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Brevetti e software: per chi suona la campana?

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Brevetti e software:
per chi suona la campana?

Nel capitolo precedente abbiamo discusso di brevetti applicati agli standard (nel campo del software principalmente). Mi chiedo però se il software debba essere oggetto di tutela brevettuale per sempre, oppure ci sia spazio per una loro abolizione o sostanziale restrizione? Già la Corte Suprema degli Stati Uniti ha dato diversi colpi alla lassità con cui le corti federali avevano concesso strada libera alla brevettazione del software, dei modelli di business e praticamente di qualsiasi cosa di cui sotto il sole di agosto qualcuno potesse sognarsi. Le sentenze Bilski, Alice (soprattutto, vedi paragrafo successivo), Mayo, pur non affrontando il cuore del problema hanno però fornito elementi per le corti inferiori per demolire almeno i brevetti più “deboli”.

Chiunque esperto nel ramo vi dirà “software patents are here to stay” (“i brevetti software son qui per restare”), ma recentemente si è aperto qualche spiraglio per una definitiva risistemazione del sistema brevettuale, che lasci libero da brevetti il software in sé e per sé, dunque non solo limitando e restringendo i requisiti di brevettazione.

La Corte d’Appello per il Circuito Federale ha emesso una sentenza piuttosto interessante nella causa Intellectual Ventures v. Symantec, che mi dà lo spunto per discutere perché i brevetti non dovrebbero mai [p. 110 modifica]essere concessi sul software1, fornendo dunque un’opinione ben più autorevole della mia. La sentenza, in una causa in cui Intellectual Ventures pretendeva un bel po’ di milioni, ha deciso che nessuno dei tre brevetti (software) su cui si basava la pretesa meritava la protezione brevettuale perché si trattava di idee astratte. Ma la parte più interessante, come capita spesso, è nella dissenting opinion del Giudice Mayer, il quale chiede che venga suonata la campana a morto per i brevetti software.

La sentenza e i precedenti

La Corte d’Appello per il Circuito Federale (CAFC) di recente è stata spesso al centro di decisioni molto importanti riguardo al tipo di protezione da dare al software, come nel caso Oracle v. Google, che almeno apparentemente si scontra2 con la giurisprudenza e la normativa europea circa il copyright sulle interfacce. Questo caso è in apparenza meno centrale, in quanto per due su tre dei brevetti in discussione anche la corte inferiore aveva riconosciuto una non brevettabilità, poiché essi contenevano in maniera abbastanza evidente semplici idee astratte, di cui si era pretesa e ottenuta protezione semplicemente perché per applicarle c’era di mezzo un computer. Sul terzo aveva in extremis rinvenuto una parvenza di brevettabilità e su quel presupposto aveva condannato i convenuti


[p. 111 modifica]a un lauto risarcimento dei danni per aver praticato l’invenzione senza avere ottenuto una valida licenza.

Sulla base di quanto deciso dalla Corte Suprema degli Stati Uniti, nel caso Alice Corp v. CLS Bank3 (e in Mayo Collaborative Servs. v. Prometheus Labs in un campo adiacente quale quello della brevettazione di principi di funzionamento della biologia umana) il risultato appariva sufficientemente scontato per tutti e tre. Come ricordato sopra, la corte di primo grado aveva già invalidato due di essi, ma aveva fatto rientrare dalla finestra uno dei tre brevetti in quanto, nonostante fosse basato su idee astratte, e queste idee fossero semplicemente implementate in un computer, si riteneva contenesse comunque materiale sufficiente per risolvere un problema tecnico in modo non ovvio.

Tuttavia la Corte spazza via anche questo residuo:

Mayo Collaborative Servs. v. Prometheus Labs., claims that “amount to nothing significantly more than an instruction to apply [an] abstract idea [...] using some unspecified, generic computer” and in which “each step does no more than require a generic computer to perform generic computer functions” do not make an abstract idea patent-eligible, Alice, 134 S. Ct. at 2359–60 (citations and internal quotation marks omitted), because “claiming the improved speed or efficiency inherent with applying the abstract idea on a computer” does not “provide a sufficient inventive concept.”

Nemmeno questo residuo dunque merita attenzione per la CAFC, in quanto – sostiene – pretende di realizzare un incremento di protezione per il sistema antivirus, spostando il livello di protezione da un


[p. 112 modifica]computer a una linea telefonica (e per traslazione a Internet), in maniera del tutto convenzionale e senza aspetti innovativi, pur essendo presente una descrizione di numerosi dettagli tecnici sulla possibile implementazione nella descrizione del brevetto; dettagli che però non rilevano per l’ambito di tutela.

Fin qui niente di innovativo, si tratta dell’applicazione di una serie di sentenze che limitano il ruolo dei brevetti in settori adiacenti al software e come per il software denotati da una certa astrattezza e intangibilità, come i metodi di business o i metodi matematici per massimizzare i risultati economici di transazioni finanziarie tramite algoritmi implementati in computer (Alice) o altri metodi di business (Bilski v. Kappos).

Ciò che è innovativo, ciò che non si era mai visto, è un giudice che si scaglia lancia in resta contro la stessa idea che possano essere concessi brevetti sul software, cosa che la Corte Suprema aveva sempre accuratamente evitato di fare quando è stata richiesta di farlo e poteva farlo.

Dissenting e concurring opinion

Le sentenza USA hanno questa peculiarità: contengono delle “opinion” (opinioni, pareri) in cui i giudici affrontano in maniera molto elaborata e piuttosto dottrinale i punti giuridici discussi, in riferimento ai precedenti. I giudici sono infatti molto attenti a discutere espressamente i precedenti in quanto questi, sulla base del principio stare decisis (“ci si attenga ai precedenti”), essi contribuiscono a costituire la legge per tutti i casi simili, principio fondante della Common Law, a cui il sistema giuridico USA si attiene.

Dipartire senza una valida ragione da precedenti [p. 113 modifica]sufficientemente autorevoli costituisce quella che da noi si chiamerebbe una vera e propria violazione di legge.

Le sentenze nelle corti superiori sono elaborate collegialmente sulla base di una votazione che può essere unanime o con giudici dissenzienti. Sulla base della decisione, uno dei giudici è chiamato a esprimere l’intenzione della corte, redigendo materialmente la parte motivazionale, ovvero l’opinion, che ovviamente sarà coerente con la decisione presa. Così nella sentenza si troveranno tutti i punti fondamentali che hanno guidato il giudice e che guideranno altri giudici di quel distretto ed eventualmente di altri distretti nella soluzione di casi simili.

Il giudice che provvede alla redazione della sentenza si fa interprete della volontà collegiale. Ci possono essere voti contrari; a differenza di quanto avviene da noi, il fatto che ci siano voti contrari (in tutto o in parte) viene reso pubblico. Un giudice dissenziente che si voglia prendere la briga di farlo, può con altrettanta autorevolezza giuridica, anche se senza vincolare i giudici successivi, esprimere la propria opinione affermando le ragioni per il suo voto contrario, in quella che si chiama “dissenting opinion” (opinione dissenziente).

La bellezza e stranezza del sistema americano non si ferma qui: anche chi vota a favore può farci conoscere il suo pensiero, pur concordando con la maggioranza (“concurring”), onde dare il suo personale contributo e guida ai futuri giudici, offrendo spunti utili a meglio motivare (e agli studenti maggiori oneri di studio...).

Molto spesso le novità più interessanti nella giurisprudenza vengono appunto dalle opinioni dissenzienti e da quelle concurring. [p. 114 modifica]

Il caso contro i brevetti software del Giudice Mayer

Mayer si spinge più in là dei suoi colleghi. Dice che è ora di far scendere un pietoso velo sui brevetti che ricadono su “semplice” software che fa riferimento a computer generici, e lo fa sotto due speciali argomenti:

  • il diritto di esprimere liberamente le proprie opinioni (Primo Emendamento alla Costituzione USA);
  • una esenzione “per categoria” del software dall’ambito della protezione brevettuale.

La parte sul diritto di parola (Freedom of Speech, uno dei più sacri, non solo perché oggetto del primo emendamento), è molto interessante, ma per la sua peculiarità è anche la più legata alle peculiarità della giurisdizione. Il secondo, riguardante l’esenzione del software dalla brevettabilità come categoria in quanto per natura materia astratta, invece si applica pari-pari a tutti i luoghi, compreso il territorio europeo, dove i brevetti software sono concessi a piene mani. È importante per la nostra analisi, in generale, perché coglie una caratteristica importante del software: esso è una serie di algoritmi, un’idea astratta, che tecnicamente può essere realizzata saldando circuiti fatti da semiconduttori, scrivendo bit su un supporto magnetico, ma anche prendendo una penna e scrivendo il codice sulla carta (difficile, lungo, complesso, ma non impossibile).

Di un farmaco posso scrivere la formula su un pezzo di carta, ma per realizzarlo mi ci vuole un laboratorio. Di un nuovo materiale a memoria di forma posso scrivere il processo per ottenerlo da materie prime, ma mi serve un impianto per crearlo. Di un [p. 115 modifica]microprocessore posso disegnare su carta la topografia con gli elementi e le connessioni, ma mi serve una fabbrica da cento milioni di Dollari per crearlo. Il software no, quello che scrivo sulla carta è l’oggetto della protezione, è il software.

L’opinion cita e passa in rassegna in maniera rimarchevole praticamente tutte le ragioni che da anni il fronte anti-brevetti software va predicando, fronte a cui non è un mistero anch’io mi iscrivo. Non è il primo giudice di corte d’appello a farlo: già Richard Posner4 aveva sottolineato come il presupposto economico dei brevetti non si combina con settori in cui l’innovazione è tumultuosa ed effimera, e dove il tasso di investimenti in ricerca e sviluppo è trascurabile rispetto al costo di implementazione dell’idea predicata dal brevetto. Ma si trattava di un blog, qui si tratta di una concurring opinion in una sentenza di Corte d’Appello che si occupa di tutte le questioni sui brevetti (che sono appunto materia di competenza federale) che giungono al livello d’appello.

Il Giudice Mayer individua in modo analitico almeno quattro dei peccati capitali dei brevetti software.

L’ambito di protezione è sproporzionato al valore
di ciò che viene “rivelato”

I brevetti offrono, come è noto e anche da noi ricordato, un incentivo a investire per elaborare prima e a rivelare poi un’idea inventiva che va ad accumularsi allo stato dell’arte al fine di avanzare lo stato della tecnica. È un do ut des: ti consento di estrarre i profitti


[p. 116 modifica]del monopolista da un settore, in quanto tu aumenti lo stato delle conoscenze, dandoci modo di fare qualcosa che prima non potevamo fare, perché ci insegni (letteralmente) come farlo. I brevetti software mancano quasi totalmente di una descrizione di come si mettono in pratica, descrizione che va per forza di cose effettuata con codice sorgente, che però, quando esiste (spesso non esiste nemmeno, vedi punto successivo) non viene affatto rivelato.

I brevetti contengono solo una descrizione funzionale ad alto livello di ciò che l’applicazione deve fare, non un metodo direttamente implementabile da un esperto, che sarebbe possibile con il codice. Non insegna niente di utile. Non dice come tradurre l’idea in pratica. Per dirla in altri termini, si brevetta il problema, non la soluzione.

La banalità dei brevetti e il fatto che anche un non programmatore dotato di sufficiente buon senso e conoscenze molto rudimentali potrebbe scriverli, è un elemento molto sorprendente per chi si trova a leggerli. Personalmente devo ancora trovare un brevetto software (e ne ho letti molti) che mi abbia colpito con una soluzione che – dato il problema da risolvere – costituisse un qualcosa di sorprendentemente non evidente o inarrivabile senza leggere il brevetto, con l’eccezione forse di alcuni brevetti sulla compressione audiovideo, che però hanno ampiamente fatto il loro tempo (il resto è molto minestra riscaldata).

L’incentivo all’innovazione viene dato
in un momento sbagliato

Questo punto è una conseguenza del precedente, in un certo senso. Poiché non è richiesta alcuna [p. 117 modifica]rivelazione di codice sorgente che implementi il “trovato” brevettato, e il brevetto viene concesso sulla base di una vaga descrizione funzionale, la tutela viene garantita di molto in anticipo rispetto a qualsiasi dimostrazione di avere un’implementazione minimamente funzionante. Realizzare un’implementazione funzionante significa utilizzare molto tempo e risorse di programmazione, e niente, in questo passo, viene aiutato dalla presenza di una domanda di brevetto, che solitamente è anche in regime di segretezza, per cui probabilmente al momento dello sviluppo nessuno è nemmeno cosciente della sua esistenza. Siccome il sistema premia chi arriva per primo, vi è un forte incentivo ad ottenere il brevetto ancora prima di aver iniziato a creare una tale implementazione.

Una volta ottenuto il brevetto, la privativa consente in teoria di lucrare sull’investimento, rilevante, in ricerca e sviluppo (che nel software è sostanzialmente scrittura di codice e prova di corretto funzionamento) di altri, prima ancora di averlo fatto in proprio. Ciò è tra l’altro dimostrato dall’abbondare di “non practicing entities”, soggetti che non hanno magari mai nemmeno scritto una linea di codice, ma hanno saputo intuire dove nuove aree di progettazione del software si sarebbero mosse. Dunque l’incentivo non va a chi dovrebbe investire, anzi, ciò che dovrebbe essere un incentivo si trova ad essere un impedimento, in quanto sottrae risorse agli investimenti che dovrebbe promuovere.

Se devo muovere una critica al ragionamento del giudice Mayer, spesso il problema è l’inverso: si fornisce un incentivo quando è troppo tardi, nel senso che il “trovato” è un sottoprodotto di un’attività di programmazione che ci sarebbe comunque stata, [p. 118 modifica]qualcosa che è emerso come un “afterthought” alla fine del processo di scrittura del codice, senza uno sforzo preciso e finalizzato, e senza che dunque il premio di un brevetto abbia potuto svolgere il suo effetto incentivante, se non come mera possibilità. Un po’ come un premio Oscar alla carriera. Esattamente come la possibilità di ottenere profitti dopo la propria morte difficilmente incentiva a creare più opere musicali, letterarie, cinematografiche...

Il loro mero numero ne fa un problema in sé

Il Giudice prosegue segnalando come il sistema dei brevetti sul software stia causando da solo la maggioranza dei nuovi brevetti. Il loro numero, in sé, è un problema per l’economia e una minaccia per le imprese innovative più giovani e piccole, ma anche per tutto il settore della tecnologia. Ricorda che i brevetti insistenti su un moderno smartphone sono in un numero inimmaginabile, oltre 250.000 secondo alcuni calcoli. Per cui siamo di fronte a un elemento di disturbo non da poco.

I brevetti software per loro natura mancano
dei naturali confini che i brevetti in altri campi offrono

Infine, per come sono concepiti, i brevetti sul software tendono a essere intollerabilmente vaghi.

Un brevetto dovrebbe avere una sua delimitazione sicura, in modo che un operatore esperto nel settore sia messo in grado di conoscere cosa sia oggetto del brevetto e cosa non lo sia. In un sistema in cui si brevettano sostanzialmente idee astratte e algoritmi, non processi e materiali esistenti in natura (di [p. 119 modifica]cui si dà solitamente una descrizione funzionale ad alto livello) non è possibile sapere in anticipo con un sufficiente margine di sicurezza cosa sia brevettato e cosa no.

Tutto ciò crea incertezza e frena l’innovazione.

È tutto?

La concurring opinion analizzata è sicuramente l’atto di accusa più autorevole contenuto in un atto ufficiale di un giudice chiamato ad applicare le norme sui brevetti. Non sviscera interamente l’intero parco delle critiche che si possono muovere ai brevetti sul software, ma vi assesta numerosi colpi che potranno in futuro essere colti da altri giudici per scardinare un sistema malato, una volta per tutte.

Il punto più importante è comunque colto: il software è un ambito in cui si aveva da tempo una forma di protezione ben più che sufficiente a creare un’intera industria, come la storia fino alla fine degli anni 90 dimostra, prima che nell’equazione venissero calati i brevetti. Questa protezione consente di remunerare chi si impegna a realizzare qualcosa con importanti investimenti e creare qualcosa di valore per il mercato, dopo che l’investimento è stato fatto e un “prodotto” è sul mercato. Qualcosa che consente di creare il fenomeno più rilevante e sconvolgente degli ultimi trent’anni: il software libero/open source. Questa protezione è il copyright, pur con tutti i suoi difetti. Soprattutto, siccome il sistema di proprietà intellettuale trova la sua ragion d’essere nel fornire un incentivo all’innovazione, i cui vantaggi per la collettività superano l’inconveniente di fornire un piccolo monopolio, non vi è un’analisi seria e convincente (o [p. 120 modifica]anche minimamente tale) che tale incentivo e vantaggio siano reali, in presenza di un “controfattuale” (un elemento fattuale la cui presenza o assenza si contrappone o conferma logicamente il teorema da dimostrare) contrario, controfattuale da rinvenirsi proprio nella storia del software a cui si è fatto cenno.

La campana a morto per i brevetti software non suonerà mai troppo presto.

  1. Intellectual Ventures I LLC v. Symantec Corp., 838 F.3d 1307 (Fed. Cir. 2016) http://www.cafc.uscourts.gov/sites/default/files/opinions-orders/15-1769.Opinion.9-28-2016.1.PDF.
  2. Si veda http://arstechnica.com/tech-policy/2016/05/round-2of-oracle-v-google-is-an-unpredictable-trial-over-api-fair-use/.
  3. Si veda http://www.scotusblog.com/case-files/cases/alice-corporation-pty-ltd-v-cls-bank-international/.
  4. http://www.becker-posner-blog.com/2012/09/do-patent-and-copyright-law-restrict-competition-and-creativity-excessively-posner.html.