Opere (Lorenzo de' Medici)/VI. Egloghe/I. Corinto

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I. Corinto

Opere (Lorenzo de' Medici)/VI. Egloghe ../II. Apollo e Pan IncludiIntestazione 7 febbraio 2024 100% Da definire

VI. Egloghe VI. Egloghe - II. Apollo e Pan
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I

CORINTO


     La luna in mezzo alle minori stelle
chiara fulgea nel ciel quieto e sereno,
quasi ascondendo lo splendor di quelle:
     e ’l sonno aveva ogni animal terreno
dalle fatiche lor diurne sciolti:5
e il mondo è d’ombre e di silenzio pieno.
     Sol Corinto pastor ne’ boschi folti
cantava per amor di Galatea
tra’ faggi, e non v’è altri che l’ascolti:
     né alle luci lacrimose avea10
data quiete alcuna, anzi soletto
con questi versi il suo amor piangea:
     — O Galatea, perché tanto in dispetto
hai Corinto pastor, che t’ama tanto?
perché vuoi tu che muoia il poveretto?15
     Qual sieno i mia sospiri e il tristo pianto
odonlo i boschi, e tu, Notte, lo senti,
poi ch’io son sotto il tuo stellato ammanto.
     Sanza sospetto i ben pasciuti armenti
lieti si stanno nella lor quiete,20
e ruminando forse erbe pallenti.
     Le pecorelle ancor drento alla rete,
guardate dal can vigile, si stanno
all’aura fresca dormienti e liete.

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     Io piango non udito il duro affanno,25
i pianti, i prieghi e le parole all’ugge:
che, se udite non son, che frutto fanno?
     Deh, come innanzi agli occhi nostri fugge,
non fugge giá davanti dal pensiero!
ché poi piú che presente il cor mi strugge.30
     Deh, non aver il cor tanto severo!
Tre lustri giá della tua casta vita
servito hai di Diana il duro impero:
     non basta questo? Or dammi qualche aita,
ninfa, che se’ sanza pietate alcuna.35
Ma, lasso a me! non è la voce udita.
     Se almen di mille udita ne fussi una!
Io so che’ versi posson, se li sente,
di cielo in terra far venir la luna.
     I versi fêron giá l’itaca gente40
in fère trasformar ne’ verdi prati:
rompono i versi il frigido serpente.
     Adunque i rozzi versi e poco ornati
daremo al vento; ed or ho visto come
saranno a lei li mia pianti portati.45
     L’aura move degli arbor l’alte chiome,
che rendon mosse un mormorio suave,
ch’empie l’aere ed i boschi del suo nome:
     se porta questo a me, non li fia grave
portar mio pianto a questa dura femmina50
per gli alti monti e per le valli cave,
     ov’abita Eco, che i mia pianti gemina:
o questo, o il vento a lei lo portin seco:
io so che ’l pianto in pietra non si semina.
     Forse ode ella vicina in qualche speco.55
Non so se sei qui presso: so ben ch’io,
fuggi dove tu vuoi, sempre son teco.
     Se ’l tuo crudo voler fussi piú pio,
s’io ti vedessi qui, s’io ti toccassi
le bianche mani e ’l tuo bel viso, o Dio!60

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     se meco sopra l’erba ti posassi,
della scorza faría d’un lento salcio
una zampogna, e vorrei tu cantassi.
     L’errante chiome poi strette in un tralcio,
vedrei per l’erba il candido piè movere65
ballando e dare al vento qualche calcio.
     Poi stanca giaceresti sotto un rovere:
io pel prato correi diversi fiori,
e sopra il viso tuo li farei piovere:
     di color mille e mille vari odori,70
tu ridendo faresti, dove fôro
i primi còlti, uscir degli altri fuori.
     Quante ghirlande sopra i bei crin d’oro
farei, miste di fronde e di fioretti!
Tu vinceresti ogni bellezza loro.75
     Il mormorio di chiari ruscelletti
risponderebbe alla nostra dolcezza
e ’l canto di amorosi augelletti.
     Fugga, ninfa, da te tanta durezza:
questo acerbo pensier del tuo cor caccia:80
deh, non far micidial la tua bellezza!
     Se delle fiere vuoi seguir la traccia,
non c’è pastor o piú robusto o dotto
a seguir fère fuggitive in caccia.
     Tu nascosta starai sanza far motto85
con l’arco in mano: io con lo spiedo acuto
il fèr cignale aspetterò di sotto.
     Lasso! quanto dolor io aggio avuto,
quando fuggi dagli occhi col piè scalzo!
e con quanti sospiri ho giá temuto90
     che spine o fère venenose o il balzo
non offenda i tua piè! quanto n’ho sdegno!
per te fuggo i piè invano e per te gli alzo;
     come chi drizza stral veloce al segno,
poiché tratto ha, torcendo il capo, crede95
drizzarlo: egli è giá fuor del curvo legno.

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     Ma tu se’ sí leggiera, ch’io ho fede
che la tua levitá porria per l’acque
liquide correr sanza intigner piede.
     Ma che paura drento al cor mi nacque,100
che non facessi come fe’ Narciso,
a cui la sua bellezza troppo piacque;
     quando al bel fonte ti lavasti il viso,
poi, queta la tempesta da te mossa,
miravi nel tranquillo specchio fiso!105
     Ah mente degli amanti stolta e grossa!
Partita tu, lá corsi, non credendo
la bella effigie fussi indi remossa.
     Guardai nell’acqua, e, te non vi vedendo,
viddi me stesso; e parvemi esser tale110
da non esser ripreso, te chiedendo.
     S’io non son bianco, è il sol, né mi sta male,
sendo io pastor cosí forte e robusto:
ma dimmi: un uom, che non sia brun, che vale?
     Se pien di peli ho io le spalle e il busto,115
questo non ti dovrebbe dispiacere,
se hai, quanto bellezza, ingegno e gusto.
     Tu non sai forse quanto è il mio potere:
s’io piglio per le corna un toro bravo,
a suo dispetto in terra il fo cadere.120
     L’altrieri in uno speco oscuro e cavo
fui per cavare una coppia d’orsatti,
ove appiccando con le man m’andavo.
     Giunsi alla tana; e, poi ch’io gli ebbi tratti,
sentími l’orsa rabida e superba,125
e cominciommi a far di cattivi atti.
     Io colsi un duro ramo, e sopra l’erba
la lasciai morta, e reca’ne la preda;
la qual, se tu vorrai, per te si serba.
     Alle braccia convien che ognun mi ceda:130
vinsi l’altrier, per la festa di Pana,
una vacca, che avea drieto la reda.

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     Con l’arco in man certar voglio con Diana:
per premio ebbi un monton di quattro corna
col vello bianco insino a terra piana:135
     tuo fia, benché Neifil se ne scorna,
a cui son per tuo amor pur troppo ingrato:
lei per piacermi intorno ognor s’adorna.
     S’io son ricco, tu ’l sai; ché in ogni lato
sonar senti le valle del muggito140
de’ buoi, e delle pecore il belato.
     Latte ho fresco ad ognor, e nel fiorito
prato fragole colte, belle e rosse,
pallide ov’é il tuo viso colorito;
     frutte ad ogni stagion mature e grosse;145
nutrisco d’ape molte e molte milia,
né crederesti al mondo piú ne fosse;
     che fanno un mèl sí dolce, ch’assimilia
l’ambrosia ch’alcun dice pascer Giove;
né sol vince le canne di Sicilia.150
     O ninfa, se ’l mio canto non ti move,
muovati almen quello d’augei diversi
che canton con pietose voci e nòve.
     Non odi tu d’amor meco dolersi
misera Filomena, che si lagna155
d’altrui, com’io di te, ne’ dolci versi?
     Questo sol sanza sonno m’accompagna.
Ma io ti credo movere a pietate;
tu ridi, se ’l mio pianto il terren bagna.
     Dove somma bellezza e crudeltate,160
è viva morte; pur mi riconforto:
non dee sempre durar la tua beltate.
     L’altra mattina in un mio piccolo orto
andavo, e ’l sol surgente co’ sua rai
apparia giá, non ch’io ’l vedessi scorto.165
     Sonvi piantati drento alcun rosai,
a’ quai rivolsi le mia vaghe ciglie,
per quel che visto non avevo mai.

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     Eranvi rose candide e vermiglie:
alcuna a foglia a foglia al sol si spiega;170
stretta prima, poi par s’apra e scompiglie:
     altra piú giovanetta si dislega
a pena dalla boccia: eravi ancora
chi le sue chiuse foglie all’aer niega:
     altra, cadendo, a piè il terreno infiora.175
Cosí le vidi nascere e morire
e passar lor vaghezza in men d’un’ora.
     Quando languenti e pallide vidi ire
le foglie a terra, allor mi venne a mente
che vana cosa è il giovenil fiorire.180
     Ogni arbore ha i sua fior: e immantenente
poi le tenere fronde al sol si spiegano,
quando rinnovellar l’aere si sente.
     I picciol frutti ancor informi allegano;
che a poco a poco talor tanto ingrossano,185
che pel gran peso i forti rami piegano,
     né sanza gran periglio portar possano
il proprio peso; a pena regger sogliono
crescendo, ad or ad ora se l’addossano.
     Viene l’autunno, e maturi si cogliono190
i dolci pomi: e, passato il bel tempo,
di fior, di frutti e fronde alfin si spogliono.
     Cogli la rosa, o ninfa, or che è il bel tempo.