voluto potersi trovare con mistress Thicnny. Con tutte le sue originalità, forse anche un poco in causa di queste, la vecchia inglese le era molto simpatica. Ella sapeva dirle delle cose serie e darle qualche buon consiglio senza assumere il tono predicatorio per cui zia Caterina le era diventata insopportabile fin dalla infanzia.

Neppure con lei avrebbe osato confessarsi intieramente, ma la sua conversazione le avrebbe fatto bene, l’avrebbe distratta e sostenuta parlandole della vita e del mondo con l’esperienza pratica ch’ella ne aveva.

Disgraziatamente la eccentrica e buona donna aveva lasciato il lago senza più recarsi a villa Pianosi. Gilda sola aveva ricevuto i suoi saluti in un bigliettino. Fuggiva le nebbie e andava a cercare il sole sulla riva di Napoli. Le mandava il suo indirizzo perchè le scrivesse qualche volta, e se mai aveva bisogno di qualche cosa, pensasse che mistress Thionny non dimenticava le sue simpatie.

Gilda ripiegò il biglietto e lo chiuse nel suo [p. 55 modifica] portafogli. Non le pareva impossibile che il giorno del bisogno arrivasse presto; poichè in quella casa non sarebbe forse rimasta molto, e certo non si sentiva di ricominciare la solita vita con zia Caterina.

Nell’ultima settimana ella rimaneva quasi tutti i giorni sola alla villa, perchè il Banchiere era già ritornato a Milano e la signora Edvige faceva le visite di congedo con Lea. Partivano dopo colazione con la carrozza o con la barca secondo il giro che avevano in mente di fare.

Gilda non era mai invitata ad accompagnar e. La signora la trattava con una certa freddezza, e si occupava più spesso della bambina, forse per combattere nel suo cuoricino l’affetto che vedeva nascere per la istitutrice e prepararla a farne senza.

Del resto la signora Pianosi, nella sua sagacità femminile, era molto preoccupata sul contegno che doveva tenere verso Gilda Mauri.

Da prima, vale a dire appena scoperte le simpatie che la fanciulla aveva destate nei due uomini su cui ella vantava un diritto, aveva pensato di mandarla via. Ma subito dopo mutava avviso. Mandarla via voleva dire allontanarla dalla sua sorveglianza, e lasciare a Paolo tutta la libertà di sedurla. Giovanni, in compenso, non avendo più occasione di vederla, se la sarebbe dimenticata.

Ma l’affetto del marito non era quello che premeva di più a Edvige. Era dunque perplessa e stava cercando il mezzo di allontanarla da tutti e due.

In fondo aveva una idea che poteva essere una [p. 56 modifica] trovata felicissima: maritarla ad un qualche forestiero, che se la conducesse via. Paolo non poteva allontanarsi da Milano, e, come diceva giustamente, non era più in età da sacrificare i suoi interessi ad un capriccio. Gilda, pur troppo, era bella, e a Milano, con le conoscenze che aveva lei e un po’ di dote che era disposta a procurarle, un marito non doveva esser difficile a rintracciare. Questo piano le parve assolutamente il più saggio, e si promise di eseguirlo.

La vigilia della partenza, Gilda era rimasta un’altra volta sola alla villa. La signora era andata a fare l’ultima visita, la più affettuosa, alla vecchia madre e alla zia del deputato Adriani, le quali avevano l’abitudine di rimanere in campagna fino a Natale. La Sabina si dava un gran da fare intorno ai bauli.

Trovandosi libera, la fanciulla ne approfittò per dare un addio alla campagna. Le piaceva di poter passeggiare un poco sola per quelle colline, dalle cui alture il panorama del lago appariva in tutta la sua bellezza. Era avida di quelle sensazioni, così nuove per lei, che aveva passata tutta la vita a Milano, concentrando tutto il suo bisogno di poesia campestre fra i bastioni e i giardini pubblici.

Ora invidiava quelli che potevano stabilirsi in piena campagna.

Possedere una piccola casa, arredarla con gusto, vivere di una piccola rendita, nella completa indipendenza; che bel sogno era questo!

Ma la fantasia e i desideri non hanno limite. Un momento dopo ella non s’accontentava più della bella casetta, del vago paesaggio, della com[p. 57 modifica] pletà indipendenza; la solitudine, per quanto deliziosa, non è fatta per una giovinetta di diciannove anni.

Il nobile profilo di Giovanni Pianosi si delineò improvvisamente sul fondo azzurro del suo bel sogno.

La fanciulla trasalì come se quella visione fosse stata una realtà.

Aveva compreso improvvisamente che il suo pensiero non si staccava mai da quell’uomo, che il suo cuore si era dato a lui tutto intero, quasi senza accorgersene.

Era amore il suo: non poteva più dubitarne.

Amore per un uomo che non poteva appartenerle perchè era marito e padre; che forse nemmeno l’amava!

Era dunque questo l’avvenimento che aspettava con tanta ansietà? Un avvenimento tutto intimo, chiuso dentro al suo cuore, ma ch’era forse il preludio di un dramma insolubile, di una pena eterna, di una tragedia psicologica? Era forse scritto lassù ch’ella dovesse essere infelicissima?

Gilda si esaltava stranamente in questo pensiero. Ella si era sempre creduta differente dalle sue compagne, destinata a qualche cosa d’insolito.

Odiava le cose comuni: le felicità volgari.

Se la infelicità doveva distinguerla, innalzarla, accarezzare i suoi istinti aristocratici, le pareva che si sarebbe rassegnata anche a piangere tutta la vita.

Zia Caterina che le raccomandava di essere virtuosa e calma, non conosceva le misteriose [p. 58 modifica] leggi della fatalità! Non sapeva, la buona donna, che certe anime sono predestinate alle passioni dolorose! E la povera sognatrice non poteva sottrarsi a un senso d’orgoglio, pensando che lei era appunto una di queste anime. Se zia Caterina lo avesse saputo, l’avrebbe condannata a stare chiusa con lei in quella cameretta senz’aria, e a lavorare tutto il giorno per guadagnare appena il necessario.

Se avesse sospettato qualche cosa dei suoi sentimenti, sarebbe stata capace di ripigliarsela a casa per sottrarla, se era ancor tempo, alla fatale influenza di quell’uomo, e magari anche di darla in moglie a un qualche suo parente, al cugino Luigi per esempio, che faceva lo speziale, o a Carlo Fineschi, il primo ministro del droghiere Pinocchi in via Meravigli.

Queste prospettive le sembravano ben altrimenti intollerabili della sua infelicità in casa del Banchiere!

Si era seduta al piede di un platano sul fianco della strada carrozzabile che s’interna nel paese, lambendo le falde delle colline o serpeggiando intorno alla loro mole.

La strada, in quel punto, si trovava a circa un metro sopra di lei, e una sporgenza del terreno la nascondeva a quelli che passavano. Quando si era seduta però non passava nessuno. Poco dopo senti delle voci.

Instintivamente alzò il capo, e con sua sorpresa riconobbe il professore Rachelli e l’ingegner Santini che si avanzavano discorrendo con molto interesse.

Sembrandole poco conveniente di essere veduta [p. 59 modifica] così sola lontano da casa, rimase nascosta. D altra parte le poche parole che aveva sentite, avevano subito destato la sua curiosità.

Parlavano di Giovanni Pianosi.

L’ingegnere Santini era quel giornalista ch’ella aveva veduto intrattenersi lungamente con Giovanni la sera della illuminazione.

Capì che erano stati a villa Edvige dove non avevano trovato nessuno, e che s’incamminavano verso il paesello montuoso dov’era la villeggiatura del deputato Adriani.

— Secondo voi dunque — ripigliava il Professore, dopo un momento di pausa — tutto questo lusso non sarebbe che una mascherata?...

— A metà per lo meno — rispondeva il giornalista — Il Pianosi sa di essere in pericolo, ma il peggio di tutto è ch’egli non si crede così prossimo alla rovina. Se debbo dirvi tutta la verità, e a voi posso dirla perchè queste cose non v’interessano altro che dal lato filosofico e umano, io credo, lo si crede generalmente, che il povero Banchiere sia vittima di un doppio tradimento.

Il Professore s’arrestò stupito.

— O come mai? — esclamò.

— Avete osservato — domandò a sua volta il Santini — quel giovine pallido, magro, elegantissimo nel vestito e nei modi, sarcastico e amaro nelle sue osservazioni, che la sera della festa si vedeva sempre occupato con le signore?

— Sì, sì, lo rammento bene: è, se non erro, l’avvocato Paolo Anselmi, un giovanotto un po’ maturo ma ben conservato.

— Appunto. Avrà quasi quarant’anni, ma ne dimostra appena trenta. È l’intimo amico della [p. 60 modifica] signora Edvige e l’Avvocato Procuratore della banca Pianosi e Compagni. È un napoletano, e pare che abbia conosciuto la signora in gioventù, quando lei cantava e lui scriveva delle opere liriche, fischiate e dimenticate. Ma questi dettagli mi sfuggono, e d’altra parte non importano. Quello che è certo si è ch’egli era un povero diavolo quando venne a Milano, circa dieci anni fa, e che adesso ha un bel patrimonio, quantunque cerchi di dissimularlo.

— ... L’avrà acquistato, con la sua professione!

— Non pare. Non è un ingegno. È precisamente quello che si dice un arruffone. Ha saputo arruffar bene la matassa degli affari nella banca Pianosi, e ci ha trovato il bandolo per conto suo. Questo però non sarebbe bastato a rovinare una casa come quella.

Qui il Professore fece qualche interrogazione sulle origini della casa bancaria di Giovanni Pianosi. L’Ingegnere rispose che era antichissima e aveva sempre goduto una eccellente riputazione di solidità e di onestà.

Tornarono a parlare dell’Anselmi e l’Ingegnere riprese così il suo racconto:

— Da uno o due anni — egli disse — l’avvocatino napoletano si è messo in grande intrinsichezza col direttore di uno stabilimento industriale di ferramenta, attrezzi da macchine e macchine da tramway, che ha la sua sede nei dintorni di Como. Le stabilimento prese subito uno sviluppo straordinario, e presto si seppe che la Banca Pianosi e Compagni sosteneva quella industria. Tre mesi or sono fu detto, e poi confermato dal Pianosi stesso, ch’egli aveva impiegato in quella in[p. 61 modifica] dustria altro mezzo milione, e che lo stabilimento andava ad aumentare i suoi lavori e la sua importanza, specialmente per la costruzione di nuove macchine ferroviarie. Ebbene! da una settimana circolano voci strane; si dice che il direttore della fabbrica non si vede più ritornare da un viaggio dal quale dovrebbe essere ritornato da quindici giorni, e che la fabbrica sta per sospendere i lavori.

Se questo fatto avviene, la banca Pianosi è rovinata.

— E questa rovina, aggiunse il giornalista a maniera di riepilogo dopo un momento di silenzio, viene generalmente attribuita a qualche raggiro del direttore e alla cattiva influenza dell’Avvocato Anselmi, perchè tutti sanno che Giovanni Pianosi è un galantuomo e un valente finanziere, ma troppo leale e fiducioso verso certe persone che non lo meritano.

· · · · · · · · · · · · · · · · · · · ·

Nel desiderio di sentir meglio questo dialogo, per lei interessantissimo, Gilda aveva seguiti i due interlocutori trascinandosi carponi nella sottostante viottola.

Un corso d’acqua che, passando di sotto alla strada, formava una di quelle piccole cascate tanto frequenti nella campagna montuosa dopo le prime piogge abbondanti dell’autunno, la fece arrestare improvvisamente.

Rimase qualche tempo immobile sdrajata sull’erba. Le batteva il cuore con violenza, per l’agitazione che aveva patita in quella lotta fra la smania di ascoltare e la paura di essere sorpresa in quella situazione. [p. 62 modifica]

Per fortuna nessuno l’aveva veduta.

Quando non senti più alcun rumore di passi, balzò in piedi, si rassettò le vesti, raccattò l’ombrellino ch’era sdrucciolato in fondo al declivio, e, con passo rapido, si mise in cammino verso casa seguendo una scorciatoja.

All’ora del pranzo pretesto una leggera indisposizione per non farsi vedere così agitata.

Desinò sola nella sua camera, con una scodellina di minestra, un grappolo d’uva e un bicchier d’acqua.

Era preoccupata, combattuta. Un rosso di febbre le rianimava il viso impallidito. Aveva la febbre negli occhi dilatati e luccicanti.

Sapeva che Giovanni era ritornato da Milano col vaporino delle cinque e mezzo, in compagnia dell’Anselmi, per ripartire tutti insieme la mattina dopo. Li aveva veduti sbarcare, guardando dalla sua finestra col cannocchiale; ma non aveva avuto il coraggio di guardarli quando entravano nella villa. Poco dopo era arrivata la carrozza con la signora e Lea e i due visitatori, Rachelli e Santini che le avevano incontrate. Rimanevano a pranzo, naturalmente. Lea era subito salita da lei, avendo sentito dalla cameriera che stava poco bene. La vista della bimba in quel momento le aveva fatto una impressione straordinaria. Se l’era presa in grembo, l’aveva stretta al cuore in uno slancio di affetto, frenando a stento le lagrime. E la bimba, nervosa, eccitabile, precoce, aveva risposto con impeto alle sue carezze. Singhiozzando aveva gridato che non voleva lasciarla andar via mai mai.

Da ciò Gilda aveva potuto comprendere che [p. 63 modifica] qualcuno aveva parlato della sua possibile partenza; e che la piccina si era trovata presente a tali discorsi. Ma quando? Perchè?

Non osava interrogare.

Si sentiva nell’anima uno sgomento invincibile, e i primi, acuti morsi dell’odio.

Ora il pranzo era terminato: era sera: una bella sera tepida, che permetteva di tenere aperto. I commensali riuniti nel salotto discorrevano allegramente, come se quella casa fosse stata il più caro asilo della pace e della felicità.

Gilda sentiva il rumore delle voci, le gaje risate che salivano fino a lei. Il Banchiere raccontava alcuni episodii comici della chiusura della Esposizione Nazionale. L’ingegner Santini e l’Avvocatino facevano gara di spirito, e la signora Edvige li incoraggiava con dei «bravo» squillanti che attraversavano l’aria.

Di tratto in tratto qualcuno usciva sulla terrazza a fumare un sigaro, e Gilda sentiva ancora meglio gli scoppi dell’allegria scaldata dai liquori, qualche brano di frase scherzosa o satirica o a doppio senso.

Aveva spento il lume perchè non la vedessero, e s’era messa dietro le persiane socchiuse, raccapricciando nei brividi di un freddo nervoso che le faceva battere i denti.

Sentiva Lea fare il chiasso col pappagallo, già dimentica dell’intenerimento che aveva provato poche ore prima.

A un certo punto, il padron di casa, il professore ed il Santini, sedettero al tavolino dello scacchiere, ben noto a Gilda.

Giovanni amava questo giuoco e ci aveva acquistato una grande abilità. [p. 64 modifica]

Quella sera egli voleva misurarsi col professor Rachelli. Il giornalista stava a guardare.

L’Anselmi appoggiato al parapetto della terrazza lìniva di fumare il suo sigaro e guardava in alto. Un momento ella ebbe quasi paura ch’egli l’avesse indovinata dietro le persiane.

Un momento dopo ella vide apparire un’ombra nel vano luminoso della portiera: era Edvige. Con passo rapido varcò lo spazio che la separava dall’Anselmi, il quale stava sempre appoggiato al parapetto con la schiena arrovesciata, la faccia rivolta al cielo, come se avesse contemplate le stelle o cercato una ispirazione.

Quando gli fu vicino, la strana donna gli buttò le braccia al collo e abbandonò un momento la testa sopra il suo petto. Egli si lasciò abbracciare biascicando qualche parola, che Gilda non intese; poi, chinata la faccia sulla testa di colei, parve sfiorarla con le labbra.

— A voi, ora, difendetevi! — diceva la voce chiara e armoniosa del Banchiere, che probabilmente aveva fatta una eccellente mossa strategica sul suo scacchiere.

Edvige si staccò con un moto istantaneo dalle braccia dell’Avvocato, e rientrò subito in sala, parlando forte all’indirizzo dei giuocatori.

L’Anselmi gettò il mozzicone del sigaro oltre la ringhiera, e la segui, discorrendo e ridendo allo stesso modo.

Gilda chiuse del tutto le persiane, poi chiuse anche i vetri, per non sentir altro; e si ritirò dalla finestra.

Riaccese il lume. Era livida e barcollava. Si abbandonò sur una sedia in una spossatezza mortale. [p. 65 modifica]

— È così che vivono, loro? — mormorò a fior di labbro, formulando la muta interrogazione che la sua coscienza offesa rivolgeva a sè stessa.

Lo spettacolo della dissimulazione in mezzo alla quale viveva da parecchi mesi, non l’aveva ancora colpita con tanta crudezza.

Era un disgusto supremo, che le saliva improvvisamente alla gola. Tutti mentivano. Anche quei due uomini onesti, quel giornalista e quel professore, i quali soffocavano la ripugnanza, che certo sentivano, per quel ladro e traditore, trattandolo gentilmente, scherzando con lui come con qualunque altro, e guardandosi bene dal dire una parola rivelatrice al tradito. Tutti erano complici nell’inganno, o con l’attività dell’interesse o per semplice inerzia, o per civiltà.

Lui stesso, Giovanni Pianosi, l’uomo che in quel momento le pareva il solo giusto, il solo buono e generoso, aveva forse ingannato o ingannava.

L’inganno, forse, era una legge cieca e codarda, a cui nessuno poteva sottrarsi: il tributo che ciascuno doveva pagare alla vita sociale.

Lei stessa vi si sottometteva, senza avvedersene. Perchè non andava direttamente da quell’uomo e non gli raccontava quello che aveva sentito?... e veduto?...

Non era giusto forse? anzi doveroso?...

Perchè tacere? Perchè lasciare una così completa impunità a quei due traditori?

E la impunità dei traditori era ancora poco: si trattava di salvarlo, lui, da un pericolo imminente!

Si levò in piedi, non più debole, non più spossata: sostenuta da una forza nervosa, sicura di quello che intendeva fare. [p. 66 modifica]

Erano suonate le nove all’orologio della chiesetta.

A momenti i tre signori invitati si sarebbero mossi per trovarsi pronti al passaggio del piroscafo, che doveva ricondurli ad Arona.

Lea sarebbe venuta su per andare a letto, la signora si sarebbe ritirata nelle sue camere e il banchiere nel suo studio.

Ebbene, ella voleva approfittare di questa combinazione: discendere, bussare all’uscio dello studio, entrare, raccontare quello che aveva sentito e licenziarsi della sua carica di istitutrice. O che ci voleva?

Un po’ di coraggio; niente altro.

Poi era finita. Sarebbe tornata nella sua pevera casetta, a piè del bastione, con zia Caterina, che era una semplice e rozza donna incapace di fingere.