Origine dell'Esperanto

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Giacomo Meazzini

Arezzo (Bibbiena)


ORIGINE DELL’ESPERANTO

LINGUA AUSILIARE INTERNAZIONALE

PUBBLICATA NEL 1887

DALL’AUTORE

D.re L. Zamenhof


(Estratto dall’«Alessandro Manzoni»
     rivista letteraria di Castellammare di Stabia)



CASTELLAMMARE

Tipografia Catello Vollono

1909

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Origine dell’Esperanto 1


Voi mi domandate come mi venne in capo l’idea di formare una lingua ausiliaria internazionale, e qual’è la sua storia dall’istante in cui l’ho immaginata fino ad oggi. Il suo svolgimento, da quando l’ho fatta di pubblica ragione è più o meno conosciuto, e del resto non conviene per molte considerazioni ancora accennare a questo punto. Invece vi racconterò per sommi capi soltanto la storia della sua origine, poichè sarebbe difficile narrarla nei particolari che mi sono in gran parte sfuggiti. [p. 4 modifica]

L’idea, a cui dedicai tanta parte della mia vita si presentò alla mente — c’è da ridere — nella più tenera età, e da allora non mi abbandonò mai; vissi con essa e non posso immaginar nulla senza di essa. Questo particolare vi spiegherà come io, non ostante difficoltà ed amarezze, non abbia mai abbandonata tale idea, come fecero molti altri che lavorarono nello stesso campo.

Io nacqui a Bielostok nel governo di Grodno, e quel mio luogo natio, dove passai i primi anni, diede si può dire, l’impulso alle mie future idee.

La popolazione di Bielostok è formata di quattro diversi elementi e cioè di russi, di polacchi, di tedeschi e di ebrei, che parlano lingue diverse, e non sono tra loro in buona amicizia. Colà, meglio che in qual si sia altro luogo, si rende manifesto, ad un’anima impressionevole, il grave inconveniente derivante dalla diversità di linguaggio, e ci si persuade ad ogni passo che questa è, se non sola, almeno fra le principali ragioni che dividono la famiglia umana in fazioni tra loro nemiche.

Io veniva educato secondo principii idealistici; mi si insegnava che tutti gli uomini erano fratelli, e viceversa nelle strade e tra i miei vicini io sentivo ad ogni momento che non esisteva un’unica famiglia umana, ma soltanto russi, polacchi, tedeschi, ebrei, ecc. Ciò vivamente angosciava il mio animo infantile, quantunque molti probabilmente rideranno di questo precoce sentimento di dolore per la infelicità umana. E, poichè allora mi sembrava che gli uomini, divenuti adulti, possedessero una specie di potere superiore, andavo ripetendo a me stesso che, quando fossi diventato grande, avrei [p. 5 modifica]allontanato in qualche modo questa cagione dell’umano antagonismo.

A poco a poco mi persuasi che questa non era un’impresa tanto facile, come si era presentata alla mente infantile, ed una dopo l’altre scartai le diverse utopie; soltanto il sogno di una lingua comune non l’ho potuto mai abbandonare.

Non mi ricordo quando, ma certamente molto per tempo, mi formai la persuasione che sarebbe potuta divenire internazionale solo una lingua che fosse neutrale, cioè che non appartenesse a nessuna delle nazioni odierne, e quando, passato nella seconda ginnasiale a Varsavia, fui attratto dallo studio delle lingue antiche, sognai di andare in giro per il mondo a persuadere la gente di accettare una delle due lingue classiche per uso comune.

Più tardi, non ricordo come, mi persuasi che ciò era impossibile, e cominciai a sognare, in modo ancora indefinito, intorno alla formazione di una lingua nova, e spesso mi accingeva a provarmici inventando sovrabbondanti declinazioni, coniugazioni, ecc. E, poichè una lingua qualsiasi, con le sue innumerevoli forme grammaticali, con le sue diecine di migliaia di vocaboli, mi sembrava una macchina troppo complessa e colossale, più volte dissi tra me stesso: «via questo sogno, che è superiore alla potenza di uomo».

Tuttavia io tornavo sempre ad accarezzare quel sogno. Nella fanciullezza, cioè quando non si può fare confronti e conclusioni, appresi il francese ed il tedesco, ma allorchè, essendo nella quinta classe ginnasiale, imparai l’inglese, fui stupito della semplicità della grammatica di quella lingua, principalmente in paragone [p. 6 modifica]del latino e del greco, e notai allora che la ricchezza di forme grammaticali, non è indispensabile per un linguaggio.

Dominato da questa, cominciai a rintracciare le forme inutili e a rimuoverle; in tal guisa la grammatica si fondeva nelle mie mani come un pezzo di ghiaccio, e divenne così piccola che poteva essere racchiusa, senza svantaggio alcuno per la lingua, in pochissime pagine.

In tal modo cominciai di proposito a dar corpo al mio sogno, ma la mole dei vocabolari non mi lasciava tranquillo.

Un giorno, quando frequentavo la sesta o settima classe ginnasiale, mi cade l’occhio sopra un’insegna ove leggevasi Svejcarskaja (osteria), che io avevo veduto molte altre volte, e poi su una che diceva Konditorskaja. Questo suffisso -skaja (come gli italiani aria, -eria, -ficio, -aio ecc) mi palesò che le terminazioni offrono la possibilità di derivare da una sola molte altre parole, che altrimenti bisognerebbe imparare a memoria ad una ad una. Questa idea si impossessò della mia mente, e mi parve di aver messo il piede a riva, poichè su i terribili vocabolari brillò un raggio di luce, ed io li vidi rapidamente impicciolire.

Allora esclamai: «il problema è risolto»

E tosto mi posi a lavorare intorno all’idea dei suffissi, e compresi il grande valore di questo aiuto in una lingua artificiale, mentre nelle lingue naturali è solo parziale, irregolare, incompiuto ed incerto. Incominciai a paragonare tra loro le parole, a cercare le relazioni costanti e definite che intercedono fra le medesime, ed ogni giorno io allontanava dal dizionario una grande quantità di vocaboli sostituendo ad essi un suffisso indicante una pre[p. 7 modifica]cisa indipendenza. Mi accorsi anche che una moltitudine di voci radicali, come madre, stretto, coltello può facilmento essere mutata in vocaboli formati o formabili, rimanendo in tal guisa alleggerito il dizionario.

Ormai io ero padrone della struttura della lingua, e cominciavo a lavorare regolarmente con amore e speranza; poco dopo già avevo compiuto l’intera grammatica ed un piccolo dizionario.

A questo punto dirò qualche cosa sul materiale del vocabolario, per il quale volli seguire, come avevo fatto per la grammatica, il principio della stretta economia.

Persuaso che sarebbe stato lo stesso attribuire uno od altro suono, una od altra forma ad un vocabolo purchè io avessi stabilito che dovesse avere un determinato significato, foggiavo vocaboli che fossero brevi il più possibile e che non avessero lettere inutili, e così, per esempio, invece della parola di sette lettere saltare, ammisi che si poteva valersi del vocabolo sa, che ne ha due sole. Allora scrissi semplicemente la serie matematica delle più brevi combinazioni di lettere, a condizione che fossero di pronuncia facile, a ciascuna delle quali avrei poi assegnato un significato, cioè, per esempio, a, ab, ac, ad, — ba, ca, da, — e, eb, ce, — be, ce, de ecc. Ma abbandonai tosto questa idea, poichè, provando io stesso, mi accorsi che le parole inventate di sana pianta sono difficili ad apprendersi e peggio a tenersi a mente. Mi persuasi allora che il materiale del vocabolario doveva essere a base latina-germanica, mutando le voci solo di quel tanto che è richiesto dalla regolarità e dalle altre condizioni imposte dalla nova lingua. Rimanendo in questo terreno notai tosto [p. 8 modifica]che queste lingue possedono già un grande numero di vocaboli internazionali, conosciuti da ogni popolo, dei quali avrei fatto tesoro per la futura lingua, e, come si comprende, mi valsi larghissimamente di questo capitale.

Nel 1878 la lingua era giá più o meno pronta, quantunque tra quella che era chiamata lingue universale e l’odierno esperiento ci fosse ancora una grande differenza. Frequentavo allora l’ottava classe ginnasiale, e feci conoscere la mia invenzione ai miei condiscepoli, i più dei quali rimasero allettati da simile idea, e stupiti della straordinaria facilità dell’idioma artificiale, per cui cominciarono ad impararlo.

Il 5|17 decembre del 1878 noi tutti inaugurammo la nova lingua, si fece qualche discorso intorno ad essa, e si intonò un canto la cui prima strofa diceva: “La inimicizia fra le nazioni scompaia, già è tempo, tutti gli uomini devono formare una sola famiglia.„ Ho ancora alcune traduzioni in quella lingua, non però la grammatica e il vocabolario.

Così terminò il primo stadio della mia invenzione. Io era ancora tanto giovane da non poter pubblicare il lavoro, e perciò stabilii di aspettare cinque o sei anni per sperimentare accuratamente la lingua e per lavorar a renderla più compiuta e più pratica.

Un paio d’anni dopo la festa del 15|17 decembre, finii gli studii ginnasiali e lasciai i condiscepoli, i quali dovevano essere i divulgatori della nova favella. Infatti provarono a far parola in favore della nova lingua, ma, avendo destato il riso delle persone attempate, ben tosto rinunciarono all’impresa, ed io rimasi affatto solo.

Prevedendo scherno ed opposizione, mi deter[p. 9 modifica]minai a tener celata l’opera mia, e durante i cinque anni e mezzo che rimasi all’università non ne feci parola con alcuno.

Questo tempo fu per me assai malagevole; l’obbligo di dover tener celato il frutto delle mie fatiche mi tormentava, e, dovendo continuamente nascondere altrui i miei pensieri ed i miei disegni, non andavo quasi più da alcuno, rimanevo indifferente a tutto, e il più bel tempo della vita, gli anni dello studente passarono per me tristi. Provai qualche volta a distrarmi frequentando le conversazioni e gli amici; ma mi sentii colà come estraneo, e continuai la mia vita ritirata. Trovavo sollievo soltanto componendo versi di quando in quando nella nova lingua. Una di queste composizioni Mia penso è pubblicata nel primo lavoro sull’esperanto. Al lettore che non sa in quali condizioni d’animo sono stati scritti quei versi sembreranno stravaganti ed incomprensibili.

Durante sei anni, lavorai a perfezionare ed a provare la lingua, ed ebbi un bel da fare, quantunque fino dal 1878 mi sembrasse del tutto ultimata.

Io andava traducendo molto da varie lingue in esperanto e componendo anche nella stessa lingua lavori originali.

Un diuturno esperimento mi mostrò che quanto mi sembrava teoricamente compiuto, praticamente invece non era; molte cose dovetti togliere, mutare, correggere od anche trasformare di sana pianta. Parole e forme, principii e derivazioni vagliai e provai così ad uno ad uno e separatamente come nel tutto insieme.

Alcune forme, che mi sembravano essere ricchezza, mi si mostrarono poi praticamente inutile zavorra, e così allontanai, per esempio, al[p. 10 modifica]cuni suffissi superflui. Nel 1878 mi era sembrato bastante per formare una lingua aver il vocabolario e la grammatica ed allora ascrivevo la pesantezza e la rigidezza di essa solo al fatto che io ancora non me ne era impadronito sufficientemente, ma la pratica mi persuase ognora più che essa abbisognava anche di un certo non so che, della unione degli elementi che dà ad ogni lingua viva definita e compiutamente formata la sua impronta peculiare. Incominciai allora ad evitar le traduzioni alla lettera da uno o da altro idioma, e mi studiai di pensare nella lingua neutra. Più tardi mi accorsi che essa in mia mano cessava di essere l’ombra di un’altra lingua qualsiasi, alla quale in quel momento pensassi, o intorno alla quale mi fossi occupato, ma che assumeva la sua propria determinata fisonomia indipendentemente da qual si sia altra influenza. La parola stessa fluiva agile, graziosa, affatto spigliata come in una lingua viva.

Un’altra circostanza fece ritardare la sua pubblicazione, poichè rimase per molto tempo ancora non risolto un problema che aveva un grande valore per la proposta di un idioma ausiliare o neutrale. Io sapeva che ognuno mi avrebbe detto. “La vostra lingua sarebbe utile per me allorchè fosse accettata da tutti, ma io non posso accoglierla finchè non si sarà diffusa in tutto il mondo„ E, poichè non è possibile che il mondo l’accetti fino a tanto che non sia accolta dai singoli individui che lo costituiscono, ne derivava che il mio disegno non sarebbe mai potuto uscire da questo cerchio di ferro e passare nel campo pratico. Intorno a questo problema mi arrabattai a lungo finchè i così detti cifrarii segreti, che non è necessario siano [p. 11 modifica]conosciuti o ricevuti in antecedenza dal destinatario di una lettera, ma che gli permettono di interpetrarne il contenuto quando essi siano mandati collo scritto altrimenti indecifrabile, mi fece venire in capo l’idea di disporre anche la mia lingua alla maniera di uno di questi cifrarii, cioè chiavi comprendenti in ordine alfabetico non solo tutto il vocabolario ma anche tutta la grammatica. In questo modo era data al destinario di qual si sia nazionalità la chiave per interpetrare lo scritto in esperanto2

Finii l’università, e cominciai la mia pratica medica; allora presi a pensare alla pubblicazione del mio lavoro. Ultimato il manoscritto del mio primo opuscolo (Doktoro Esperanto, Lingvo Internacia, antauparolo kaj plena lernolibro) pensai a cercare un editore. E qui, per la prima volta, sperimentai le amarezze della vita pratica e delle necessità economiche contro le quali anche più tardi dovetti fortemente lottare.

Quando giunsi a trovare un editore, gli diedi il manoscritto per la stampa, ma egli lo tenne in serbo un paio d’anni, e poi ricusò di pubblicarlo. Finalmente, dopo un lungo attendere, potei io stesso dare in luce il mio primo libretto nel luglio 1887. Mi sentivo molto esitante prima di far ciò perchè comprendevo che ero giunto al Rubicone, e che, pubblicato il mio opu[p. 12 modifica]scolo, non avrei più potuto ritirarlo. Sapevo qual sorte attende il medico al servizio del pubblico allorchè questo pubblico vede che egli va fantasticando ed attendendo ad occupazioni estranee alla sua professione; sentivo che stavo per affidare alla carta la futura tranquillità e la esistenza stessa della mia famiglia, ma non potei abbandonare l’idea che si era impossessata di me, e passai il Rubicone.

Note

  1. Questo articolo è estratto da una lettera privata del dott. L. Zamenhof al Signor N. Borovko, inserita nelle Esperantaj Prozajoj (Parigi 1902, Hachette). Nella sua quasi infantile semplicità mi pare, costituisca un vero documento umano, e formi un capitolo, forse tra i più geniali ed i più sinceri, della storia della lotta che l’uomo d’ingegno deve sostenere per far accettare le sue idee. Per buona sorte lo Zamenhof ha potuto essere testimone del trionfo della sua proposta in ben cinque congressi universali, tenutisi il
    1º a Boulogne-sur-mer (agosto 1906), il
    2º a Ginevra (agosto - settembre 1906), il
    3º a Cambridge (10 - 17 - agosto 1907) il
    4º Dresda (16 - 22 - agosto 1908) il
    5º Barcellona (settembre 1909).

    Prof. G. Meazzini.

  2. Queste chiavi consistono in un libretto in 32º, di ventiquattro pagine, del peso di cinque grammi e del costo di cinque centesimi. Sono già pronte per gli inglesi, i tedeschi, i francesi, gli italiani, gli svedesi, i russi, i portoghesi, i boemi, i danesi, gli ungari, gli spagnuoli, ecc.
    Di simili chiavi ne esiste una speciale per i militari che si intitola «Guida Esperanto della Croce-Rossa» tradotta in francese, in tedesco, in spagnolo, in italiano.

    Prof. G. Meazzini.