Nell'ingranaggio/XII

Da Wikisource.
XII

../XI ../XIII IncludiIntestazione 20 maggio 2022 75% Da definire

XI XIII
[p. 200 modifica]

XII.

Milano era nel suo momento più insopportabile. Le famiglie signorili e molte di quelle semplicemente agiate erano andate via o si preparavano [p. 201 modifica]a partire, come tutti gli anni, per località più amene.

Se esistesse un giornale che tenesse una cronaca esatta della vita elegante milanese, esso avrebbe bisogno, durante i mesi estivi, di una cinquantina di reporters sparsi lungo le spiagge dei laghi e dei mari, per le campagne di tutta la Lombardia, nelle valli e nei monti.

Fortunatamente — pensava Edvige — questo giornale non esiste ancora a Milano. Le poche descrizioni di questo genere che si leggono su i giornali politici sono fatte senza metodo, secondo il capriccio o i mezzi del corrispondente.

Ella ne aveva lette appunto tre o quattro di tali corrispondenze e se ne rallegrava; poichè, se non fosse stato così, certamente qualcuno avrebbe avuto notizie della gita ch’ella aveva fatto insieme alla sua amica Mantrilli, all’ingegnere Santini, e all’onorevole Adriani, fino a San Giovanni Bianco sul Brembo, mentre suo marito cominciava appena a levarsi per alcune ore e non poteva uscire di camera. Certo era stata un’imprudenza Ma d’altra parte quei due lunghi mesi passati là in quella casa malinconica, dove non poteva ricevere che pochi amici, mentre al capezzale di suo marito vegliava la bella Gilda, non erano stati poco pesanti, nè poco tristi per lei.

Per guadagnarsi il favore dell’opinione pubblica e avere tutti gli amici per sè contro suo marito, se egli persisteva nella sua fissazione di non volerla più vedere, ella si era imposta una parte grave e l’aveva sostenuta con molta fermezza. Ma in certi momenti la noia era più forte di lei.

Riceveva pochissime visite: soltanto gli amici [p. 202 modifica]intimi e alcuni parenti di suo marito che la malattia di lui aveva ricondotti. Per fortuna, questi ultimi erano pochi e abitualmente gli affari li tenevano lontani. Un secondo cugino specialmente aveva la facoltà di esasperarla. Un Pianosi anche lui e banchiere, a Pavia; arrivava a Milano tutti i mercoledì, e, ora che avevano fatto pace, come diceva, non mancava di andare a colazione da sua cugina, col pretesto d’informarsi della salute di Giovanni. Era un uomo sull’invecchiare, magro, striminzito, giallo in faccia, come se avesse avuto l’itterizia: i suoi capelli, anticamente di un biondo sporco, prendevano ora nell’imbiancare certi toni grigi verdastri, di una malinconia infinita. Egli si stupiva, tutte le volte che arrivava, del lusso dell’appartamento; ripeteva immancabilmente le stesse parole di biasimo e rifaceva i medesimi discorsi sulla economia domestica e sullo sperpero dei capitali, con un tono di voce burbero, interrompendosi ogni tanto per raschiarsi la gola e sputacchiare sul tappeto. Poi, quando si accorgeva di avere fatto una piccola pozzanghera, si scusava press’a poco così:

— Mi dispiace, ma è colpa vostra! Perchè tenete di quest’impicci? A casa mia si cammina sulle pietre, tutto al più un poco di stuoia, l’inverno: e non siamo mai malati, noi!

Si vantava di non avere raffreddori in casa, nè lui, nè sua moglie, nè le sue figliuole, tutto perchè scaldavano pochissimo la stufa, loro; e tanto per criticare anche quello che non conosceva, immaginava il fuoco d’inferno che dovevano fare i suoi cari cugini con le abitudini russe che la signora non poteva mancare di avere conservate. [p. 203 modifica]

Edvige lo sopportava con una pazienza che poteva essere una espiazione.

Ma nemmeno le serate che passava fra il commendator Bardaniti e l’ingegner Santini non la divertivano troppo.

Questo povero ingegnere, come l’aveva stancata presto!

Da principio, con quella sua aria mefistofelica, le era parso assai piccante; ma nella intimità in cui erano presto entrati, un po’ anche causa la sorveglianza della Fabbrica di Ferramenti e Macchine che lui si era assunto per consiglio del Commendatore, l’aveva stancata con una rapidità incredibile. Il suo spirito era monotono, opaco. Edvige lo giudicava così: —- È sempre un ingegnere meccanico, anche quando parla d’amore!

Ora la sua noja arrivava talvolta ad un grado molto alto e le dava una sorta di malessere fisico.

Lauretta Mantrilli le diceva:

Bada, Edvige, tu sei gelosa di tuo marito!

Allora ella scoppiava a ridere e ritornava di buon umore.

— Gelosa di Giovanni? gelosa sul serio, proprio al punto di soffrirne?... Oh che cosa buffai!...

Ma anche la contessa Vimercati le ripeteva con altre parole la stessa cosa.

Una di quelle sere si era trovata da lei insieme ai due soliti, più Lauretta, che tornava dall’aver cantato a Venezia, e l’onorevole Adriani, che si lasciava ancora vedere di tratto in tratto. Una serata buona, nella quale Edvige aveva ritrovato un po’ del suo spirito e de’ suoi paradossi.

Prima aveva sostenuto una disputa letteraria con l’onorevole Adriani: difendendo, lei, lo spirito [p. 204 modifica]e i costumi del Settecento, contro la famosa letteratura civile e il romanticismo di quaranta anni fa, e i costumi borghesi dei nostri tempi. Ella adorava il secolo della cipria, dei nei, dei cavalieri serventi e dell’amore libero, poichè ella sosteneva che a que’ tempi, sotto la salvaguardia del matrimonio, l’amore libero era una vera istituzione.

A tale uscita tutti erano insorti contro di lei.

Adriani le aveva detto che, tutto al più ella confondeva l’amore con la galanteria. Ma lei audacemente aveva risposto:

— Parole!

E aveva sostenuto che sotto a quella apparente leggerezza si nascondeva una grande profondità di pensiero, e che per suo conto rimpiangeva amaramente di non esser nata un secolo prima.

Poi si era messa a dire che il torto più grande della società moderna era di avere fatto una confusione deplorevole fra il matrimonio e l’amore, dopo lo splendido esempio di buon senso dato dal Settecento.

Che l’amore e il matrimonio non avevano fra loro altro che una comunità materiale, con due caratteri assolutamente opposti: il matrimonio grave, serio, pieno di obblighi e di noje e assolutamente volontario, come un contratto civile: l’amore, tutto raggiante di bellezza, pieno di sogni, di capricci, e assolutamente fuori della volontà, come una vera necessità della vita.

E aveva voluto spiegare come ella ammettesse la indissolubilità del matrimonio nelle condizioni presenti della società, perchè troppi interessi vi erano legati, e poi perchè il divorzio aveva qualche cosa di puritano, di pretenzioso, di crudele. [p. 205 modifica]

Ella voleva il matrimonio indissolubile, perchè la famiglia non si doveva potere scindere a capriccio; ma poichè la natura umana è quello che è, diceva che non si sarebbe dovuto tener conto delle infedeltà, nè dalle mogli, nè dai (mariti, se non quando offendevano gli interessi della famiglia.

Presa da un vero impeto di eloquenza, arditamente esclamava:

— Separarsi, distruggere una ditta sociale, quale è ogni famiglia, per un impeto cieco di passione, per un sentimentalismo?!... Cose da pazzi! Il matrimonio e l’amore se ne possono andare ciascuno per la loro strada, senza mai urtarsi, purchè le persone abbiano il buon senso di non confonderli.

Finalmente aveva portato per esempio sè stessa, la quale, pure non amando Giovanni, e permettendo ch’egli avesse al suo capezzale una bella ragazza, vegliava con tutta l’anima al buon andamento dei comuni interessi, al decoro della casa comune...

Ma a questo punto la contessa Vimercati, che aveva ascoltato tutta la disputa sorridendo, credendola sempre una questione letteraria, a cui non prendeva parte, era saltata su di scatto, non permettendole nemmen di finire la frase.

— Come! aveva esclamato, tu dici questo Edvige?... tu? Non puoi dirlo che per ridere! Non ci hai dato forse, non ci dai tuttora la più grande prova del tuo amore per Giovanni? Ma avresti tu sopportato con questa adorabile rassegnazione, il torto che egli ti fa, causa quella civetta di Gilda Mauri, se tu non lo amassi?... Ti saresti sacrificata così, questi due mesi, fino al punto di met[p. 206 modifica]terti a studiare il commercio e gli affari se tu non volessi riconquistare il suo cuore? Questi due cari amici che ti ajutano: il Commendatore alla banca, l’ingegnere Santini avendo accettato la direzione dello stabilimento: ti pare che si sarebbero caricati di una tale responsabilità, se non fossero commossi della tua generosità verso tuo marito? Oh, cara Edvige mia, se tu sapessi come t’intende io! No, no, cara! non contraddirmi, sei brava a inventare dei paradossi, lo so, lo sappiamo tutti, che hai tanto spirito, tanta fantasia, forse troppa... Ma il cuore lo si vede dalle azioni; e quello che tu fai da due mesi è una cosa mirabile! Anche mio marito dice lo stesso, e sai che lui è severo.

E la gentile amica, che era seduta vicino a Edvige, le cingeva le spalle con affetto quasi materno e le faceva delle piccole carezze, come a una giovinetta.

Sorridendo Edvige si era provata a protestare.

Aveva detto che non capiva perchè avessero bisogno di crederla innamorata di suo marito e smaniosa di riavere il suo amore, per trovare che quello che faceva era ben fatto.

Se lo avesse fatto soltanto per rispetto al matrimonio, come istituzione sociale, come contratto al quale aveva sottoscritto, non sarebbe stato lo stesso?

Ma donna Violante non voleva sentire.

— Che! che! esclamava, ma ti pare possibile. Ti saresti mai preso tutta questa noja, se tu non lo amassi? Te ne saresti andata con la tua Lea, e l’avresti piantato qui con la sua maestrina! Io almeno avrei fatto così. Se sei rimasta, e se hai [p. 207 modifica]fatto tanto per il suo bene, vuol dire che lo ami e che speri di riconquistare il suo cuore. E vi riescirai sicuramente, perchè meriti di essere felice. Intanto, giacchè io non parto che fra qualche giorno, parlerò con Caterina Mauri, e se occorre, anche con suo fratello. Bisogna che questa ragazza lasci la tua casa, assolutamente. Ora che Giovanni non è più in pericolo, il vostro famoso medico non avrà diritto a opporsi. Dopo tutto, questo è anche uno scandalo per la servitù, per Lea! —

Edvige si era affrettata a dire che Lea non era in casa, che l’aveva mandata in campagna con Rosina Minelli, la cugina di Giovanni.

Poi le due amiche si erano messe a discorrere sottovoce, mentre gli uomini continuavano a parlare del matrimonio in partibus, come diceva l’onorevole Adriani, ridendo e facendo dei motti, come usano gli uomini discorrendo su tali argomenti.

Ora, in quel silenzioso pomeriggio di luglio, Edvige ripensava a questi discorsi. Non già ai teoremi con cui si era divertita, non ai frizzi degli uomini; ma alle affermazioni delle sue due amiche.

— Tu sei gelosa! aveva detto Lauretta Mantrilli.

— Tu ami e tu soffri! aveva detto la contessa Vimercati.

Amare Giovanni? Esserne gelosa, soffrire? santi del cielo, non le sarebbe mancato altro! No, no, ella non soffriva; s’annojava e niente altro.

La noja, la semplice noja, l’aveva spinta una notte ad appagare la curiosità morbosa, che aveva [p. 208 modifica]di quell’idillio. Non ne aveva riportato nessun turbamento, ne era sicura. Ma la generalità delle donne, come giudicavano romanticamente, eh! Ecco due donne di tipo affatto opposto, la Vimercati e Lauretta, tutte e due formulavano il medesimo giudizio: ella doveva amare Giovanni, ella doveva soffrire! Strane creature! Sarebbe stato un bel romanzo però, non se lo poteva negare.

Ella sorrideva pensando alle scene di quel romanzo ipotetico, pieno di lagrime, d’insegnamento e di moralità. Per fortuna, non si sentiva tagliata a rappresentare una parte simile. Lei aveva avuto una sola cosa romantica nella vita: la sua ostinazione nell’amore di Paolo Anselmi. Tuttavia, nemmeno la passione le aveva fatto disapprezzare il buon piacere di vivere, di essere bella, di essere forte, di vestirsi bene e di avere trovato un buon posto in una delle classi più fortunate della società. E ora che della passione era guarita, ora che aveva sormontato il momento critico dell’abbandono, quel momento in cui i due uomini sui quali aveva creduto di esercitare un potere quasi illimitato si erano staccati da lei, trascinati dal fascino delle donne più giovani, momento pauroso, poichè, avendo varcato i suoi trentasei anni, le era parso che tutto le sfuggisse, che la giovinezza in lei si estinguesse, ora, ella si sentiva ringiovanita, rassicurata sull’avvenire da un nuovo soffio di vita, come se ella fosse realmente risorta a una seconda giovinezza, meno resistente forse ma più intensa e più conscia di sè.

Ella aveva fatto l’esperienza, che se que’ due uomini si erano allontanati da lei, molti e molti ancora la desideravano: lo stesso Paolo non [p. 209 modifica]le era egli ritornato all’ultimo istante? non le aveva egli fatto comprendere che volentieri l’avrebbe avuta compagna nel suo esilio?

Perciò, passato quel primo grido di allarme, quell’avviso misterioso dell’istinto vitale, che sente i primissimi sintomi della decadenza, ella aveva fatto il suo bilancio intimo, e avendo calcolato che molti anni belli ancora le rimanevano, che molte piccole e grandi soddisfazioni la buona vita ancora le serbava, aveva ripreso coraggio e risoluto di vivere e godere pienamente, epicurescamente. Poichè questa era l’impronta sua, il timbro della sua indole, forse la sua eredità: un bisogno intenso e poco raffinato di godere largamente, pienamente, tutte le soddisfazioni che può dare la vita. E a tu per tu con sè stessa, Edvige non dissimulava più.

Perciò diceva la verità, o credeva fermamente di dire la verità, affermando che la visita latta nella camera di suo marito, di nottetempo, mentre tutti dormivano, non l’aveva turbata.

Era una notte soffocante in cui ella non poteva dormire, e la sua immaginazione, eccitata dalla curiosità, la portava continuamente alla presenza de’ due amanti. Quando il silenzio della casa, l’asicurò che tutti dormivano, scese dal letto, indossò una vestaglia, e camminando del suo passo più leggero, quasi scivolando su i tappeti, andò fino all’uscio di quella camera. Là si fermò. L’uscio era aperto per il gran caldo, la portiera abbassata.

Nessun rumore di dentro.

Scostò un momento la tenda ed entrò, con un forte palpito. [p. 210 modifica]

La grande lampada che pendeva dal soffitto sopra la scrivania era accesa come il solito e coperta da quell’enorme paralume, pesante di ricami, che diffondeva una luce quieta come filtrata.

Ella si avanzò fino alla entrata dell’alcova e vide una scena molto originale.

Gilda era seduta sulla poltroncina accanto al letto dell’infermo, come la prima sera. Era vestita come di giorno, con un abito scuro, tutto intero, chiuso davanti con una lunga fila di bottoni, dal collo ai piedi, una specie di veste da camera aderente alla persona; un piccolo fisciù di trina, le si annodava negligentemente sul petto. I capelli le scendevano sulle spalle, sulle braccia, in due lunghe trecce mezzo disfatte. La stanchezza le aveva fatto arrovesciare la testa su i guanciali, vicino al viso dell’ammalato. I loro capelli si sfioravano; due mani si tenevano. La fanciulla respirava dolcemente; un soffio leggero usciva dalle sue labbra socchiuse. Giovanni aveva un respiro affannoso, come un rantolo. Nella penombra appariva livido, magrissimo con gli occhi incavati; ma non si vedeva il rossore cupo con cui la febbre gli colorava la sommità delle guance. Dormivano uno accanto all’altro, in una confidenza innocente, in un casto abbandono.

Edvige li guardò a lungo; osservò la correttezza dell’abito di Gilda, tutto abbottonato malgrado il caldo opprimente, e le sue labbra si piegarono a una smorfia beffarda. Questo quadro così eloquente e gentile non la commosse, non la turbò. Non provò gelosia, ma un sentimento cattivo di rancore e di sprezzo. Avrebbe voluto [p. 211 modifica]insultarli quei due amanti ancora incolpevoli, coprirli di vergogna. Nell’uscire si vide dinanzi il domestico e per poco non le sfuggi un grido. Allora si ricordò che Marco passava la notte là, nella piccola anticamera, sull’uscio del suo padrone, pronto al più piccolo cenno della giovine infermiera. Prima ella non l’aveva visto perchè si era buttato un momento sulla sua branda; ma lui si aveva veduto lei, e si era fatto un obbligo di sorvegliarla dalla soglia. Ella si allontanò volgendogli un’occhiata sprezzante. Era furiosa di essersi lasciata sorprendere così da un servo. Ma nel medesimo tempo potè formulare un pensiero che la compensò della sua malavventura: vale a dire, che soltanto la presenza di un terzo rendesse Gilda così riservata e corretta.

Ma il conforto che viene dalla malignità è passeggero.

Non era gelosa, no: quella specie d’idillio fra un uomo di trentott’anni e una giovine di venti alla lunga, la stomacava. Potevano essere più ridicoli?... Suo marito, il banchiere Pianosi, un gaudente se ce n’era, un sibarita finito, che ora si metteva a fare il poetico, l’amante ideale!

Roba da sbattezzarsi. Sarà stata la malattia, il disordine nervoso, di cui parlava il dottorino Rambaldi? chi sa!

E rideva di un cattivo riso che le faceva fare una brutta faccia stirata.

Non era gelosa, no: ma sentiva troppo il bisogno di ripeterselo e involontariamente se ne allarmava.

Di rimbalzo il suo pensiero ritornava verso Paolo Anselmi. [p. 212 modifica]

— Tutto causa quello stupido di Santini, che non ha fantasia per distrarmi, nè tanta anima da ubbriacarmi! mormorava crollando il capo con un movimento di disgusto.

Perchè si era data, lei, a quell’uomo?

Non aveva alcuna scusa.

Era stato un giorno di noja immensa. Un giorno in cui il cugino di Pavia era rimasto là due ore, a farle delle prediche e a sputacchiare sul tappeto. Lea che si ammalava di malinconia nella casa silenziosa, era andata via con Rosa Minolli; c’era stato un consulto; la Sabina l’aveva esasperata. E quel Santini, per combinazione, quel giorno aveva avuto spirito! Aveva fatto la caricatura del cugino di Pavia, con tanto garbo.

Poi avevano desinato insieme ed egli l’aveva fatta ridere ancora. Pareva tutto un altro uomo, quel giorno!...

Se n’era pentita subito, però. Non era proprio rimorso quello che provava; ma una impressione fastidiosa, somigliante al ricordo di quelle camminate interminabili che faceva da ragazzetta coi suoi genitori, per le strade fangose, con gli stivalini pieni d’acqua, le sottane inzaccherate che le battevano sulle gambe, e una stanchezza accasciante in tutte le membra.

Seriamente si metteva a riflettere sull’uso che doveva fare della sua seconda giovinezza, di quel tesoro che le pareva di aver scavato, e che le premeva di non sciupare, di non spendere male in un cumolo di sciocchezze e d’immagini disgustose o scialbe.

In fondo al cuore, lentamente, si svegliava in lei un senso di ribellione contro il possesso brutale dell’uomo. [p. 213 modifica]

Faceva dei piani di vita affatto diversi: una vita tutta esteriore, tutta abbagliante di lusso. Passata la malattia di Giovanni bisognava spingerlo verso la politica.

Grandi avvenimenti si preparavano nel mondo politico e finanziario. Bisognava che suo marito vi prendesse parte insieme ai grandi banchieri. Ma perciò era necessario ch’egli fosse eletto deputato: che avesse il valore di un voto.

Già Bardaniti se ne preoccupava. Lui, che era stato deputato prima del i876, ora, grazie al trasformismo, si aspettava di essere nominato senatore. Se nel medesimo tempo Giovanni riesciva deputato, lo avrebbe iniziato lui alla vita parlamentare, e poteva aspettarsi un bell’avvenire.

Allora la sua casa, i suoi ricevimenti avrebbero acquistato un lustro nuovo, una importanza più seria. L’inverno sarebbero andati a Roma, e là, in quella società nuova, composta di gente di tutti i paesi, ella sarebbe stata semplicemente la moglie del deputato Pianosi, del ricco banchiere Pianosi, e nessuno si sarebbe curato di sapere se dieci o dodici anni addietro ella era una cantante di secondo o di terzo ordine.

Presto si sarebbe fatta una sorta di corte, avrebbe stretto nuove amicizie, e, chi sa? forse anche acquistata qualche influenza nella politica. In ogni modo sarebbe andata ai balli della Corte, ai ricevimenti ministeriali e degli Ambasciatori: la nuova posizione di suo marito le avrebbe aperte tutte le porte. E un altro vantaggio avrebbe avuto: a poco a poco si sarebbe liberata dalle vecchie amicizie di teatro, che rappresentavano [p. 214 modifica]nella sua vita la inevitabile, la insistente puntura di spillo del destino tormentatore.

Ella cominciava a trovare una vera consolazione in questi bei sogni ambiziosi, allorchè il Commendatore la turbò un giorno, raccontandole che la banca Pianosi e compagni faceva mettere all’asta i mobili dell’avvocato Anselmi. A tale notizia, ella si sentì tutta rimescolare.

Tacque un momento, poi osservò che le pareva una cosa poco opportuna, una piccineria.

Ma il Commendatore protestò. I mobili dell’Avvocato rappresentavano un capitale di oltre trentamila lire, e questa non era somma da disprezzarsi, tanto più che, non ostante il ricupero degl’ingenti capitali che l’Avvocato aveva riscosso la vigilia della sua fuga, con l’ajuto del suo complice, da alcuni dei principali clienti e mediante vendite clandestine, la banca, rifatti i conti, rimaneva allo scoperto di ben duecentomila lire verso quel signore; e le trentamila lire dei mobili rappresentavano circa un sesto della perdita patita: non era da disprezzarsi!

Edvige non replicò. Che poteva ella dire davanti a queste inesorabili cifre? Nulla. Ma il suo cuore era straziato dall’idea che quei mobili, testimoni discreti di tante gioje, di tante lagrime, di tanta parte della sua vita, sarebbero stati venduti ad un’asta pubblica.

Dacchè aveva ricevuta questa notizia, l’immagine di Paolo le tornava dinanzi con più insistenza. Lo rivedeva come nell’ultimo giorno, col viso pallido, gli occhi arsi dalla febbre, la voce tremante, come nel momento in cui le aveva fatto quell’ultima proposta di fuggire insieme. Che ne [p. 215 modifica]era avvenuto di lui? Dove era andato? Guardava sempre le quarte pagine e le terze pagine dei giornali stranieri, pensando ch’egli potesse mandarle per quella via un qualche cenno, un saluto. Ma se qualche avviso strano l’aveva fatta palpitare, ella si era poi subito accorta, che non poteva essere di lui. Di lui, nulla, nemmeno un segno. Ella pensava qualche volta che s’egli fosse venuto a scoprire — e un giorno o l’altro poteva accadere — la parte ch’ella aveva rappresentato in quella catastrofe, difficilmente gliel’avrebbe perdonata.

Per fortuna egli non poteva rimettere piede in Italia senza rischiare di essere arrestato. E tuttavia questa fortuna, qualche volta le pareva dura.

In quel frattempo i giornali annunziarono l’esposizione dei mobili per l’asta, nella solita sala delle aste pubbliche, situata in una piccola via centrale.

Edvige lesse l’annunzio in un giornale della sera e subito la prese un irresistibile desiderio di rivedere quei mobili. L’avviso diceva che l’esposizione rimaneva aperta fino alle sette di sera. Erano le cinque e mezzo. Aveva tutto il tempo, ed era appunto l’ora più opportuna per non incontrare dei conoscenti.

Già se li vedeva ripassare nella memoria quei buoni complici incapaci di tradire, quei muti amici condannati all’esilio. Alcuni le parevano tutti dolenti, tutti umiliati di quella posizione. Provava una specie di tenerezza specialmente per una poltrona foderata di seta color avorio a fiori celesti, dove aveva tanto pianto in una delle [p. 216 modifica]ultime visite, quando lui le diceva tante cose amare. Voleva rivederla assolutamente: era un bisogno irresistibile che la afferrava, che la spingeva.

Cercò nell’armadio un cappellino di paglia nero con velo di garza grigio poco trasparente, e un lungo dolman di lana leggera che le copriva tutta la persona, e fu pronta.

Attraversando l’anticamera disse al domestico che andava a pranzo fuori e scese le scale rapidamente, riprovando quel senso acuto di voluttà e di paura, che l’aveva accompagnata ai suoi primi appuntamenti.