Orlandino (Folengo)/Capitolo quarto

Da Wikisource.
Capitolo quarto

../Capitolo terzo ../Capitolo quinto IncludiIntestazione 9 settembre 2022 100% Da definire

Capitolo terzo Capitolo quinto

[p. 65 modifica]

CAPITOLO QUARTO


1
Quel stridulo cantar ch’una cicada
move quando su ’l palo il cul dimena,
fa l’arpa mia, ch’assai poco m’aggrada,
mentre m’aggraffio ’l sangue d’ogni vena;
e pur convien tornarmi su la strada
e farvi udir un’altra mia sirena;
ché un carro sona, il qual mal onto e tardo
si duole che ’l patron gli mangia il lardo.
2
Ma se talor cantando ella scapuzza,
candido mio lettor, qual tu ti sei,
perché dolerti? anche a’ signori muzza
qualche correggia in mezzo a quattro o sei.
S’io mangio male, il fiato poi mi puzza.
— Mangiate quae apponuntur, fratres mei, —
chiama ’l Vangelo; benché tal precetto
servato vien da molti al suo dispetto.
3
Stette Milone solo nel steccato
come talvolta sòl far il leone,
che, fra lo stolo d’altre bestie entrato,
o fa o finge far del compagnone;
ma quelle in fuga vòlte gli dan lato,
di qua di lá cercando alcun macchione;
ed egli solo resta in un istante,
quelle mirando a sé scampar davante.

[p. 66 modifica]

4
Né piffaro né tromba né cornetto
tacquer a la vittoria del barone;
grida ciascuno, e grande e pargoletto,
intorno a lui: — Milon, viva Milone! —
Ed ecco di luntan con molto affetto
contra gli vien l’imperator Carlone,
lo quale col gran stolo contra válli,
e l’acquistato dono e premio dalli.
5
Balzato era di sella il cavalliero,
vista la nobil schiera ch’a lui vene,
sciolvesi l’elmo e gittalo al sentiero,
e prono in terra l’alta gloria ottiene.
Cosí la santa umilitá di Piero
mertò il papato dopo le catene
e ’l ciel dopo la croce; onde mi vanto
ch’io ’l chiamo in veritade «Padre santo».
6
Passato avea giá Febo l’orizzonte,
portandone da l’altra parte il giorno;
lo siniscalco entrato era ne l'onte
e fumide coquine, ove d’intorno
sguattari, cuoghi e feminelle pronte
fanno de vari cibi il luogo adorno,
ed ove cani, gatte, crudo e cotto
sonano un campo d’arme quand’è rotto.
7
Chi cuoce latesini, e chi figáti,
chi volge in speto quaglie, oche, fasani;
qui son capponi a lardo impergotati,
qui taglian polpe e dan l’osse a li cani;
qual macina sapori delicati,
qual fa pastelli ed altri cibi strani;
ch’il foco innanti, e chi drieto lo tira;
l’odor del fumo fino al ciel s’aggira.

[p. 67 modifica]

8
Fra questo tanto cento paggi belli,
de’ quali è capo il provvido Ruggiero,
ornati di costumi pronti e snelli,
scorren di qua di lá col piè liggero,
portando banche, scanne, urne e vaselli,
razi, tappeti, e ciò che fa mistero:
taccio l'argens e d’oro la credenza,
e ciò ch’ogni alto roy non può star senza.
9
Berta che ’l grande onor e pompa vide
fatta per Carlo al suo diletto amante,
piena d’amar dolcezza, e piange e ride,
or lieta or triste, or molle or d’adamante;
ragion piú nulla può, ché Amor s’asside
vittorioso in lei, saldo e costante;
però delibra, vuole e ferma il chiodo
parlare con Milon ad ogni modo.
10
De tutti gli animali non è ’l piú
impaziente d’una amante donna,
che ogni rispetto lascia e manda giú
di Lete al fiume, ove drento l’assonna.
Poscia ’l desio le sale tanto in su,
ch’in capo non si vede aver la gonna;
e tanto il folle suo pensier la punge,
ch’al fin si trova da se stessa lunge.
11
Chiama Frosina e tosto le comanda
ch’a sé faccia venir il bel Ruggiero:
Frosina l’ubbedisce e d’ogni banda
cerca e ricerca il nobile scudiero;
ma nulla fa, ché ’l siniscalco il manda
co’ li altri paggi (e ognun ha ’l suo doppiero)
di ciambra in ciambra, e dan l’acque a le mani
a re, duchi, marchesi e castellani.

[p. 68 modifica]

12
Berta che rotto vede ’l suo disegno,
la cosa in altro tempo differisce,
si cruccia fra se stessa e n’ ha gran sdegno,
ché Amor piú che mai caldo l’assalisce;
onde, fatta per lui pronta d’ingegno,
trenta belle dongielle a lei s’unisce,
ch’entrar delibra in sala con tal pompa:
che se Milon ha cuor di pietra, il rompa.
13
Giá mille torze da gli aurati travi
pendono accese e fan di notte giorno.
Carlo fra cento capi onesti e gravi
entra ne l’apparato tanto adorno.
Quivi usurari, preti, frati o schiavi
non ponno far un minimo soggiorno:
tutti scacciati sono a la malora,
ché ’n tal luoghi non denno far dimora.
14
Ma Febo e Cinzia e tutte l’altre stelle
ecco, da lunge, in l’ampia sala entraro:
Berta e Beatrice son de le piú belle,
che ’l fiato a milli amanti allor cavaro.
Carlo venendo incontro, accenna quelle,
al cui comando tutte s’assettaro,
ed esso in cima del convito sede,
ove li discumbenti al lungo vede.
15
Stanno le donne a petto de’ baroni
e sonan gli organetti co’ pedali.
Cinto s’avea Cupido a li galloni
duo gran turcassi colmi di piú strali.
Volan i paggi, e cento bandigioni
de cervi, lepri, vituli, cingiali
portan di su di giú per lunghe scale,
come convien d’un rege al carnevale.

[p. 69 modifica]

16
Sedea Milon rimpetto a la sua Berta:
pensa qual fogo tra quelli occhi nacque!
Egli di lei, ed ella di lui piú certa
si fa, quant’in amarsi ad ambi piacque;
quivi con cenni occulti fann’offerta
de’ cuori loro, e questo a quel compiacque;
Rampallo se n’avvede, e piú Frosina,
Rampallo a lui, Frosina a lei vicina.
17
Cosí l’uno per l’altro si distrugge
nei cauti sguardi e ’n quel sembiante opposto.
Sponga di sangue che lor vene sugge
son gli occhi loro, il cui lume discosto
giammai non va dal suo voler, né fugge,
ma piú sempre al desio si fa disposto;
e tanto lor instiga ed urta Amore,
ch’ivi non s’ama, anzi pur s’arde e more.
18
O insidioso aspetto muliebre,
quando che piaccia a gli occhi di chi ’l mira!
Ma quanto piú bel parti in le tenébre,
ove ’l splendor de li doppier l’aspira!
Vedi le labbra, il collo, le palpebre
d’Elena, di Faustina o Deianira;
e chi contempla quelle, giá non crede
puoter de tal beltade farsi erede.
19
E se risponde mai cotal bellezza
che un core l’altro aggrada, e gli occhi, gli occhi
(o pensier dolce piú de la dolcezza!),
qual ferm’è stato ch’ivi non trabocchi?
Non è sí grata e sí suave frezza,
che dolcemente in loro Amor non scocchi;
ma non si parton mai questo da quello,
ché non fu mai del suo maggior flagello.

[p. 70 modifica]

20
Era la fame giá smarrita e persa,
le mense e le vivande son rimosse;
una sonora musica e diversa
di tre laugutti e due viole grosse
trasse al concento ogni anima dispersa,
ché ognun si sente liquefarsi l'osse.
Qui voci umane giunte a quelle corde
mostrâr che ’l ciel di lor men è concorde.
21
E pur trovo ch’alcuni vecchi padri
biasmâr di concordanze cotal pratica;
non so, lettor, se chiaramente squadri
esser stata la mente sua lunatica.
Ben so che gargionetti assai leggiadri
fûr grati piú ne la scola socratica
di tante note, che appellaron «buse»,
quasi se ’l buco a loro non s’incuse.
22
Dicean che molle vago effeminato
l’animo rende questa melodia;
come se ’l pescar merda (i’ son sboccato!)
non via piú molle effeminato sia.
Vedi tu quell’ipocrita velato
di santimonia, come va per via?
Non t’accostar, figliuolo, perché porta
nel corno il feno ed ha sotto la storta.
23
Chi danna il canto (vòi che chiaro il dica?),
qualunque biasma il canto ha del coione.
Se grata e grave ed utile fatica
fu quella di Virgilio e Cicerone,
giá non fia manco, mentre s’affatica
per noi Iosquin comporre, e Gian Motone:
itene dunque, sporchi, al vostro ufficio,
ch’è di sterco purgar l’altrui ospicio.

[p. 71 modifica]

24
Poscia ch’ebber sonato la stanghetta,
la mora, il tonos biens del tempo vecchio,
Carlo pose la regal bacchetta,
acciò che a’ rispettosi fusse specchio:
il bel giuppone cavasi con fretta,
dicendo: — Orsú, signori, i’ m’apparecchio
voler danzar; cosí mi segua ognuno;
poi voglio che ’l suo ballo aggia ciascuno. —
25
E ciò parlando, viene a la regina,
che gravemente alzò prima le ciglia,
poi si rileva ed umile s’inchina
a l’alto imperator che a man la piglia.
Li altri, che stanno intenti a la rapina,
seguendo lui, ciascuno s’assottiglia
prender il meglio o quel che meglio pare;
e cosí allor cominciasi a danzare.
26
Cominciasi a danzare a son de’ pifferi
con un cornetto fra lor aggradevole,
al cui sono que’ volti, anzi luciferi,
quel cospetto di donne losinghevole,
que’ drappi d’oro larghi ed odoriferi,
que’ passi, quell’incesso convenevole,
gli occhi de’ spettatori si teneano,
ch’inanimate statue vi pareano.
27
Quivi ben convenia quel sí nomato
cornetto padoano, Zan Maria:
non fu, non è, non mai sará lodato
meglior di lui, anzi ch’egual gli sia;
lo qual, come si dice, si ha mangiato
le lingue d’ogni augello e l’armonia.
Silvestro vagli appresso e un suo germano
e quel Trombon venuto di Bassano.

[p. 72 modifica]

28
Ma per sonar «gagliarde» e «lodesane»,
pifferi mantovani aggian il vanto!
Tu senti quelle lingue piú che umane
in mille millia rimandar un canto:
tu vedi poscia for di quelle tane
su ’l Po saltar villane d’ogni canto;
ché per balzar in alto e rotolarsi,
ogni altra stirpe a lor non può eguagliarsi.
29
Mentre qui dunque suonano a misura,
Rampallo invita Berta e dálle mano.
Parve a Milone strana cosa e dura,
e chiamalo fra sé crudo, inumano;
ma Venere, per lui ch’anco procura,
gli pose in cor un atto assai soprano:
di Berta prese a man la camarera,
dico Frosina, e va co’ li altri in schiera.
30
Or nel serrar de mani si comprende,
danzando, s’in amor sperar si deve:
qui de la donna il cuore l’uomo intende,
la qual è di natura dolce e leve.
Se stretta stringer debbia, dubbia pende;
al fin lunga repulsa le par greve,
temendo che l’amante non si sdegni
e piú non segua gli amorosi segni.
31
Qui gli occhi ambasciatori al tener cuore
dichiarano lor grazie e lor bellezze;
qui cresce piú l’audacia e piú l’ardore,
quanto piú mancan l’ira e le durezze.
Amor insegna qui di qual valore,
di qual effetto sono le sue frezze,
pel cui vigore ogni Cimon Galese
di rustico divien dolce e cortese.

[p. 73 modifica]

32
Speranza è la nutrice de’ pensieri,
tanto ch’i guardi e i deti gara fanno.
Sotto ’l fallace lume de’ doppieri,
doppie bellezze in viso le donne hanno.
Però piú tira Amor di cento arcieri;
qual empie d’allegrezza e qual d’affanno,
e molte un cotal foco hann’ a la coda,
che ’l fiato li esce for, non che la broda.
33
O misere donzelle, o stolte madri,
ch’avete sí le danze a gran diletto,
s’amor d’onore è in voi, questi leggiadri
giochi di cortigian siavi a dispetto!
Un bel rubar ci fa sovente ladri,
ché, ove è la causa, seguevi l’effetto;
e questo in ballo avvien, ché ruffiana
si fa la madre e la figlia puttana.
34
Frosina avea pietá di sua madonna;
or esser tempo d’aiutarla vede;
tira Milone a drieto una colonna,
mentre che ’l gioco libero procede.
Venite mecum — disse — e non v’assonna
viltá di cuor, ché voglio farvi erede
del piú ricco tesoro ch’aggia ’l mondo,
ché l’occhio di fortuna vi è secondo. —
35
Egli non sa, ma ben fa coniettura
sopra l’amor di Berta, onde la segue.
Un trepidante affetto, una sciagura
lo batte sí, ch’ei pare si dilegue;
volgesi drieto spesso, ed ha paura
ch’alcun osservatore nol persegue.
Al fin, giunti a la camera di Berta,
Frosina drento il caccia, pronta, esperta.

[p. 74 modifica]

36
Benché a Milone un atto temerario
gli paia star di Berta nel cubicolo,
nulla di meno vede necessario
esser a chi ama sponersi a pericolo.
Frosina innante il fa suo secretario,
e senza troppo lungo diverticolo
gli aperse largamente il grande ardore
di sua madonna, e come per lui more;
37
e che continuamente s’ange e lania
per lo crudel arciero che la stimula;
e ch’a le volte vienle tal insania,
che a gran fatica in volto la dissimula;
insognasi di notte, langue e smania,
chiamando lui signor e dolce animula;
onde, per removérle un tanto assedio,
convien che d’esso lui vegna ’l rimedio.
38
Qui ciò ch’ebbe Milone a lei rispondere,
lasciamlo star, ch’ognuno il può comprendere;
non molto fiato fa mestier effondere
a chi col solfo l’esca vol incendere.
Torno a Rampallo, che non puote ascondere
a Berta il tutto, anzi le fece intendere,
cosí danzando e ragionando insieme,
le fiamme di Milon per lei sí estreme.
39
Berta ch’a l’esca prende foco e vento,
quivi a Rampallo giá non vol celarlo:
narragli accortamente il suo tormento,
e che per pruova mai non vuol scacciarlo.
Ma non finitte il loro parlamento,
che la sua danza termina re Carlo,
e vol che la seguente abbia Milone,
e poi di grado in grado ogni barone.

[p. 75 modifica]

40
— Milon? ov’è Milon? — ciascun dimanda;
ma nulla fan, ch’altrove sta rinchiuso.
Ch’egli si trovi, Carlo allor comanda,
al cui precetto van chi su chi giuso.
Rampallo astuto e sospettoso manda
(poi ch’ebbe posto giú, siccome è l’uso,
Berta) Ruggier il figlio a ritrovarlo
e dirli che con fretta il chiama Carlo.
41
Lo accortignolo e pratico dongiello
danzar lo vide dianzi con Frosina:
ratto fece un pensier il giottarello,
che gito fusse a goder la rapina;
onde correndo va dritto a pennello
dov’erano a la ciambra, e qui s’inchina
per ascoltar a l’uscio, ma non ode
del basso lor parlar se non le code.
42
Urta la porta ben due fiate o tre;
ode Frosina e pallida si sta:
torna Ruggiero e scotela col pè:
Milon temendo sotto il letto va.
Bussa il fanciullo, e chiamavi: — Chi c’è? —
Frosina disse allor: — Chi batte lá? —
— Io son Ruggiero; è qui il signor Milone?
— Perché? — Lo chiama il re Carlone.
43
Di su di giú lo cerco in ogni loco,
né in ciel né in terra possio ritrovarlo:
a la regai famiglia sin al cuoco
imposto fu che debbiati dimandarlo.
Di che, se indizio n’hai, dimmel un poco,
ché instantemente chiedelo re Carlo.
Io che danzar con teco in sala il vidi,
mi penso, te saper ov’el s’annidi. —

[p. 76 modifica]

44
Non men Frosina pronta che sagace,
risponde: — Va’, donzello, e dilli presto
come Milone nel suo letto giace,
che per la giostra d’oggi è franto e pesto.
Allor Ruggier non fe’ del contumace,
ritorna in sala e con volpino gesto
parla ch’ognun intende, aver trovato
Milon stracco nel letto suo corcato.
45
Tal scusa accetta Carlo e chi chi sordo
non è a saper il marzial costume,
perché le bastonate del bagordo
caccian sovente a l’oziose piume.
Dunque la festa seguesi d’accordo,
la qual non finirá che ’l bianco lume
del giorno trovaralli anco a saltare,
come ben spesso in corte suolsi fare.
46
Frosina timidetta, che non save
come la sorte di Milon succede,
chiudelo in ciambra e seco tien la chiave,
poi su la danza occultamente riede:
Berta che quinci spera e quindi pave,
quando tornar a sé Frosina vede,
fatta zelosa, disse in voce piana:
— C’hai fatto con Milon, brutta puttana?
47
Risponde a lei Frosina sorridendo:
— So ben che zelosia vi fa ciò dire:
non, come imaginate, condiscendo
sí largamente al dolce proferire!
Mai non provai, ma ben provar intendo,
farsi dal nostro medico guarire;
però, se star con lui mi cale e giova
a che portarne invidia di tal prova?

[p. 77 modifica]

48
Non dubitate, o credula patrona,
del vostro mal non è lunge ’l rimedio.
Pur tutto questo ch’ora si ragiona
potria col tempo farci qualche tedio;
ché forse alcuna incognita persona
ci tenderia ne l’ascoltar assedio.
Meglio sará ch’andiamo a riposare,
ché l’alba giá comincia a roscigiare.
49
— Ove parli ch’andiamo? — disse Berta:
quella rispose: — A letto, ch’el n’è l’ora;
mi fa mistier il vostro ben avverta,
ché ’l vegliar troppo il viso vi scolora. —
Disse la dama: — Questa è cosa certa:
vengan le torze! — e quindi senza mora,
facendo al re Carlone e agli altri inchino,
verso la stanza prendon lor cammino.
50
Rampallo giá non puotte piú indugiare;
si mise ragionando a compagnarla.
Fu sempre in Franza l’uso di parlare
ciascun con qualche dames e basciarla:
né qui malizia né sospetto appare,
pur che non voglia ad altro provocarla;
onde tal atto molto par di strano
in queste nostre parti al taliano.
51
Lo qual, vedendo in casa sua volere
basciar alcun francese la sua moglie:
— Che fai — tosto gli parla — o bel missere?
Perché farti signor de l’altrui spoglie? —
Cosí dicendo, col pugnal il fere,
togliendogli non pur l’accese voglie,
anzi la vita istessa; perché mecco
lo talian vol esser, e non becco.

[p. 78 modifica]

52
Or dunque vedi se di Cipria il figlio
conduce ben la trama e non s’ intoppa:
quantunque porti un drappo avvolto al ciglio,
pur l’arte e la malizia non gli è stoppa;
l’arte ch’in navigar ogni periglio
sprezza de l’onde, quando Amor è in poppa.
Milon, Rampallo e Berta nulla sanno,
ed ecco insieme al fin si trovaranno,
53
non perché fusse in lor patto veruno;
Cupido sol è il mastro, sol il guida.
Frosina tiensi certa ch’in niuno
tal secretezza, for ch’in lei, s’annida.
Credesi anco Rampallo esser quell’uno,
in cui sol Berta e sol Milon si fida.
Vorria Frosina che Rampallo andasse;
egli, che Berta lei licenziasse.
54
Or giunti a l’uscio, per entrarvi drento
apre Frosina, onde tremò Milone.
Berta diede congedo a piú di cento
fra paggi, fra dongielle, fra matrone;
ma per sfogar in parte il suo tormento,
guida con seco in camera il barone.
Frosina chiude l’uscio, e quivi Berta
fra l’uno e l’altra sede a lingua aperta.
55
A lingua aperta e faccia vereconda,
un petto di sospiri e pianti sciolse.
Rampal stupisce ch’ella non s’asconda,
perché Frosina in terzo luogo volse.
Milon ascolta il tutto sotto sponda
e sue dolci parole ben raccolse.
Or qui Frosina ed or Rampallo parla,
cercando con speranza consolarla.

[p. 79 modifica]

56
Milon comprende l’amistá sí rara
del suo Rampallo e l’animo di Berta,
la qual dicea ch’avrebbe morte amara,
se non le fia concesso far offerta,
dovendo maritarsi, di sua cara
virginitade a quello che la merta;
e se colui che giá le ha tolto il cuore,
anco non tolga il resto, il frutto e ’l fiore.
57
Né al sono di tal voce né a l’invito
di tal dolcezza puote star Milone,
che ratto di lá sotto, bello, ardito
non apparisse in un d’oro giuppone.
— Eccomi — disse: allora scolorito
stette Rampallo in gran confusione.
Berta sol fece un grido, e poi si tenne,
compreso in parte il bene che a lei venne.
58
— O sola — Milon disse — o sola quella,
c’hai posto il freno a un cuore sí superbo!
Cosí volse non so che buona stella,
che, essendo al sesso vostro iniquo acerbo
e d’una mente a me stesso rubella,
or sol per tuo vigor mi disacerbo,
e tanto in me la tua sembianza valse,
ch’in ghiaccio m’arse il core e in foco m’alse. —
59
Poscia a Rampallo vòlto ed a Frosina,
mille grazie lor rende e poi li abbraccia:
Berta, che a morte quasi s’avvicina,
mira lui fisso e par che si disfaccia
qual cera al foco e qual al sole brina:
non puote star, ma, sparse ambe le braccia
(perché in amor non cape alcun rispetto),
cinsegli ’l collo e strinsesil al petto.

[p. 80 modifica]

60
— Or mai — disse, — ben mio, dispona il cielo
di me come gli giova, e la fortuna:
sue stelle, influssi, punti, caldo e gelo
non temo piú, quando questa sol una
grazia ch’or tengo in l’amoroso velo
non mai tolta mi sia, perché niuna
altra non chero eccetto che vederti
ed a mia vita e morte sempre averti.
61
Perché giá non potrebbe piú addolcirme
la morte in altro tempo, che s’io moro
in queste voglie mie stabili e firme.
Morir per te, mio spirto, mio tesoro!
Qual esca dolce può meglio nudrirme
di questo pianto e sí grato martoro?
Io mi consumo, e ciò mi piace e giova,
pur che ’l mio ben da me non si rimova.
62
Itene, prochi; omai mi sète a noia:
destina il ciel ch’io sia d’un tanto eroo.
Tal nasca d’ambi noi, ch’unqua non moia
sua fama da l’occaso al sen Eoo;
tal fía quel figlio, qual mantenne Troia
mentre che visse o qual vinse Acheloo;
nasca di noi tal Cesare, tal Marte,
che de’ suoi fatti s’empiano le carte! —
63
Milon ai dolci accenti per rispondere
de la sua diva giá movea la bocca,
quando a la porta venne a lor confondere
non so qual voce, e chi repente chiocca.
Milon temendo tornasi nascondere,
Rampallo, che lo vede in fida ròcca,
apre la porta; ed è chi ’l chiama presto,
ché a sorte gli toccava il ballo sesto.

[p. 81 modifica]

64
Partesi dunque tosto il cavalliero
per non fallir di Carlo a l’ordinanza.
Frosina vagli dianzi, e col doppiero
la semplicetta, fin ove si danza,
accompagnolla insieme col scudero.
Rampallo se ne ride, ché ’n la stanza
di Berta era Milon restato solo;
pensate se star puote il rosignolo!
65
Or ivi dunque Amor in un steccato
ha ricondotto quelli gladiatori;
ma innanti ch’ai duello insanguinato
si vegna da quei duo feroci tori,
assai vi fu che dire; al fin cascato
l’un sopra l’altro, ivi convien che mori;
e quelle bòtte fûr di tal possanza,
che Berta ne portò piena la panza.
66
O ciel benigno, assai qui ti conviene
esser gagliardo in fabbricar Orlando,
il qual non sol si cria de’ lombi e rene,
ma l’alto genitore vuol che, quando
scorre ’l vivace sangue da le vene,
forma nel vaso matrical pigliando,
ogni tua stella di benigna tempre
s’inchini a lui, che in gloria duri sempre;
67
forza, bontá, prudenzia e cortesia
scendano in lui su da l’eterne idee,
che, discacciando l’orco e l’arte ria
de strige e fate e innumere Medee,
formino il corpo ed aprino la via
ove quell’alma in mezzo a le tre dèe
infonda, per ristor di tutto ’l mondo,
alto intelletto e immaginar profondo.

[p. 82 modifica]

68
Santificato dunque, e non fatato,
fu Orlando ne le viscere materne,
ché esser non puote da ferro impiagato,
come ordinoro in lui le menti eterne;
quantunque i’ poscia dal celeste fato
fatato nominarlo, ché l’inferne
fate non l’affatâr, ché d’affatare
forza non han, ma sol di affatturare.
69
Tu mi dirai, lettor, ch’io son lombardo
e piú sboccato assai d’un bergamasco;
grosso nel proferir, nel scriver tardo,
però dal tosco facilmente i’ casco.
Io ti rispondo che se l’antiguardo
e retroguardo mio, che è ’l sacco e fiasco,
non fusse la fortezza di Durazzo,
forse sarei Petrarca e Gian Boccazzo.
70
Io qui non cerco fama, e men la fame;
quella mi fugge, e questa mi vien dietro,
anzi m’entra nel ventre e fa letame
duro cosí, ch’io canto un strano metro;
e se mai vien che presto alcun mi chiame,
quando quel sasso for del buco i’ spetro,
mi levo amaramente con la coda
smaltita in quattro giorni ferma e soda.
71
Non cerco fama no, ch’io n’ho pur troppo,
e tal mi crede questo, ch’io son quello.
Guardatevi dal sguerzo, gobbo e zoppo,
signori mei, che l’è di Dio rubello.
Benché ’l zoppo non corre, va galoppo,
in fin ch’intenda il nome mio novello;
ben maladico lui, che se ’l mi scopre,
da voi, signori mei, non mi ricopre.

[p. 83 modifica]

72
E se pur noto fia perché scontento
viver mi deggia, causa non ritrovo;
anzi di superstizia il guarnimento
ho riprovato e tuttavia riprovo.
E chi m’addimandasse s’io mi pento
cangiar il basto vecchio per il novo,
io ratto gli rispondo: — Domine, ita,
mi doglio esser mai stato a cotal vita. —
73
La causa dir non voglio, anzi m’incresce
che tutti omai siam figli di puttana;
e benché mi vien detto che qual pesce
io son for d’acqua e talpa for di tana,
questo parlar non oggidí riesce,
ma meglio assai, quod scriptum est de rana,
la qual vivere non sa for del pantano,
come senza robar né anche ’l villano.