Orlandino (Folengo)/Capitolo settimo

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Capitolo settimo

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CAPITOLO SETTIMO


1
La donna che dal ciel trasse l’origine
mi riconduce al passo convenevole
a qualunque si sferra di caligine
per acquistarsi un stile piú lodevole;
ma l’abito maligno e la rubigine
d’un incesso balordo e strabucchevole,
difficili mi rende, anzi contrarie,
le vie che mai non seppe la barbarie.
2
Ed oggi pur a nostro vituperio
passate son di lá le buone lettere,
mercé ch’abbiam commesso un adulterio
tal, che smarrite sono l'arti vetere.
Veggio fatto volgar fino al salterio,
cantandol su pei banchi ne le cetere;
né passo per taverna o per bottega
che Plinio od altro simil non si lega.
3
La fresca aurora piú che mai leggiadra
da l’orizzonte omai scotea le piume;
surge ’l pastore a beverar la squadra
di sue care caprette al chiaro fiume;
poi leva gli occhi al cielo e ben lo squadra,
che schietto nascerá di Febo il lume;
di che, tolto ’l bastone, s’assicura
e for guida l’armento a la pastura.

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4
Berta sola rimane a la capanna
ed anco dorme di stracchezza piena;
pur l’alma entro ’l pensier tanto s’affanna,
che non s’acqueta la sospesa lena;
onde nel moto d’una picciol canna
ratto si sveglia e sente al cor gran pena
ché ’l suo Milone a lato non ritrova;
e qui di pianto un fiume si rinnova.
5
Stavasi dunque tutta penserosa,
la guanza riposando su la destra:
Febo, che vòl, possendo, d’ogni cosa
rendersi certo, venne a la finestra;
quando la dongelletta paventosa
del parto, su quel strato di ginestra,
sentir comincia pene di tal sorte,
che di men doglia crede esser la morte.
6
Stride con alta voce, rugge e freme,
torcendosi su l’uno e l’altro fianco:
verun non è che in quelle doglie estreme
poscia parlando confortarla almanco:
chiama Frosina ed altre donne insieme,
chiama Milone, ed il chiamar vien manco,
e solamente in quelle stalle immonde
un parete di sassi le risponde.
7
Ragion è ben che, d’un tal ventre uscendo
il fior del mondo e l’unica possanza,
difficil parto sia, duro ed orrendo
e faticoso assai piú de l’usanza:
ché se le gran prodezze sue comprendo,
quale fu mai (né mai sará) nomanza
di forza immensa, d’animo prestante,
simile a quella del signor d’Anglante?

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8
Qui nacque Orlando, l’inclito barone;
qui nacque Orlando, senator romano:
qui nacque Orlando, forte campione;
qui nacque Orlando, grande capitano;
qui nacque Orlando, padre di ragione;
qui nacque Orlando, piú d’ogni altro umano;
qui nacque il gran spavento e la ruina
de’ maganzesi e gente saracina.
9
Guárdati, Almonte; guárdati, Agolante;
guárdati, Agricane e re Gradasso;
guardatevi Lusbecco e Durastante,
Troian, Ancroia, e tu crudel Gurasso;
guardisi piú de gli altri ogni gigante,
ché or nasce in sua ruina il gran fracasso:
qual durezza di monte o fin azzale
potrá star saldo al suo ferir mortale?
10
Nasce dunque l’infante in quella grotta,
senz’ullo testimonio de commadre.
Ma cosa di stupor apparve allotta:
poscia che spinto for l’ebbe sua madre,
ecco de lupi arrivavi una frotta,
di quelle selve uscendo folte ed adre,
ch’andavano d’intorno forte urlando,
onde per nome poi fu detto Orlando.
11
Senti la terra un tanto nascimento,
sentillo il mare, i fiumi, rivi e fonti;
sentillo il ciel di sopra, fora e drento;
sentillo poggi, piani, valli e monti,
grandine, piogge, nevi ed ogni vento,
cittá, castella, porti, ville e ponti;
sentillo pesci, armenti, fiere, augelli,
e intorno a lui par sol che ’l sol s’abbelli.

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12
Dricciasi Berta con gran stento in piede:
pensate a qual pietá movea li sassi!
leva ’l figliuol, d’inopia sol erede,
e portalo ad un fiume a lenti passi;
lavalo stesa, e su la ripa sede,
sciugalo prima e da poi il fascia e stassi
a contemplarlo sempre lagrimando,
e giá ’l dolor del parto ha posto in bando.
13
Bascialo spesso, e non può saziarsi
succiar la fronte, gli occhi, bocca e mento,
sentesi di dolcezza liquefarsi;
onde le par men aspro ogni tormento.
Poi riede a la capanna per corcarsi,
ché ’n starsen dritta non ha valimento,
in fin che ’l vecchio pegoraro torni,
ch’omai temp’è che ’l caldo lo ritorni.
14
Eccolo giunto co’ la greggia innante,
sovente drieto a quella sibilando.
Va ne la tana con uman sembiante
e vagir sente il pargoletto Orlando.
La donna con vergogna in un istante
levatasi sul braccio, il come, il quando
nacque ’l fanciullo mentre a lui racconta,
per debolezza quasi vi tramonta.
15
Lo provvido vecchietto non risponde,
ma col piè tosto e con la fronte allegra
le man corre a lavarsi a le fresch’onde;
poi chiama una capretta bianca e negra,
la qual, presto lasciando l’erbe e fronde,
non fu di alzar la gamba al vecchio pegra.
Egli trasse di latte un suo vasetto,
non stomacoso no, ma bianco e netto.

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16
E mentre vi si ammolla un mezzo pane,
corre di tre galline al comun nido;
un paro d’uova nate in quella mane
sul cener caldo pose in loco fido.
Poi torna al latte e con sue voglie umane
lo porge a Berta; ed ella: — Io mi confido,
— disse — nel ciel, o padre mio, ch’ancora
verrá, che di ciò renda il cambio, l’ora.
17
Non sempre in me fortuna turbarassi,
non sempre, ispero, mi sará matregna:
ché se a clemenzia i’ movo e fiere e sassi,
via piú ch’ella si pieghi è cosa degna. —
Cosí parlando, di quel latte vassi
nudrendo a poco a poco, e par si spegna
la fame insieme col dolor del parto,
lo qual sopra ogni pena è acerbo ed arto.
18
Poi sorbe l’ova ed acqua dolce beve,
di che ne prende molto di ristoro:
cosí, di giorno in giorno, e l’aspro e greve
vassi diminuendo suo martoro,
e dal pastore tanto ben riceve,
che reputa del mondo tutto l’oro
bastevole non esser, per il quale
supplir potesse un beneficio tale.
19
Pigliava l’arco suo mattina e sera,
quel sovra tutti bono pegoraro,
e mentre di sue pecore la schiera
iva pascendo in loco solitaro,
cercava il monte, il bosco e la riviera,
seguendo gli augelletti; e ben fu raro
quel ch’adocchiato fusse e saettato,
morto non riportasse il stral al prato.

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20
Con questi poi nudriva la dongella,
e di pastore fatto era giá coco,
in fin che piú che mai liggiadra e bella
depose il volto macilente e fioco.
Ma l’Orlandino giá corre e saltella,
giá, qual poledro, nescit stare loco,
scampasi da la madre omai slattato,
a quel pastor piú del suo armento grato.
21
Cavalca una cannuccia e con la spada
di legno tira dritti e manroversi;
sempre discorre questa e quella strada
né sa d’alcun affanno mai dolersi;
convien che cada, surga e poi ricada,
ché ’n piede fermo anco non sa tenersi;
ond’ha sul volto, mentre in terra il smacca,
chiara di uovo sempre o qualche biacca.
22
Vive sett’anni e dodici ne mostra,
tanto compiuto va di forze e membra:
gambe da salti ed omeri da giostra,
donde natura ad Ettore l’assembra;
porta gran pesi e ’n qualche muro giostra,
urta, fracassa, rompe, quassa e smembra:
orsi, leoni, tigri non paventa,
ma contra loro intrepido s’avventa.
23
Folgori, venti, piogge, caldo e gelo
non pòn far sí, ch’egli di lor si cure;
dorme di notte sotto aperto cielo,
non su le frondi, ma su pietre dure;
bruno, nervoso, e ’n capo ha riccio ’l pelo,
co’ piedi e mani, ove convien s’indure,
per l’andar scalzo e maneggiar bastoni,
la carne in calli, e ’n scarpe de’ pedoni.

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24
Due pelli di capretto avvinculate
per piedi, su le spalle ha per vestura.
Cogli altri pastorelli songli grate
lotte, bagordi e giochi di ventura.
Autunno, primavera, inverno, estate,
non mai di star agiato si procura.
S’ha fame, ciò ch’incontra egli tracanna,
o sia ne’ boschi o sia ne la capanna.
25
Giande, fraghe, castagne, cornie e more,
pomi selvaggi e pere si manuca,
non piú vi guarda il meglio che ’l peggiore,
non l’acetosa piú de la lattuca:
beve di fonte, o fermo o corridore,
né cessa ber per fango ovver festuca;
ma s’anco con sua madre si ritrova,
mangia butirro, pane, cacio ed ova.
26
Or Berta in questo tempo intende e spia,
Rainer esser di Sutri al reggimento;
cade in sospetto grande che non sia
da lui scoperta e fa comandamento
al figlio che con lei queto sen stia.
Ma ben piú tosto avria tenuto il vento
in un rete, che mai vietar a Orlando,
che non vada o ritorni al suo comando.
27
Usanza universale tra’ cittelli
era di Sutri, come far si sòle,
con sassi guerreggiare, poscia ch’elli
fusser asciolti da l’orribil scole,
quelli con questi e questi contra quelli,
ove s’oscura a tante pietre il sole.
Chi rumpe, chi l’ha rotta, o gamba o testa,
e sempre piú san Stefano tempesta.

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28
Quivi sovente il pover Orlandino
mal in arnese trovasi fra loro;
dinnanzi li altri sempre il parvolino
le pietre fa cantar nel ciel sonoro;
ed è cagion sol esso col polvino
turbar le stelle, mentre di coloro
parte sgomenta, rumpe, caccia e dálli,
parte con gridi arguti drieto válli.
29
E, come avvien al troppo baldanzoso,
rotta la testa spesso ne riporta;
ma non che per sí poco vien ritroso;
cacciasi avanti a’ soi compagni scorta,
e quanto piú sia tócco, piú sdegnoso
di pietre e sassi un turbine supporta,
sí che a la grotta torna poi la sera
tutto dirotto, e Berta si dispera.
30
Spesso gli parla e dice: — Figliuol mio,
perché ti fai cosí tutto pestare?
Lascia le pietre, per l’amor di Dio,
ché ’l viso tuo d’un diavolo mi pare! —
— Volete, madre mia — risponde, — ch’io
mi lasci da ciascuno ingiuriare?
«Figliolo di puttana» ognun mi chiama,
ed io supporterò perder la fama?
31
Se un tale oltraggio fare mi permetto,
ch’altro nome guadagno che «bastardo»?
Ed io, madre mia cara, vi prometto
voler mostrar che non pur son gagliardo,
ma sono per cavar il cor dal petto
a chi del vostro onor non ha riguardo;
e, se mai torna il padre mio Milone,
dirolli sul bel volto ch’è un poltrone,

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32
perché su le taverne consumando
va la sostanzia nostra e non lavora
e, noi per queste selve abbandonando,
il chiaro sangue nostro disonora.
Ma se mai grande i’ vegno sí che ’l brando
cinger mi poscia, voglio cacciar fora
Carlo del mondo, non che d’Anglia e Franza,
e bever tutto ’l sangue di Maganza.
33
Sí che lascia pur, madre, che ’n la guerra
di pugna e sassi adoperar mi vaglia;
quanti n’abbraccio, gittoli per terra,
non li valendo né arte né scrimaglia.
Ciascun mi chiama «Orlando forte-guerra»
perché non è ch’in guerreggiar m’agguaglia;
sempre davanti gli altri salto e schivo
duo milia sassi, e pur son anco vivo.
34
Poscia chi mi dá pane e chi del vino,
chi carne cotta e chi bona minestra;
talor è chi mi dá qualche soldino,
altri che a far la pugna m’ammaestra,
dicendo che pararmi col mancino
braccio mi deggia, e dar co’ la man destra,
tal ch’ad ognuno vien di me paura:
cosa ch’esser mi penso a gran ventura. —
35
Cotanto ben sa l’Orlandino dire,
che di dolcezza Berta ride e piagne;
lascialo dunque a suo diletto gire,
ch’in farsi un valentuomo non sparagne.
Or qui Turpin si vien a divertire,
narrando di Milon le forze magne,
che Desiderio vinse con grand’arte,
cacciando longobardi d’ogni parte.

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36
Poi scrive come in Cipro giunto Amone
con le reliquie sue di Chiaramonte,
di Beatrice in mezzo d’un vallone
Rinaldo nacque, le cui prove conte
che fece nella infanzia, sol espone
allor che ’l figlio suo, d’Anglante il conte,
ebbe condutto fin al mar Euxino
a star col suo diletto Rinaldino.
37
Ma nanti che i doi fanti assai cresciuti
poscian trovarsi insieme in quelle bande,
torna il dottore a scrivere gli arguti
consigli d’Orlandino e il senso grande;
lo qual un giorno, co’ capelli irsuti
e con la gonna che d’intorno spande
ben mille strazze, mendicava in Sutri,
tanto che sé con la sua madre nutri.
38
Ecco s’incontra in un bel giovenetto,
figliuolo di Rainer, detto Olivero,
lo qual turbossi ed ebbe a gran dispetto
ch’Orlando l’occupasse in su ’l sentiero.
Alzò la mano e diedegli un buffetto
su l’occhio, che gli venne tutto nero;
ed in quel tempo ancora il suo ragazzo
piantolli un grosso pugno sul mostazzo.
39
Allor Orlando quel dongello prese
e sotto i piedi tosto si lo caccia,
ed ancor l’altro afferra e giú lo stese
l’un sopra l’altro, e macca lor la faccia.
Corre la plebe tutta per difese
del figlio del signore in su la piaccia;
prest’ Orlandino lascia lor in terra,
corre a la grotta e dentro vi si serra.

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40
Berta, che d’una lepre in foggia vive,
la qual sempre de’ cani sente o pare
sentir le voci e pensa ove lor schive,
e vede il leporin a sé scampare,
la faccia di pallor tutta si scrive,
gridando al figlio: — Chi ti fa trottare,
dimmi, caval balzano? e donde fuggi?
perché, fígliuol sfrenato, mi distruggi?
41
qual occhio è quello e muso che riporti
livido sí, che parmi un saraceno? —
Rispose Orlando: — Vòi tu che sopporti
le bastonate altrui né piú né meno
s’un mastin fussi? tanti e tanti torti
ognor fatti mi sono, e nondimeno
soffersi lor, se non testé c’ho franto
lo figlio del signore tutto quanto.
42
Le bòtte mai non son per comportare;
de le parole pur men passarei;
trovo distanzia assai dal dir al fare;
non siamo né anche turchi né giudei:
sol gli asini si ponno bastonare:
se una tal bestia fussi, patirei;
ma son un uomo ed uomo esser intendo;
e chi dieci men dá vinti ne rendo.
43
Voi ne darete (chiama lo Vangelo)
cento per uno, e cosí far debb’io:
e chi mi rumpe o pur mi torze un pelo,
il collo torzo a lui come vòl Dio;
e se de le scritture, anzi del cielo,
si mette a interpretar il senso pio
ogni frate scapocchia ed ignorante,
anch’io poterlo far io son bastante. —

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44
Parla la madre: — Deh, figliuol, non sai
che ’l pesce grande mangia il pargoletto?
Non gir in Sutri, ché se v’andarai,
ti piglieranno i zaffi, ti prometto!
— Mi piglieranno? — disse Orlando: — guai
a qualunque verrammi a far dispetto!
ché se d’un papa fusse ben bastardo,
io gli farò parer il fuggir tardo.
45
Ma datti pace tu, perché ’l demonio
giá non è brutto come vien dipinto:
non sol d’una prigion i’ son idonio
rumper le mura, ma d’un laberinto;
ecco su l’occhio i’ porto il testimonio
che ’l figlio del signor mi l’ebbe tinto
col ponderoso pugno: ei fu ’l primero
che mi percosse, ed anco il suo scudero. —
46
Cosí l’altra mattina l’animoso
dongello dritto corre a la cittade:
porta il bastone duro e groppoloso,
col qual non fuggirebbe mille spade;
scorre e traversa senza gir nascoso
di qua di lá per tutte le contrade,
e chiama in alta voce: — O gente bona,
fatimi ben, se Dio non v’abbandona!
47
Io v’addimando, per l’amor di Dio,
un pane solo ed un boccal di vino;
officio non fu mai piú santo e pio
che se pascete il pover pellegrino;
se non men date, vi prometto ch’io,
quantunque sia di membra sí piccino,
ne prenderò da me senza riguardo;
ché salsa non vogl’io di san Bernardo!

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48
Cancar vi mangia! datemi a mangiare;
se non, vi butterò le porte giuso;
per debolezza sentomi mancare
e le budelle vannomi a rifuso.
Gente devota, e voi, persone care
che vi leccate di bon rosto il muso,
mandatimi, per Dio, qualche minestra,
o mi la trati giú de la finestra! —
49
Cosí gridava il pover’Orlandino,
ed or li prega ed or piú li minazza:
ecco gli passa innanzi un fra Stoppino,
ch’avea di pane un sacco e con la mazza
chiocca ne l’uscio a questo e quel vicino,
ch’anco ne vòl de l’altro e piú n’abbrazza
ch’egli portar non può, com’è l’usanza
di chi non san empirsi mai la panza.
50
Orlando se gli accosta col bastone
e dice: — O fra Sguarnazza, dammi un pane:
questo ti vo’ pregar per il cordone,
per le gallozze e le brettine lane:
so che l’aspetto tuo d’un bel poltrone
piú presto lo darebbe a qualche cane;
pur fa’ come ti par, ché in ogni modo
giá di volerlo qui piantato ho il chiodo.
51
— O Iesú Cristo! — disse suspirando
quel frate allor, e via sen va di trotto;
ma, piú di un gatto presto, il zaffa Orlando
per la gonella e fèl mostrar di sotto;
ché, del suo general contra ’l comando,
la sacca non avea del barilotto,
sí ben quella del pane in colmo piena,
talmente ch’egli move il passo a pena.

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52
— Sta saldo — disse Orlando — perché fuggi?
Mi fa di te pietá, che sei sí carco:
olá, fermati, frate, ché ti struggi
peggio d’un asinelio sotto ’l carco!
A cui dico, poltron? se non t’induggi,
per Dio, ti mostrarò ch’io non son parco
di bastonate, come tu di pane,
lo qual tu sei per dare a le puttane. —
53
E detto ciò, come sboccato alquanto
(ché putti e polli imbrattano la casa),
scote la polve col baston del manto,
ch’omai poco di quella vi è rimasa:
perse la pazienza il padre santo
che ’l braccio d’Orlandino gusta e annasa
esser non di fanciullo, ma di Ettorre;
le sacche getta in terra e via sen corre.
54
— Chi cerca l’orbo? — disse allor Orlando,
e preso il pane fugge vittorioso;
mai non si guarda in drieto, ma scampando
va piú che può di qua di lá nascoso.
Al fin giunse a la grotta, e Berta, quando
lo vide con quel carco ponderoso,
prima si dolse pel sudor del figlio;
poi, visto il pane, vi mutò consiglio.
55
— Or mangia, madre mia, gagliardamente!
Panem doloris qui t’arreco inanti. —
E detto ciò sen leva un grosso al dente
e, dopo quello, cinque n’ebbe franti.
Berta sen ride solacievolmente
dicendo: — Figliuol mio, saran bastanti
cotesti pani per un mese intero.
Voglio mandarne parte al monastero.

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56
Verran sí duri e sodi, che spetrarli
mistier fará l’incude col martello.
— Piú tosto — parla Orlando — vo’ ch’i tarli
lo rodino che darne un bocconcello
a frate alcuno: fa’ che non mi parli
di questo, madre, piú; ch’al bel bordello
ti cacciarei, mi vegna la giandussa!
Pasto de’ frati è faba con la gussa.
57
Anzi farai tu meglio star luntana,
se non ti curi crescer in famiglia;
e se vengon trovarti ne la tana,
la stanga, che sta drieto a l’uscio, piglia
e su le schiene assettagli la lana.
Fa’ ciò che ’l tuo figliuolo ti consiglia;
e se ti voglion predicar la fede,
dilli che ’l laico piú del frate crede. —
58
Cosí parlando, il suo baston resume
e corre a la cittade apertamente:
ecco li zaffi, com’è ’l suo costume,
in frotta l’han pigliato immantinente;
tutto legato stretto in un volume
portano lui di peso leggermente,
lo qual si scote per spezzar le corde,
ed a chi ’l porta spesso il collo morde.
59
Or finalmente l’han condotto innanze
al padre d’Olivier, signor del loco:
— È questo — disse — quel c’ha tante sanze
e teme il mio valore cosí poco?
Or si comprenda che le sue possanze
son come neve al sole e cera al foco!
Ponetilo giú in terra. Dimmi, frasca,
non sai ch’al fin la volpe in laccio casca?

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60
La forca fugge, e tu le corri drieto,
giotto, cavestro e ladroncel che sei:
ancora non sei lungo com’ho ’l deto,
e for del ciel ti credi trar i dèi?
Presontuoso ed animal inqueto,
che, a far bona giustizia, ti dovrei
dar mille staffilate a piú non posso,
che ’l cul di sangue avessi negro e rosso! —
61
Rispose Orlando: — Perch’io son legato,
tu mi chiami cavestro e ladroncello!
se de le braccia i’ fussi liberato,
ti mostrarei che sei di me piú fello.
Io son d’italiano sangue nato,
e la mia casa «Chiaramonte» appello.
Mio padre vive ancor ed è Milone,
contra ragion bandito da Carlone.
62
Però tu parli come poco saggio;
né sai, chi parla troppo se ne pente;
tu pensi ad un furfante dir oltraggio,
e pur lo dici a Orlando qui presente:
forse non sempre avrai questo vantaggio,
se ’l torto che mi fai mio padre sente.
Guárdati innanzi e lasciami ch’io vada,
ché forse avrai barbier ch’al fin ti rada.
63
S’ho rotto ad Olivier tuo figlio il naso,
esso m’ha rotto prima l’occhio e ’l muso.
Se Nicolao Delirans e Tommaso
scendesser con soi libri dal ciel giuso
a darmi torto in questo nostro caso,
io gli direi che la conocchia e il fuso
sarebbe meglio stata ne lor mani,
che diffinir di Dio li sensi arcani.

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64
Levátimi da torno queste corde;
se non, le rumperò sol in un scosso;
né aver al detto mio l’orecchie sorde,
perché ti veggio la ruina addosso,
dico Milon, che ’l deto giá si morde
per franger il tuo corpo d’osso in osso
e darte a’ cani te con la tua schiatta,
fin che su la radice sia disfatta. —
65
Quando Rainer intende d’un infante
minacce che porrian spavento in cielo,
e che si vede un Miloncin avante,
che ben lo rassomiglia a l’occhio, al pelo,
cangiossi tutto quanto nel sembiante,
né poté far che, d’amichevol zelo
compunto, non piangesse il caro amico,
vedendo il figlio suo fatto mendico.
66
Presto che sia slegato fa comando,
ed ubbedito in un istante venne.
Un capriolo parve allora Orlando,
che, sciolto, giá in quel loco non si tenne,
ma per le scale giú corre saltando,
s’avesse agli alti balzi intorno penne,
mille cittelli vannogli da tergo,
gridando sempre, fin al proprio albergo,
67
ove ’l cortese damigello, in vece
di bon ministro de la madre Chiesa,
del pane tolto al frate dianzi fece
prudentemente una pietosa impresa,
dandol a que’ cittelli. — Piú mi lece,
— dicea — porger a questi la difesa
contra l’orribil fame, che dar pasto
ai musici d’Arcadia sotto ’l basto! —

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68
Or su non piú; ché d’ignoranzia un vaso
farmi bandir dal ciel par si prometta;
e, perché di cervello non men raso
lo veggio che di testa, in mia vendetta
voglio tacer, che non mi dia del naso
lá dove spesso mi forbisce e netta,
liber novarum legum quem de foeno
quidam composuerunt, ventre pleno.
69
Lasciamlo dunque star in sua malora,
che non urtasse al scoglio d’una gobba,
gobba che, al vaso eguale di Pandora,
contien di morbi un’infinita robba.
Meglio sará che l’unica signora
mia Caritunga, zoppa, sguerza e gobba,
si alzi la gonna e mostri a lui l’eclipsi,
scrivendo per le vie: quod scripsi, scripsi.
70
Scripsi scribenda, e scriver anco voglio
fin che Grifalco non verrammi stanco;
ruppi mio legno in fortunato scoglio,
che piú di solcar onde omai son franco;
e se l’inchiostro, la lucerna, il foglio
e l’Orsattino mio non fiami manco,
anzi se morte non mi chiude il passo,
spero di lui dirá Cirra e Parnasso!