Novelle (Bandello, 1910)/Parte III/Novella XXXVI

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Novella XXXVI - Il gran maestro di Francia argutamente riprende il re Lodovico XI d’un errore che faceva

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Novella XXXVI - Il gran maestro di Francia argutamente riprende il re Lodovico XI d’un errore che faceva
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IL BANDELLO

al gentilissimo signor

gian angelo simoneta


Gran prudenza mi par esser quella d’un gentiluomo, il quale, stando con un signore che conosca esser capriccioso e che mal volentieri si senta riprendere di ciò che fuor di ragione fa, talmente si sa governare, che senza incorrere ne la disgrazia di quello, di tal modo si diporta che de l’error suo l’ammonisce. E questo suol assai sovente avvenire quando il cortegiano è di svegliato ingegno, e con qualche proposta che gli fará, l’induce a conoscere il diffetto ove egli è caduto. Questo conseguirá egli con qualche bel detto, o chiedendo talora il contrario di ciò che il signore sgarbatamente fa, a ciò che con questa occasione possa modestamente avvertirlo. Ché ci sono molti, i quali, persuadendosi vie piú di quello che sanno e che convien loro, senza rispetto veruno vorranno corteggiar il padrone, e quanto piú gente ci sará, per mostrarsi ben di grande autoritá, lo emenderanno. Onde il signore, se forse talora saperá dissimulare l’ira che ha, non resterá perciò che non se la leghi, come si dice, al dito, e a tempo e luogo poi non faccia degli scorni insopportabili a chi averá voluto sonar lui. Sovvengavi di ciò che fece non è molto il signor Sigismondo Malatesta, quando i tedeschi e spagnuoli dirubarono e saccheggiarono Roma e spogliarono le chiese; che, essendo alora entrato in Arimini, perciò che uno dei piú cari partegiani che avesse, e che celatamente l’aveva in un fascio d’erba portato in quella cittá, ardi dirgli non so che essendo a tavola, gli diede de le pugnalate e l’ammazzò. E tuttavia ciò che colui gli diceva era per ammonirlo che piú non cadesse in certo fallo ove era, disonestamente operando, [p. 346 modifica]346 PARTE TERZA poco innanzi caduto. Si vuole adunque maturamente pensare quello che con i suoi padroni si ragiona, e se pur altro modo non ci è, prender l’opportunità e con ogni sommissione, alora che sono soli, dir loro ciò che bisogna. Facendosi adunque l’onorate nozze del signor Giovan Paolo Sforza e de la signora Violante Bentivoglia in Ferrara, in casa del signor Alessandro Bentivoglio padre de la sposa, e ragionandosi di questa materia, il signor Alfonso Caraffa, che, venuto nuovamente di Francia, se ne ritornava a Napoli, disse a questo proposito una breve novelletta, la quale io subito scrissi. E pensando a cui dar la devessi, voi m’occorreste, come cortegiano gentile, piacevole, cortese e modestissimo. E cosi quella vi dono in testimonio de la vostra gentilezza ed altresi de l’amor mio verso voi. State sano. NOVELLA XXXVI Il gran maestro di Francia argutamente riprende il re Lodovico undecimo d'un errore che faceva. Essendo io questi di a la corte di Francia, udii molte fiate ragionar de le maniere e costumi del re Luigi undecimo, e fra alcune parti non troppo lodevoli, che quei signori francesi, che di lui parlavano, dicevano esser state in lui, affermavano come egli fu generalmente nemico di tutti i reali e nobili di Francia, dei quali molti ne fece morire, e che al servizio suo non aveva se non gente vilissima, e che molti ignobili essaltò, dando loro grossissime entrate e gran degnità. Ora tra gli altri che da la feccia de la plebe egli sollevò in alto, fu uno chiamato da tutti il Balva, il quale tanto puoté appresso lui, che secondo il suo parere il re del tutto si governava e tutto quello che il Balva ordinava era subito latto, di modo che il re procurò tanto col papa, che lo fece far cardinale di Santa Chiesa e gli diede più di sessanta mila scudi di benefici in Francia, ben che il povero re ne fosse mal rimeritato, perciò che a lungo andare il Balva gli fu traditore. Ma lasciamo questo e vegniamo a la materia de la quale ora tra voi, signori miei, disputavate, cioè in che modo il cortegiano si deve col suo signor governare, quando [p. 347 modifica]NOVELLA XXXVI 347 lo vede far qualche cosa sgarbatamente. Vi dico adunque: dessiderando il re sapere di quanto numero d’uomini ne la città di Parigi si poteria prevalere che portassero arme, volle che tutti facessero la mostra armati, chi a piedi, chi a cavallo. E di questa mostra diede la commissione al Bai va, che ancora non era cardinale, ma solamente vescovo. Il che sentendo monsignor di Cabannes, gran maestro di Franza, se ne turbò forte, conoscendo che questo non era ufficio di vescovo. Tuttavia non volle contradire al re né dirgli che non istesse bene ciò che egli faceva. Ma accostatosi a lui, riverentemente gli disse: — Sere, io vi supplico umilissimamente che sia di vostro piacere di farmi una grazia, che a me sarà di grandissimo contento. — E che cosa volete voi — rispose il re — che io vi faccia? — Io vi supplico — soggiunse il gran maestro — che voi degnate darmi commessione che io vada al vescovado che è di monsignor Balva, a riformare i suoi canonici e visitarli. — Come può esser questo? — disse il re. — La commissione non sarebbe propria né a voi convenevole, ché non istà bene che un secolare non sacro emendi le persone ecclesiastiche. — Si, sarà — rispose il gran maestro — cosi propria e conveniente a me, come è quella che voi commessa avete al vescovo, che vada a far la mostra ed ordinare le genti d’arme. — Piacque al re l’arguzia e rivocò la commissione. Ché forse, quando monsignor di Cabannes avesse detto: — Sire, cotesto non istà bene; voi noi devete fare: mandateci un commissario de le mostre, — o simil’altre parole, il re, che era capriccioso, si sarebbe adirato e averebbe voluto che la commissione data al vescovo si fosse essequita. '