Opere (Lorenzo de' Medici)/VI. Egloghe/II. Apollo e Pan

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II. Apollo e Pan

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VI. Egloghe - I. Corinto Indice I.
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II

APOLLO E PAN


     È un monte in Tessaglia detto Pindo,
piú celebrato giá da’ sacri vati,
ch’alcun che sia dal vecchio Atlante all’Indo.
     Alla radice l’erba e’ fior ben nati
bagnon l’acque d’un fonte, chiare e vive,5
rigando allor fioretti e verdi prati.
     Poi, non contente a cosí strette rive,
si spargon per un loco, che mai vide
il sol piú bello, o d’alcun piú si scrive.
     Penèo è il fiume, e ’l paese, che ride10
d’intorno, è detto Tempe, una pianura,
la quale il fiume equalmente divide.
     Cigne una selva ombrosa, non oscura,
il loco, piena di silvestre fère,
non inimiche alla nostra natura.15
     Vari color di fior si può vedere,
sí vaghi, che convien che si ritarde
il passo vinto da novel piacere.
     Quivi non son le notte pigre o tarde,
né il freddo verno il verde asconde o cela,20
over le fronde tenere ritarde.
     Né l’aer nubiloso ivi congela
il frigido Aquilon, né le corrente
acque ritarda il ghiaccio o i pesci vela.
     Del Sirio can la rabbia non si sente,25
né par ch’a terra i fior languenti pieghi
l’arida arena, anela e siziente.

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     Né si fende la terra, acciò che i prieghi
suoi venghino agli orecchi di Giunone,
che l’acque disiate piú non nieghi.30
     Eterna primavera una stagione
sempre è ne’ lochi dilettosi e belli,
né per volger di cielo han mutazione.
     Le fronde sempre verdi e’ fior novelli,
come producer primavera suole35
di primavera il canto degli uccelli.
     Febo ancor ama il loco, e ancora cole
il laur suo, s’egli è; qual meraviglia,
se ’l verno temprato è, men caldo il sole?
     Del padre ambo le rive occupa e piglia40
Dafni, e talor, piangendo, crescon l’onde,
tanto che toccan pur l’amata figlia.
     Nell’acque all’ombra delle sacre fronde
canton candidi cigni dolcemente:
l’acqua riceve il canto, e poi risponde.45
     Poiché le frondi amò sempre virenti
Febo, lasciôro il fonte pegaseo
i cigni, e ’l canto loro or qui si sente.
     Sopra ad ogn’altro loco Apollo deo
questo amò in terra dal surgente fonte,50
fin dove perde il nome di Peneo.
     Ma piú dopo l’eccidio di Fetonte,
che lui per la vendetta del suo figlio
fece passar a Sterope Acheronte.
     Onde irato il rettor del gran concilio,55
per punir giustamente il grave errore,
gli die’ del ciel per alcun tempo esilio.
     Allor abito prese di pastore;
ma poca differenzia si comprende
dalla pastoral forma al primo onore.60
     L’arco sol, che da’ sacri òmeri pende,
il quale giá esser aureo solea,
ora è di nasso e piú splendor non rende.

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     Cosí l’aurata lira, che pendea
dall’altro lato giá nel suo bel regno,65
di macero era, ed or piú non lucea.
     L’eburneo plettro giá or è di legno;
gli occhi spiravon pur un divin lume:
questo tôr non li può chi nel fe’ degno.
     Servano i biondi crini il lor costume;70
ma dove li premeva una corona
di gemme, or delle fronde del suo fiume.
     Cosí fatto pastor or canta, or suona;
or ambo le dolcezze insieme aggiunse
talor con Dafne, or con Peneo ragiona.75
     Sentillo Pan un giorno, e, poi che giunse
dov’era, disse: — Che sí ben cantassi,
pastor mai guardò armenti o vacche munse.
     E’ converria che teco un dí certassi;
ma a me iddio saria certar vergogna80
con chi osserva degli armenti i passi. —
     Cinzio pastor a lui: — Non ti bisogna
questo riguardo aver, ché la mia lira
cosí degna è come la tua zampogna.
     Se non conosci il canto, gli occhi mira. — 85
Conobbe Pan colui, che adora Delo,
per lo splendor che da’ santi occhi spira
     — Ed or con molto piú ardente zelo
canto — disse — colui che Arcadia venera,
piú che ciascun abitator del cielo. — 90
     E Delio: — Questo in me gran piacere genera:
contento son. — Cosí ciascun s’assise
sopra l’erba fiorita, verde e tenera.
     All’ombra di Siringa Pan si mise,
che dello antico amor pur si ricorda:95
ella si mosse e quasi al canto arrise.
     Tempera e scorre allor ciascuna corda
Apollo all’ombra del suo lauro santo:
Pan le congiunte sue zampogne accorda.

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CANTO D’APOLLO


     O bella ninfa, ch’io chiamai giá tanto100
sotto quel vecchio faggio in valle ombrosa,
né tu degnasti udire il nostro canto;
     deh non tener la bella faccia ascosa,
se gli arditi desir giá non son folli
a voler recitar sí alta cosa.105
     Io te ne priego per gli erbosi colli,
per le grate ombre e pe’ surgenti fonti,
c’hanno i candidi piè tuoi spesso molli;
     per gli alti gioghi degli alpestri monti,
per le leggiadre tue bellezze oneste,110
per gli occhi, i quai col Sol talora affronti;
     per la candida tunica, che veste
l’eburnee membra tue, pe’ capei biondi,
per l’erbe liete dal piè scalzo pèste;
     per gli antri ombrosi, ove talor t’ascondi,115
pel tuo bell’arco, il qual se fussi d’oro,
paresti Delia tra le verdi frondi;
     ninfa, ricorda a me che versi fôro
cantati dalli dèi, perché convenne
ciascuna ninfa per udir costoro.120

     Peneo il corso rapido ritenne,
misson gli armenti il pascere in oblio,
troncò il canto agli uccei le leggier penne.
     I fauni per onor del loro dio,
ciascun satiro venne a quel concento,125
fermossi delle fronde il mormorio.
     Pan dette allora i dolci versi al vento.

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CANTO DI PAN


     Diva, nell’inquieto mar creata,
fusti tu causa al siculo pastore
di morte, o la prole impia da te nata?130
     Certo tu fusti, anzi il tuo figlio Amore,
anzi tu impia, e lui crudel li desti
vana speranza tu, lui cieco ardore.
     E tu qual delle Furie togliesti,
o Cupido, il velen? forse lo strale135
nelle schiume di Cerbero intignesti?
     Crudel, come potesti tanto male
guardare, e morte tanto acerba e rea
con gli occhi asciutti, e se’ dio immortale?
     Se ’l consenso vi fu di Citerea,140
io stimo omai i sua numini vani;
se non son, tu non se’ figliuol di dea.
     Anzi ti partorîr li gioghi strani
di Caucaso nivoso, e in duri sassi
il latte ti nutrí di tigri ircani.145
     Crude nutrici, e superar ti lassi
da sí crude nutrici, di pietate!
Pianserne loro, ed il cor tuo duro stassi.
     Fûr le pilose guance allor rigate
da’ primi pianti, e lacrime novelle150
dagli occhi fèri avanti non gustate.
     Ma voi dove eravate, o ninfe belle,
allor che dette gli ultimi lamenti
Dafni, chiamando le crudeli stelle?
     Dafni, amator delle selve virenti,155
Dafni onor del mio regno, a me piú grato
ch’alcun pastor, che mai guardassi armenti.
     Ah Dafni, Dafni, quant’hai ben guardato
gli armenti, e mal te stesso! ma chi puote
fuggir però lo inesorabil fato?160

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     Chi puote ostar alle costanti ruote,
e pregando piegar l’empie soròre,
o bagnando di lacrime le gote?
     Chi può fuggir, Cupido, il tuo furore?
Siringa sai, quanto al seguir leggieri165
fe’ giá i mia piè, benché a te piú il timore.
     Poiché non fe’ pietosi i duri imperi
Dafni colla sua morte, alcuno amante
trovar pietate in lui giamai non speri.

     Empiêro le spilonche tutte quante170
di mugghi fier leoni, e pianto tristo
sudorno i sassi e le silvestre piante.
     Licaon, lacrimar mai non piú visto,
ne pianse, e quei, di cui la forma prese
col figlio giá la gelida Calisto.175