Orlando innamorato/Libro secondo/Canto decimoquinto

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Libro secondo

Canto decimoquinto

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Libro secondo - Canto decimoquarto Libro secondo - Canto decimosesto

 
1   A cui piace de odire aspra battaglia,
     Crudeli assalti e colpi smisurati,
     Tirase avante ed oda in che travaglia
     Son due guerreri arditi e disperati,
     Che non stiman la vita un fil de paglia,
     A vincere o morire inanimati.
     Ranaldo è l’uno, e l’altro è Rodamonte,
     Che a questa guerra son condutti a fronte.

2   Avea ciascun di lor tanta ira accolta,
     Che in faccia avean cangiata ogni figura,
     E la luce de gli occhi in fiamma volta
     Gli sfavillava in vista orrenda e scura.
     La gente, che era in prima intorno folta,
     Da lor se discostava per paura;
     Cristiani e Saracin fuggian smariti,
     Come fosser quei duo de inferno usciti.

3   Siccome duo demonii dello inferno
     Fossero usciti sopra della terra,
     Fuggia la gente, volta in tal squaderno,
     Che alcun non guarda se il destrier si sferra;
     E poi da largo, sì come io discerno,
     Se rivoltarno a remirar la guerra
     Che fanno e due baroni a brandi nudi,
     Spezzando usbergi, maglie, piastre e scudi.

4   Ciascun più furïoso se procaccia
     De trare al fine il dispietato gioco;
     Al primo colpo se gionsero in faccia
     Ambi ad un tempo istesso e ad un loco.
     Or par che ’l celo a fiamma se disfaccia,
     E che quegli elmi sian tutti di foco;
     Le barbute spezzâr, come di vetro:
     Ben diece passi andò ciascuno adietro.

5   Ma l’uno e l’altro degli elmi è sì fino,
     Che non gli nôce taglio né percossa;
     Quel de Ranaldo già fo de Mambrino,
     Che avea due dita e più la piastra grossa;
     E questo che portava il Saracino,
     Fo fatto per incanto in quella fossa
     Ove nascon le pietre del diamante;
     Nembroto il fece fare, il fier gigante.

6   Sopra a questi elmi spezzâr le barbute
     Al primo colpo, come io vi ho contato;
     Mai non son ferme quelle spade argute,
     Disarmando e baron; da ogni lato
     Le grosse piastre e le maglie minute
     Vanno a gran squarci con roina al prato;
     Ogni armatura va de mal in pezo,
     Del scudo suo non ha più alcun lì mezo.

7   Ranaldo, a cui non piace il stare a bada,
     Mena a duo mano al dritto della testa,
     E Rodamonte, che il ferire agrada,
     Mena anch’esso a quel tempo, e non s’arresta;
     Ed incontrosse l’una a l’altra spada,
     Né se odette giamai tanta tempesta;
     E ben de intorno per quelle confine
     Par che il mondo arda e tutto il cel ruine.

8   Re Rodamonte, che sempre era usato
     Mandare al primo colpo ogniomo ad erba,
     Essendo con Ranaldo ora affrontato,
     Che rende agresto a lui per prugna acerba,
     Crucciosse fuor di modo, e desdignato
     Sprezava il cel quella anima superba,
     - Dio non ti puotria dar - dicendo - iscampo,
     Che io non ti ponga in quattro pezzi al campo. -

9   Così dicendo quel saracin crudo
     Mena a due mani un colpo di traverso;
     Ranaldo mena anch’esso il brando nudo,
     E non crediati che abbia tempo perso,
     Onde l’un gionse l’altro a mezo il scudo.
     Fu ciascun colpo orribile e diverso,
     Fiaccando tutti e scudi a gran ruina,
     Né il lor ferir per questo se raffina.

10 Ché l’un non vôl che l’altro se diparta
     Con avantaggio sol de un vil lupino;
     E come l’arme fossero de carta,
     Mandano a squarci sopra del camino.
     La maglia si vedea per l’aria sparta
     Volar de intorno sì come polvino,
     E le piastre lucente alla foresta
     Cadean sonando a guisa de tempesta.

11 Stava gran gente intorno a remirare,
     Come io vi dissi, la battaglia oscura,
     Né alcun vantaggio vi san iudicare,
     Pensando e colpi a ponto e per misura.
     Ecco una schiera sopra al poggio appare,
     Che scende con gran cridi alla pianura,
     Con tanti corni e tamburini e trombe,
     Che par che ’l mare e il cel tutto rimbombe.

12 Mai non se vidde la più bella gente
     Di questa nova che discende al piano,
     Di sopraveste ed arme relucente,
     Con cimeri alti e con le lancie in mano.
     Perché sappiati il fatto intieramente,
     Vi fo palese che il re Carlo Mano
     È quel che viene, il magno imperatore,
     Ed ha con seco de’ Cristiani il fiore;

13 Più de settanta millia cavallieri
     (Ché còlto è, dico, il fior d’ogni paese),
     Sì ben guarniti, e sì gagliardi e fieri,
     Che tutto il mondo non ve avria diffese:
     Avanti a tutti il marchese Olivieri,
     E seco a paro a paro il bon Danese,
     E della corte tutto il concistoro,
     Con le bandiere azurre a zigli d’oro.

14 Quello African, che ha tutto il mondo a zanza,
     Ranaldo dimandò di quella gente,
     E quando intese ch’egli è il re di Franza,
     Divenne allegro in faccia e nella mente,
     Come colui che avea tanta arroganza,
     Che tutti gli stimava per nïente;
     E senz’altro parlar né altro combiato,
     Verso questi altri subito è dricciato.

15 Di corso andava il saracin gagliardo,
     E già Ranaldo non puotea seguire,
     Ché facea salti assai maggior de un pardo.
     Gionto è tra nostri, e comincia a ferire;
     E se non era il giorno tanto tardo,
     Facea de’ fatti suoi molto più dire;
     Ma la luce, che sparve a notte scura,
     Impose fine alla battaglia dura.

16 Pur vi rimase ferito il Danese
     Nel braccio manco e sopra del gallone;
     Ed Olivieri assai ben se diffese,
     Benché perdesse il scudo dal grifone
     E fossegli spezzato ogni suo arnese.
     Grande tra gli altri fu la occisïone:
     Coperti erano a morti tutti e piani
     De nostra gente ed anco de pagani.

17 La oscura notte, come io vi contai,
     Partitte al fin la zuffa cominciata.
     Or ben mi fa meravigliare assai;
     Quel fier pagan, che tutta la giornata
     Ha combattuto e non se posò mai,
     E, poi che la battaglia è raquietata,
     Va roïnando tutto il monte e ’l piano
     Per ritrovar il sir de Montealbano.

18 Avanti fa condurse ogni pregione,
     Ché molti ne avea presi alla catena,
     E lor dimanda del figliol de Amone,
     E qual spaventa, e qual forte dimena;
     Un per paura, o per altra cagione,
     Disse che era ito nel bosco de Ardena,
     E già non eran sue parole vere:
     Né lo sapea, né lo potea sapere.

19 Però che il bon Ranaldo era tornato
     A rimontar Baiardo, il suo destriero.
     Ma poi che al saracin fu ciò contato,
     Lascia sua gente e più non gli ha pensiero.
     Il caval de Dudone ebbe pigliato,
     Quale era grande a maraviglia e fiero;
     Sopra vi salta il forte saracino,
     E verso Ardena prende il suo camino.

20 Una grossa asta e troppo sterminata
     Fuor de la nave sua fece arrecare,
     E non aspetta luce né giornata,
     Ma quella notte prese a caminare;
     Onde sua gente, che era abandonata,
     Senza il suo aiuto non sa che si fare;
     Tutti smariti e pien de alto spavento
     Entrarno in nave e dier le vele al vento.

21 Ogni pregione e tutto il loro arnese
     Portavan alle nave con gran fretta;
     Dudon tra’ primi, il giovane cortese,
     Menava via la gente maledetta.
     Ma chi fu tardo a distaccar le prese,
     Sopra di lor discese la vendetta,
     Perché Ranaldo, a destrier risalito,
     Con gran ruina gionse in su quel lito.

22 De Rodamonte va il baron cercando
     Per ogni loco a lume della luna;
     A nome lo dimanda e va cridando
     Ad alta voce per la notte bruna;
     E sopra alla marina riguardando
     Vede la gente che l’arnese aduna:
     A più poter ciascun forte se tràffica
     Per porlo in nave e via passare in Africa.

23 Ranaldo dà tra lor senza pensare,
     Ché ben cognobbe che eran Saracini;
     Quivi de intorno fo il bel sbarattare,
     Fuggendo tutti in rotta quei meschini.
     Chi ne la nave, e chi saltava in mare,
     L’un non aspetta che l’altro se chini
     A prender cosa che gli sia caduta;
     Ma sol fuggendo ciascadun se aiuta.

24 Gli altri che a terra avean volto il timone,
     Via se ne andarno, abandonando il lito,
     E seco ne menâr preso Dudone,
     Che, se Ranaldo l’avesse sentito,
     Avria menata gran destruzïone,
     E forse entro a quel mar l’avria seguito;
     Ma lui non si pensava di tale onte,
     Sol dimandando ove era Rodamonte.

25 Un saracin ben forte spaventato,
     Che anti a Ranaldo inginocchion si pose,
     Di Rodamonte essendo dimandato,
     La pura verità presto rispose:
     Come al bosco de Ardena era invïato,
     Tutto soletto per le piaggie ombrose,
     Essendo detto a lui che a quel camino
     Giva Ranaldo, al Fonte de Merlino.

26 Il Fonte de Merlino era in quel bosco,
     Sì come un’altra volta vi contai,
     Che era a gli amanti un velenoso tosco,
     Ché, ivi bevendo, non amavan mai;
     Benché lì presso a quel loco fosco
     Passava una acqua che è megliore assai:
     Meglior de vista e de effetto peggiore;
     Chiunche ne gusta, in tutto arde d’amore.

27 Quando Ranaldo intese che a quel loco
     Andava Rodamonte a ricercarlo,
     Di questa gente si curava poco,
     E più presto partì che io non vi parlo.
     Il cuor gli fiammeggiava come un foco
     Del gran desio che avea di ritrovarlo,
     E via trottando a gran fretta camina
     Verso ponente, a canto alla marina.

28 E Rodamonte simigliantemente
     De giongere ad Ardena ben se spaccia;
     E parlava tra sé nella sua mente,
     Dicendo: "Questo dono il ciel mi faccia,
     Pur che ritrovi quel baron valente,
     O ch’io l’occida, o torni seco in graccia;
     Ché, essendo morto, in terra non ho pare,
     E se egli è meco, il cel voglio acquistare.

29 Né creder potrò mai che ’l conte Orlando
     Abbia di questo la mera bontate.
     Io l’ho provato, e di lancia e di brando
     Non è il più forte al mondo in veritate.
     O re Agramante, a Dio ti racomando,
     Se tu discendi per queste contrate!
     Essendote io, come serò, lontano,
     Tutta tua gente fia sconfitta al piano.

30 Come diceva il vero il re Sobrino!
     Sempre creder si debbe a chi ha provato.
     Or, s’egli è tale Orlando paladino
     Come costui che meco a fronte è stato,
     Tristo Agramante ed ogni saracino
     Che fia di qua dal mar con lui portato!
     Io, che tutti pigliarli avea arroganza,
     Assai ne ho de uno, e più che di bastanza."

31 Così parlando andava il re pagano,
     E non sapendo a ponto quel vïaggio,
     Nel far del giorno gionse in un bel piano
     Là dove un cavallier veniva adaggio;
     E Rodamonte con parlare umano
     Dimandò al cavalliero in suo lenguaggio
     Quanto indi fusse alla selva de Ardena,
     Se lo sapesse, e qual strata vi mena.

32 Rispose prestamente il cavalliero:
     - Nulla te so contar di quel camino,
     Perché io, sì come tu, son forastiero,
     E vo piangendo, misero e tapino,
     Non riguardando strata né sentiero,
     Ma dove mi conduce il mio destino,
     A strugimento, a morte, a ogni dolore,
     Poi che se piace al deslïale amore. -

33 Perché sappiati il fatto ben compiuto,
     Quel cavallier che fa tal lamentanza
     Dolendosi de amore, è Feraguto,
     Che fu al suo tempo un raggio di possanza;
     Ed ora travestito era venuto
     Nascosamente nel regno di Franza,
     Sol per saper, quella anima affocata,
     Se giamai fusse Angelica tornata.

34 Egli anco amava quella damigella,
     Come potesti odir primeramente,
     E non potendo aver di lei novella,
     Benché ne dimandasse ad ogni gente,
     Or per questa ventura ed or per quella
     Se consumava dolorosamente,
     E giorno e notte non avia mai bene,
     Sempre languendo e sospirando in pene.

35 Or, come aveti inteso, il giovanetto
     Trovò quel re pagano alla campagna,
     E sterno insieme alquanto a lor diletto,
     E ciascadun de Amor si dole e lagna.
     Pur, così ragionando, venne detto
     A Feraguto come era di Spagna,
     E che pur mo tornava di Granata,
     Ove una dama avea gran tempo amata;

36 E come era chiamata Doralice
     Quella, figliola del re Stordilano.
     - Non più parole, - Rodamonte dice
     - Ma prendi la battaglia a mano a mano.
     Chi te ha condotto, misero, infelice,
     A morire oggi sopra a questo piano?
     Ché comportar non voglio e non potrei
     Che altri che me nel mondo ami colei. -

37 Rispose Feraguto: - Essendo grande,
     Lo esser cucioso assai ti disconviene;
     Ma poi che la battaglia me domande,
     Tra noi la partiremo, o male o bene,
     E l’alterezza tua che sì se spande,
     Potria tornarti in dolorose pene.
     Amai colei; lo amore ebbe a passare:
     Per tuo dispetto voglio ancora amare. -

38 Con tal parole e con de l’altre assai
     Se furno insieme e duo baron sfidati.
     Ambi avean lancie, come io vi contai:
     Con esse a resta se fôr rivoltati.
     Più crudel scontro non se udì giamai;
     E due destrier, di petto insieme urtati,
     Andarno a terra, e i cavallieri adosso,
     Con tal fraccasso che contar non posso.

39 E le lor lancie grosse oltra a misura
     Se fragellarno insin presso alla resta;
     Ciascun de svilupparsi se procura
     Per rimenar col brando un’altra festa.
     Or si comincia la battaglia dura
     De’ colpi sterminati e la tempesta
     De l’arme rotte e piastre con ruina,
     Come battesse un fabro alla fucina.

40 Non avea indugia o sosta il lor ferire,
     Ma quando l’un promette, e l’altro dona;
     E ben da longe se potrebbe odire,
     Perché ogni colpo de intorno risuona.
     E certamente io non saprei ben dire
     Qual sia più ardita e più franca persona;
     Tanto son de alto core e di gran lena,
     Che un altro par non trovo al mondo apena.

41 Ciascuno è de ira e di superbia caldo,
     E però combattean con molto orgoglio,
     L’un più che l’altro alla battaglia saldo.
     Ma quella nel presente dir non voglio,
     Perché convien contarvi di Ranaldo;
     Dapoi ritornarò, sì come io soglio,
     A dirvi questa zuffa alla distesa,
     Sì che vi fia diletto averla intesa.

42 Giva Ranaldo, come aveti odito,
     In verso Ardenna, alla ripa del mare,
     Credendo Rodamonte aver seguito,
     Ma lui giamai non puote ritrovare,
     Perché il dritto vïaggio avea smarito,
     E poi con Feraguto ebbe che fare;
     Onde lui caminando avanti passa,
     Ed a sé drieto Rodamonte lassa.

43 Quando fu gionto alla selva fronzuta,
     Dritto ne andava al Fonte di Merlino:
     Al Fonte che de amore il petto muta,
     Là dritto se n’andava il paladino.
     Ma nova cosa che egli ebbe veduta,
     Lo fece dimorare in quel camino:
     Nel bosco un praticello è pien de fiori
     Vermigli e bianchi e de mille colori.

44 In mezo il prato un giovanetto ignudo
     Cantando sollacciava con gran festa.
     Tre dame intorno a lui, come a suo drudo,
     Danzavan, nude anch’esse e senza vesta.
     Lui sembianza non ha da spada o scudo,
     Ne gli occhi è bruno, e biondo nella testa;
     Le piume della barba a ponto ha messe:
     Chi sì, chi no direbbe che le avesse.

45 Di rose e de vïole e de ogni fiore
     Costor che io dico, avean canestri in mano,
     E standosi con zoia e con amore,
     Gionse tra loro il sir de Montealbano.
     Tutti cridarno: - Ora ecco il traditore, -
     Come l’ebber veduto - ecco il villano!
     Ecco il disprezator de ogni diletto,
     Che pur gionto è nel laccio al suo dispetto! -

46 Con quei canestri al fin de le parole
     Tutti a Ranaldo se aventarno adosso:
     Chi getta rose, chi getta vïole,
     Chi zigli e chi iacinti a più non posso.
     Ogni percossa insino al cor li duole
     E trova le medolle in ciascuno osso,
     Accendendo uno ardore in ogni loco
     Come le foglie e i fior fosser di foco.

47 Quel giovanetto che nudo è venuto,
     Poi che ebbe vòto tutto il canestrino,
     Con un fusto di ziglio alto e fronzuto
     Ferì Ranaldo a l’elmo de Mambrino.
     Non ebbe quel barone alcuno aiuto,
     Ma cadde a terra come un fanciullino;
     E non era caduto al prato a pena,
     Che ai piedi il prende e strasinando il mena.

48 De le tre dame ogniuna avea ghirlanda
     Chi de rosa vermiglia e chi de bianca;
     Ciascuna se la trasse in quella banda,
     Poi che altra cosa da ferir li manca;
     E benché il cavallier mercè dimanda,
     Tanto il batterno, che ciascuna è stanca,
     Però che al prato lo girarno intorno,
     Sempre battendo, insino a mezo giorno.

49 Né il grosso usbergo né piastra ferrata
     Poteano a tal ferire aver diffesa;
     Ma la persona avea tutta piagata
     Sotto a quelle arme, e di tal foco accesa,
     Che ne lo inferno ogni anima dannata
     Ha ben doglia minor senza contesa,
     Là dove quel baron de disconforto,
     Di tema e di martìr quasi era morto.

50 Né sa se omini o dei fosser costoro:
     Nulla diffesa o preghera vi vale;
     E, standosi così, senza dimoro
     Crescerno in su le spalle a tutti l’ale,
     Quale erano vermiglie e bianche e d’oro,
     E in ogni penna è un occhio naturale,
     Non come di pavone, o de altro occello,
     Ma di una dama grazïosa, e bello.

51 E, poco stando, se levarno a volo,
     L’un dopo l’altro verso il cel saliva.
     Ranaldo a l’erba si rimase solo;
     Amaramente quel baron piangiva,
     Perché sentia nel cor sì grande il dôlo,
     Che a poco a poco l’anima gli usciva,
     E tanta angoscia nella fine il prese,
     Che come morto al prato se distese.

52 Mentre che tra quei fior così iacea,
     E de morire al tutto quivi estima,
     Gionse una dama in forma de una dea,
     Sì bella che contar nol posso in rima,
     E disse: - Io son nomata Pasitea,
     De le tre l’una che te offese in prima:
     Compagna dello Amore e sua servente,
     Come vedesti e provi di presente.

53 E fu quel giovanetto il dio d’Amore,
     Qual te gettò de arcion come nemico;
     Se contrastar ti credi, hai preso errore,
     Ché nel tempo moderno o ne l’antico
     Non si trova contrasto a quel segnore.
     Ora attendi al consiglio che io te dico,
     Se vôi fuggir la dolorosa morte;
     Né sperar vita o pace in altra sorte.

54 Amore ha questa legge e tal statuto,
     Che ciascun che non ama, essendo amato,
     Ama po’ lui, né gli è l’amor creduto,
     Acciò che ’l provi il mal ch’egli ha donato.
     Né questo oltraggio che te è intravenuto,
     Né tutto il mal che puote esser pensato,
     Se può pesar con questo alla bilancia,
     Ché quel cordoglio ogni martìre avancia.

55 Il non essere amato ed altri amare
     Avanza ogni martìr, come io te ho detto,
     E questa legge converrai provare,
     Se vôi fuggir de Amore ogni dispetto.
     Or, perché intenda, a te conviene andare
     Per questo bosco ombroso a tuo diletto,
     Sin che ritrovarai sopra a una riva
     Uno alto pino ed una verde oliva.

56 La rivera zoiosa indi dechina
     Per li fioretti e per l’erba novella;
     Ne l’acqua trovarai la medicina
     A quel dolor che al petto ti martella. -
     Così parlò la dama peregrina,
     Poi ne l’aria volò come una occella;
     Salendo sempre in su, del celo acquista,
     Onde a Ranaldo uscì presto di vista.

57 Lui doloroso non sa che si fare,
     Poi che incontrata ha sì forte ventura,
     Né tra se stesso puote imaginare
     Come tal cosa sia fuor de natura,
     Che veda gente per l’aria volare,
     Né contra a lor val forza né armatura.
     Da gente ignuda è vento il suo valore
     Con zigli e rose e con foglie di fiore.

58 A gran fatica il suo corpo tapino
     Levò dove languendo l’avea messo,
     E con più pena si puose in camino,
     Cercando intorno il bosco ombroso e spesso;
     E trovò verso il fiume l’alto pino
     E l’arbor de l’oliva a quello apresso.
     Da le radice stilla una acqua chiara,
     Dolce nel gusto e dentro al core amara;

59 Perché de amore amaro il core accende
     A chi la gusta l’acqua delicata;
     E però già Merlin per fare amende
     La fonte avea qua presso edificata,
     Che fa lasciar ciò che a questa se prende,
     Come io vi racontai quella giornata
     Quando Ranaldo bevette alla fonte,
     Ove Angelica poi n’ebbe tante onte.

60 Or nel presente non se racordava
     Più il cavallier di quel tempo passato,
     Ma come aponto in su ’l fiume arivava,
     Essendo doloroso ed affannato,
     Ché ogni percossa gran pena li dava,
     Sopra alla ripa fu presto chinato,
     E per gran sete il principe gagliardo
     Assai bevette e non vi ebbe riguardo.

61 Bevuto avendo ed alciando la facia,
     Da lui se parte ogni passata doglia,
     Benché la sete perciò non se sacia,
     Ma, più bevendo, più di bere ha voglia.
     Lui di questa ventura Idio ringracia,
     E standosi contento e con gran zoglia
     Li torna nella mente a poco a poco
     Che un’altra fiata è stato in questo loco;

62 Quando, dormendo ne l’erba fiorita,
     Con zigli e rose Angelica il svegliò,
     E ricordosse che l’avea fuggita,
     Dil che acramente se ripente mo.
     De amor avendo l’anima ferita,
     Vorebbe adesso quel che aver non pô,
     La bella dama, dico, in quel verziero,
     Ché nel presente non serìa sì fiero.

63 E biasmando la sua crudelitate
     E le grande onte fatte a quella dama,
     Tutte le amenta quante ne ha già usate,
     E sé crudele e dispietato chiama.
     Già la odïava poche ore passate,
     Più che se stesso nel presente l’ama;
     E tanta voglia ha dentro al core accolta,
     Che vôl tornare in India un’altra volta.

64 Sol per vedere Angelica la bella
     Un’altra volta in India vôl tornare.
     Venne a Baiardo per salire in sella,
     Che poco longi il stava ad aspettare:
     E così andando vidde una donzella,
     Ma non la potea ben rafigurare,
     Perché era dentro al bosco ancor lontana,
     Oltra a quel fiume, a lato a la fontana.

65 Le chiome avea rivolte al lato manco,
     E la cima increspata e sparta al vento;
     Sopra de un palafren crinuto e bianco,
     Che ha tutto ad ôr brunito il guarnimento,
     Un cavallier gli stava armato al fianco,
     Ne la sembianza pien de alto ardimento,
     Che ha per cimero un Mongibello in testa,
     Ritratto al scudo e nella sopravesta.

66 Dico che quel barone ha per cimero
     Una montagna che gettava foco;
     E ’l scudo e la coperta del destriero
     Avean pur quella insegna nel suo loco.
     Ora, cari segnori, egli è mestiero
     Questa ragione abbandonare un poco,
     Per accordar la istoria ch’è divisa:
     Torno a Brunel, che ancor dietro ha Marfisa.

67 Non lo abandona la donzella altiera,
     Ma giorno e notte senza fine il caccia,
     Né monte alpestro, né grossa riviera,
     Né selva, né palude mai lo impaccia.
     Ma Frontalate, la bestia legiera,
     Li facea indarno seguitar tal traccia:
     Quel bon destrier, che fu di Sacripante,
     Come un uccello a lei fugge davante.

68 Quindeci giorni già l’avea seguito,
     Né d’altro che di fronde era pasciuta.
     Il falso ladro, che è forte scaltrito,
     Ben de altro pasto il suo fuggire aiuta;
     Perché era tanto presto e tanto ardito,
     Che ogni taverna che avesse veduta,
     Dentro ve intrava e mangiava di botto,
     Poi via fuggiva e non pagava il scotto.

69 E benché i teverneri e’ lor sergenti
     Dietro li sian con orci e con pignate,
     Lui se ne andava stropezando e denti,
     E faceva a ciascun mille ghignate.
     A le qual fare avea tanti argomenti,
     Che donne spoletane o folignate,
     Qual porton l’ovo da matina a cena,
     Se avrian guardate da’ suoi tratti apena.

70 E pur Marfisa sempre il seguitava,
     Quando più longi, e quando più dapresso.
     - Al ladro! al ladro! - sempre mai cridava,
     E ciascun rispondeva: - Egli è ben desso. -
     Ogniom di quel giotton se lamentava,
     Perché e miglior boccon pigliava spesso,
     E loro il menacciavan pur col dito.
     Ora non più, ché il canto è qui finito.